SCRITTORI E POETI EUROPEI



di Giovanni RAMELLA,
italianista
1. MEMORIA COME LUOGO DELL'ASSENZA
E MEMORIA COME PROFEZIA NELLA POESIA DI MONTALE

Nel Tempo ritrovato di Proust, all'ultima festa celebrata in casa dei Guerman­tes, Marcel, a un tempo personaggio rammemorante e autore, trova il significato della sua Recherche, il bandolo di una vita spesa in trattenimenti mondani, in riti apparentemente senza senso e ricompone in unità, attraverso la memoria che si fa scrittura, quanto è andato perduto con la fine dell'infanzia: "I veri paradisi sono quelli che si sono persi" recita un'espressione famosa.
Più avanti, nel corso della stessa opera, Marcel comprende che la ricerca del tempo perduto viene a coincidere con la storia della sua vocazione di scrittore final­mente confermata e afferma: "L'arte è quanto vi è di più reale, la più austera scuo­la di vita, l'autentico giudizio finale".
La nostra conversazione su Montale è partita da Proust perché un discorso sul moderno non ha ragion d'essere se non iniziando da chi più di tutti ha esemplifica­to nella Recherche il nesso tra memoria, verità e scrittura. Il paradiso proustiano del tempo ritrovato, specola da cui Marcel comprende di essere divenuto adulto, è quindi il tempo terreno trasmutato dal ricordo ed "eternato dalla poesia, lontano sia dall'orizzonte platonico dove traluce il debole riflesso della verità, sia dall'orizzonte cristiano dell'eternità. Qui esiste solo l'eternità del tempo riscattato dalla finitudine, dalla sua insignificanza. La vana ricerca del tempo perduto è la storia segreta della vocazione letteraria di Marcel; il domani dello scrivere è infatti la soglia su cui il prima del percorso può mutarsi nel dopo del racconto. Ma che deve scrivere Marcel?
Sin dal primo tomo dell'opera, Du coté de chez Swann, nell'ossessiva analisi dei particolari Marcel vuoI dar corpo all'unica realtà in grado di crearsi una forma atta a far sì che i momenti spesi soltanto a vivere, a guardare senza vedere realmen­te, a sentire senza che sensazioni e sentimenti acquistino un valore, si facciano tem­po ritrovato in forza di una scrittura capace di cogliere quanto si nasconde dietro le cose.
È un tratto comune alla grande narrativa europea che in Joyce si fa ricerca delle epifanie, in Proust riscatto del tempo in forza della memoria e in Musil, allievo ideale di Husserl, ritrovamento delle essenze.
I tre scrittori pertanto, pur appartenendo a civiltà diverse, convergono nella ri­cerca del segreto ultimo irrefutabile, celato al di sotto delle cose.
In Proust ciò è ottenuto non tanto grazie a uno sforzo volontario, bensì in forza dell'intermittenza del cuore, cioè della memoria involontaria stimolata da una sen­sazione o da un oggetto. Il possesso della scrittura è reso possibile solo da un mira­colo, da un'illuminazione ottenuta al di fuori di ogni sforzo della volontà o dell' attenzione. Il romanzo si presenta infatti come un insieme di dati insignificanti accumulati nell'attesa dell'attimo epifanizzante atto a illuminare di senso tutto un passato che, per il solo fatto di poter tornare, ha in sé una capacità di permanenza già da sola attributo di universalità.
La grandezza della Recherche sta nel fatto che il privato, lo psicologico, quel mondo che si muove tra i salotti parigini mondani e letterari, è trasceso nella sua contingenza e i personaggi acquistano figura di universalità, Marcel stesso rappre­senta il soggetto-uomo, scriba di eventi che mirano a una registrazione nel libro del­l'eterno.
Il tempo ritrovato è così redento dalla condanna all'autodistruzione perché nel tornare disocculta il più prezioso bene di ciascuno dei suoi attimi: l'anima in essi celata. La Recherche è infine l'attingimento dell'essenza del reale: oltre il particola­re l'universale, oltre il contingente l'assoluto, oltre il temporale l'eterno.
La classicità dell'opera sta proprio nel librarsi in questa atmosfera di rarefatta metafisicità: siamo dinanzi al romanzo di un assoluto immanente che non conosce altra redenzione se non quella operata dalla scrittura.
Tutti i sensi cospirano a tale recupero; la parola diviene così luogo di una tran­sustanziazione diretta del reale nel segno sillabico che lo rappresenta, è percepita con l'occhio e l'orecchio nella consapevolezza di assistere ad una sorta di divinazione di ciò che la cosa è nel suo segreto. Il personaggio Marcel coltiva la sua vocazione di scrittore con un'ascesi laica mutuante dalla pratica e dal linguaggio religioso tut­ta una serie di riti che lo fanno sacerdote di una parola capace di assicurare durata alle cose riscattando le dallo sfacelo in cui tutto si consuma e disegna mirabilmente l'equazione realtà-memoria-scrittura.

Ciò che è al di qua della parola non ha senso: tutta la sua vita, la sua omoses­sualità occultata, i suoi turbamenti adolescenziali, la sua malattia si fanno materia­le, serbatoio per la scrittura. "Tout est abouti en un livre" di qui la sacralità del libro, luogo epifanico delle cose.
Lo spazio dedicato a questo romanziere dell'assoluto non è casuale: tale senso della memoria lo accomuna a quel filone che da Baudelaire, attraverso Mallarmé, discende a Valéry, all'Ungaretti del Sentimento del tempo e agli Ermetici degli anni Trenta per i quali la poesia è dimora dell'assoluto che conferisce senso al reale. Tale era già la linea della poetica pascoliana del Fanciullino: il poeta ha il ruolo orfico non solo di evocare le cose, ma di salvarle dalla dispersione. Poiché ciò non può realizzarsi al di fuori della parola, conta solo la scrittura che si direbbe autoreferenziale.
Diversa la situazione per Montale perché la memoria non tiene, non dura. Già nelle raccolte più antiche le liriche "Cigola la carrucola" e "La casa dei doganieri" attestano il fallimento del tentativo di realizzare l'identità soggetto-oggetto. Monta­le scrisse che il suo primo libro è il luogo dei prodigi falliti; ciò vale in un certo senso anche per i successivi. Pensiamo invece ai "Fiumi" di Ungaretti dove in forza dello scatto memoriale l'autore risale alle radici della sua gente e si sente "docile fibra de l'universo": i fiumi simboleggiano il "continuum" storico di cui il poeta è parte integrante. L'opera di Montale è voce dell'alterità, della non consonanza per cui il ricordare perde la sua efficacia di strumento redentivo. .
Se per Proust, in forza della dialettica bergsoniana, la memoria e la scrittura sono il luogo dell'essere volto a garantire la sopravvivenza dal processo di dissolu­zione cui soggetto e oggetti sono sottoposti dall'evoluzione creatrice, per Montale la memoria è destituita di senso, è non solo il luogo in cui si verifica l'interruzione di una comunicazione psicologica con l'altro, ma anche l'ambito in cui l'uomo si sco­pre ferito anche se non mortalmente.

Memoria dunque di una cesura che si è prodotta nella storia stessa dell'essere, memoria che non può aver senso se non in regime di oblio dell'essere secondo la lezione di alcuni filosofi della scuola torinese di Luigi Pareyson.
Se vogliamo cercare conferma in qualche rapido assaggio testuale possiamo partire dalle Occasioni, anzi sin dagli Ossi di seppia dove i versi di "Cigola la carrucola" o di "Non recidere forbice quel volto" insistono sulla labilità del rapporto comuni­cativo senza però giungere all'assunzione di una significanza metafisica come sem­bra avvenire ne La bufera.
Rifacendoci a quest'ultimo testo guardiamo all'inizio di "Verso Siena":

"Ohimè che la memoria sulla vetta
non ha chi la trattenga!"
o o alla composizione "Due nel crepuscolo" che recita:
"Fluisce fra me e te sul belvedere
un chiarore subacqueo che deforma
col profilo dei colli anche il tuo viso.
Sta in un fondo sfuggevole, reciso
da te ogni gesto tuo; entra senz'orma,
e sparisce, nel mezzo che ricolma
ogni solco e si chiude sul tuo passo".

Qui "il passo" che non lascia "orma" ci richiama ai "sentieri interrotti" di Hei­degger, la famosa ferita dell'essere.
li testo prosegue:
"Con me tu qui, dentro quest'aria scesa
a sigillare
il torpore dei massi.
Ed io riverso
nel potere che grava attorno, cedo
al sortilegio di non riconoscere
di me più nulla fuor di me: s'io levo
appena il braccio, mi si fa diverso
l'atto, si spezza su un cristallo, ignota
e impallidita sua memoria, e il gesto
già più non m'appartiene".
Dopo la "callida iunctura" di una memoria "ignota" appare interessante ai fini del nostro discorso la parte conclusiva:
"Non so
se ti conosco; so che mai diviso
fui da te come accade in questo tardo
ritorno. Pochi istanti hanno bruciato
tutto di noi: fuorché due volti, due
maschere che s'incidono, sforzate,
di un sorriso".
Emerge qui la tenace resistenza contro l'oblio di una memoria che si fa condanna cui l'uomo è destinato anche se il ricordare non sbocca nel recupero del passato.

A questo punto soccorre spontanea la menzione del Leopardi dei Grandi Idilli per il quale la memoria è il tempo dell'illusione che, verificato nella sua non verità, l'arido vero consente di mettere alla gogna senza mortificare l'istanza di assoluto da esso nutrita. Il ricordare per il Leopardi diventa così celebrazione di un vuoto, di quanto non ha mai avuto storia. In passi dello Zibaldone, risalenti al periodo compreso tra il 1826 ed il 1828, la festa riporta sempre a quanto è definitivamente tramontato: memoria è luogo del non ritorno, di un tempo che neppure il canto redime dalla sua insussistenza. Montale è quindi sulla linea di Leopardi.
Volendo ora chiarire cosa sia per il Nostro la memoria, ritorniamo a la "Casa dei doganieri", testo in cui il martellante "tu non ricordi" non circoscrive l'oggetto del rimembrare ma, come afferma Giorgio Barberi Squarotti nel saggio Gli inferi e il labirinto, fa della memoria, al contrario di quanto avviene in Proust, un atto volontario che tenta il recupero di un'essenza, di un evento ormai sommerso.
In Montale l'arte non è come in Proust sede de "l'autentico giudizio finale", è luogo dell'assenza di Dio dal mondo che non legittima tuttavia un pessimismo metafisico e gnoseologico di tipo leopardiano ma autorizza la speranza ostinata del­la rivelazione di un evento, la ricerca negli anfratti di un essere coinvolto con la storia stessa.
Sergio Givone e Ugo Perone, rifacendosi ai Sentieri interrotti di Heidegger, hanno collocato l'essenza del moderno nell'interruzione della tradizione da intendersi co­me apertura dell'abissalità dell'oblio in cui la memoria si perde sprofondando. In tale orizzonte il ricordo acquista quindi una posizione di centralità assoluta e si fa memoria delle origini.
Con pertinenza di riferimento, il pensiero ermeneutico si rifà al mito platonico della caverna andando oltre la rilettura già fortemente radicaleggiante di Heidegger. L'uomo della caverna non solo non ricorda, se non per tracce, ma sa che si è pro­dotta una frattura, una sorta di "peccatum mundi" e che mai saprà il contenuto dell'essenza; di qui il risalire lungo la china nell'attesa di segnali provenienti da un'ol­tranza.
Il rapporto quindi si inverte: non si tratta di memoria volta al passato, ma aper­ta verso il futuro. L'origine ci è preclusa se non in quanto se ne serba una traccia nel quotidiano il che denota la separazione della storia dall'essere senza che si siano totalmente rescissi i legami con esso.
Nel momento più alto della crisi della modernità, dopo il crollo delle certezze delle filosofie immanentistiche dal positivismo all'idealismo, si ritiene impensabile una metafisica svincolata e avulsa dalla storia, che d'altra parte, nel momento in cui postula una domanda di senso, rimanda all'essere. Storia e ontologia formano un nesso essenziale ma problematico in quanto non sono tra loro in un rapporto di opposizione dial_tica di natura hegeliana che le porterebbe a sfociare in una sin­tesi superiore. Se la storia vuole ritrovare un senso, deve retrocedere ad una sorta di ontologia radicata nella memoria che ogni giorno resiste e lotta per salvare il ri­cordo dell'essere nelle pieghe dei suoi avvenimenti.
La memoria, che riesce a catturare a tratti quel tanto di essere balenante nelle tracce, porta con sé i segnali delle sue ferite da cui l'essere stesso risulta arricchito.

 Tale è lo sfondo sui cui Montale va letto e commentato.
Leggere soprattutto La bufera e in parte le Occasioni e Satura significa oggi fare i conti con l'ermeneutica e soprattutto con il modo in cui la filosofia contempora­nea pone il rapporto storia-essere. Una storia che si conosce destituita di senso ma non demorde dal tentativo di ritrovarlo, un essere che non può non confrontarsi con la storia stessa.
Il senso della poesia di Montale va ricercato in quel dialogo ,permanente con un "tu" nella sua ossessiva ansia di dialogicità essa ha operato in una rottura con il mo­nologismo della tradizione simbolista ed è quindi lontana da Ungaretti, da Baude­laire e dalla poesia intesa come dimora dell'essere.
L'arte è quindi luogo di confronto e scontro con un Assoluto dimenticato e luo­go della non-memoria.
Il filosofo ebraico Emanuel Lévinas, nel compendiare in pregnante formula l'o­pera del poeta di lingua tedesca Paul Celan, e in particolare il discorso da questi pronunciato in occasione del conferimento del premio Georg Buchner, nel 1960, scriveva: "Il poema va verso l'altro... L'opera solitaria del poeta, che cesella la ma­teria preziosa della parola, è l'atto di stanare un faccia a faccia. Il poema diventa dialogo e spesso dialogo appassionato... incontri, cammino di una voce verso un tu vigilante".
In tale affermazione ci pare di cogliere una presa di distanza da un'idea della poesia come luogo dell'annessione dell'altro. Al contrario Montale e Celan confi­gurano la poesia come un percorso da un "io" a un "tu" in cui però non c'è via al colloquio se non a prezzo di una desostanzializzazione dell'io in una sorta di lotta di Giacobbe con l'angelo. Di qui il senso religioso della poesia montaliana di una religiosità rude, austera, veterotestamentaria, da patriarchi più che da profeti. La filosofia ebraica contemporanea, con Martin Buber in particolare, ha ripreso l'idea del rapporto io-tu. Il personalismo di Buber postula di continuo l'emergere dell'al­tro che può essere Dio ma può essere anche un "tu". Non è un caso che Lévinas, prima citato, intenda l'agire dell'Io come un'interpellanza non tanto dell'essere quanto del tu, come un aprirsi alle sue esigenze: è un modo nuovo di vivere, anche nel pen­siero, il precetto ebraico-cristiano "ama il prossimo tuo".
"Il poema così, diventa un dialogo espresso, appassionato, cammino verso un "tu" vigilante" contrariamente alla chiusa autosufficienza dell'arte tradizionalmente intesa che invece intronizza l'io nella sua assolutezza secondo un modello risalente all' estetica idealistica.
"Il poema, scrive ancora Celan nel discorso sopra menzionato, vuole andare da un Altro, di quest' Altro ha bisogno. Ha bisogno di uno che gli stia di fronte. Esso lo cerca, gli parla". Per il poema che ha presente l'Altro, ogni cosa, ogni in­terlocutore, divengono "figura di quest' Altro."
Sembra questo un degno commento a La bufera di Montale in cui appare insi­stente la ricerca ossessiva di un altro le cui tracce si ritrovano nei simboli sindonici del "sudario insanguinato" e dell"'Iri del Canaan" o nelle figure femminili desu­blimate nei correlativi oggettivi.
Il discorso poetico sfocia così in una sorta di attenta contemplazione dell'alteri­là e si fa luogo della mediazione tra un "tu" che si offre e un "altro" che auroralmen­te si rivela.

Guardiamo ancora ad alcuni testi tratti dal libro più metafisico di Montale: La
Bufera.

In "Piccolo testamento" l'angelo che scende nel segno del "kairòs" per dirci "è l'ora" costituisce veramente il momento forte del giudizio, ben altro dal "kai­ròs" proustiano che si realizza solo nella scrittura. Proviamo a leggere:
"Non è un'eredità, un portafortuna
che può reggere all'urto dei monsoni
sul fil di ragno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l'estinzione."
Qui tutti i segnali vengono capovolti: della memoria si celebra la labilità, la sto­ -
ria è annullata nella cenere e in essa non s'intravede alcuna garanzia di durata.
"Persistenza è solo l'estinzione": con una "contradictio in adiecto" il reale è fatto luogo delle contraddizioni permanenti di cui è intessuto l'Assoluto stesso se è vero che l'essere è coinvolto nella storia.
"Voce giunta con le folaghe" si presenta come un ossequio alla memoria del padre, ma sarebbe riduttivo leggerla in tale accezione. Dopo chiare allusioni a sim­bologie e ritualità purgatoriali e infernali di matrice dantesca, si allude in essa a una memoria che "non è peccato finché giova" cioè finché consente il varco verso l'al­to, si fa memoria dell'essere.
"Dopo
è letargo di talpe, abiezione
che funghisce su di sé"
e avremo "il morto reliquario" cui si allude nella poesia "In limine" che apre Ossi di seppia.
Il Nostro prende le distanze dalla poesia monologizzante di tanta tradizione sim­bolista, un modulo cui lo stesso Ungaretti tenne fede a partire dal Sentimento del tempo:

"Il vento del giorno
confonde l'ombra viva e l'altra ancora
riluttante in un mezzo che respinge
le mie mani, e il respiro mi si rompe
nel punto dilatato, nella fossa
che circonda lo scatto del ricordo".

Il "fossato" impedisce alla memoria di inarcarsi e ne segna lo scacco.

"Così si svela prima di legarsi
a immagini, a parole, oscuro senso
reminiscente, il vuoto inabitato
che occupammo e che attende fin ch'è tempo
di colmarsi di noi, di ritrovarci."
La lirica andrebbe letta a partire dall'epifania finale che è però rivelazione "del
vuoto" e lascia aperti alcuni interrogativi.
In "Satura", il primo dei libri non più lirici, Montale getterà finalmente la ma­schera e dirà: "Tu sei stata l'unica viva, tutti gli altri sono morti e non sanno di esser­lo".

Per cui lo spazio pieno, la storia, e in realtà il mondo dei morti.
Nel finale sembra che la caduta della parete divisoria tra la vita e la morte, tra il tempo dell'esistere e l'assoluto, non riveli una dimensione nuova: è uno sprofon­dare nel buio non sorretto dalla speranza nella resurrezione.
Osserviamo ancora come il ruolo della parola qui non potrebbe essere che depres­so, ironizzato. "Immagini e parole" non sono lo scrigno che rivela il senso ultimo del reale come pretendeva Proust ma, al contrario, sono "oscuro senso reminiscente" .
Siamo dinanzi a una premonizione del vuoto che la parola,non riuscirà a svela­re: siamo all"'elogio della balbuzie" come attesta Angelo Jacomuzzi nel suo vali­dissimo saggio montaliano.
Concludiamo con l'esegesi di "Giorno e notte" scelta perché nel breve arco dei versi si ritrova l'oscillazione tra gli opposti poli della memoria come epifania di un'as­senza e come ritrovamento di una presenza baluginante.
Il poeta pare qui disegnare un profilo di donna in un paesaggio borghigiano trac­ciato su echi pascoliani. Tali tracce, così eteree da rapportarsi a una piuma o a un raggio di luce, evocano una figura femminile degradata tuttavia dalla greve presen­za di oggetti materiali quali il "pappagallo" o "la ruota dell'arrotino", forse segna­li di una monotona ripetitività scandita dall'alternarsi delle albe e dei tramonti.
Nonostante rimandi a numerosi elementi del quotidiano, la poesia non va letta come un idillio familiare: s'incastrano in essa di continuo l'uno nell'altro lo strato primo e lo strato onirico.
L'uomo sogna se stesso bambino; in un sonno agitato rivive la morte dell'allo­dola "perigliosa annunciatrice dell'alba" e sulla memoria dell'infanzia s'innesta l'e­vocazione del presente: la tragedia della guerra, l'urlo delle sirene, lo schianto delle bombe, le scene di panico.
"Si destano i chiostri e gli ospedali
a un laceri o di trombe."
Qui un filo sotterraneo collega la memoria diurna della donna divina al sogno infantile dell'allodola lacerata e, con un'ambiguità tipica di questo terzo libro, ci consegna l'immagine femminile messaggera del giudizio ultimo ma anche angelo del­l'Annunciazione.
Nel finale il sogno infantile si carica di nuove valenze apocalittiche: sulla morte dell'allodola e sulla memoria di un trauma infantile s'innesta il giudizio dell'umani­tà con quel tanto di nuovo che comporta l'autentico "kairòs", segnato dal conflui­re del tempo nell'eterno.
E' la storia riscattata dal giudizio di Dio.
I bombardamenti, i chiostri, gli ospedali affollati di feriti diventano metafora del giudizio universale e la figura aviforme riacquista peso e senso come annuncia­trice del nuovo che non è l'alba radiosa della resurrezione ma il giorno tetro della sentenza ultima.
Possiamo concludere riflettendo sull'avverbio "sempre" dell'ottavo verso:
"Poi la notte afosa
sulla piazzola, e i passi, e sempre questa dura
fatica di affondare per risorgere eguali
da secoli, o da istanti, d'incubi che non possono
ritrovare la luce dei tuoi occhi nell'antro
incandescente - e ancora le stesse grida e i lunghi
 pianti sulla veranda"
che connota la chiusura entro un plumbeo orizzonte, la condanna alla ripetitività, e sull"'ancora" che, al contrario, rimanda all'idea kirkegaardiana di un ritorno del­l'impossibile, dell'uno, verificato però soltanto in sogno e tuttavia premonizione del giudizio universale, della "bufera" come ci ricorda il titolo del libro.
La poesia di Montale è tutta tesa tra la sensazione angosciante del sempre di contro alla speranza di un ritorno che rompa la monotonia della ripetitività. In tal caso la memoria montaliana si carica di un'apertura all' Assoluto, è veramente dia­logica proprio perché non demorde dall'attesa dell'epifania del nuovo anche se in­capace di trattenerlo come accade a Dante nei confronti della visione beatifica di Dio.
E.Montale La Bufera e altro Milano - Mondadori 1961

GIORNO E NOTTE

Anche una piuma che vola può disegnare
la tua figura, o il raggio che gioca a rimpiattino
 tra i mobili, il rimando dello specchio
di un bambino, dai tetti. Sul giro delle mura
strascichi di vapore prolungano le guglie
dei pioppi e giù sul trespolo s'arruffa il pappagallo
dell'arrotino. Poi la notte afosa

sulla piazzola, e i passi, e sempre questa dura
fatica di affondare per risorgere eguali
dai secoli, o da istanti, d'incubi che non possono
ritrovare la luce dei tuoi occhi nell'antro
incandescente - e ancora le stesse grida e i lunghi pianti sulla veranda
se rimbomba improvviso il colpo che t'arrossa
la gola e schianta l'ali, o perigliosa
annunziatrice dell'alba,
e si destano i chiostri e gli ospedali
a un lacerio di trombe...

PICCOLO TESTAMENTO

Questo che a notte balugina
nella calotta del mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato..:
non è lume di chiesa o d'officina
che alimenti
chierico rosso, o nero.
Solo quest'iride posso
lasciarti a testimonianza
d'una fede che fu combattuta,
d'una speranza che bruciò più lenta
di un duro ceppo nel focolare.

Conservane la cipria nello specchietto
quando spenta ogni lampada
la sardana si farà infernale
e un ombroso Lucifero scenderà su una prora
del Tamigi, del Hudson, della Senna
scuotendo l'ali di bitume semi­-
mozze dalla fatica, a dirti: è l'ora.
Non è un'eredità, un portafortuna
che può reggere all'urto dei monsoni
sul fil di ragno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l'estinzione.
Giusto era il segno: chi l'ha ravvisato
non può faIlire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi: l'orgoglio
non era fuga, l'umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato
laggiù non era quello di un fiammifero.

VOCE GIUNTA CON LE FOLAGHE

Poiché la via percorsa, se mi volgo, è più lunga
del sentiero da capre che mi porta
dove ci scioglieremo come cera,
ed i giunchi fioriti non leniscono il cuore
ma le vermene, il sangue dei cimiteri,
eccoti fuor dal buio­
che ti teneva, padre, erto ai barbagli,
senza scialle e berretto, al sordo fremito
che annunciava nell'alba
chiatte di minatori dal gran carico
semisommerse, nere sull'onde alte.

L'ombra che mi accompagna
alla tua tomba, vigile,
e posa sopra un'erma ed ha uno scarto
altero della fronte che le schiara
gli occhi ardenti ed i duri sopraccigli
da un suo biocco infantile,

l'ombra non ha più peso della tua
da tanto seppellita, i primi raggi
del giorno la trafiggono, farfalle
vivaci l'attraversano, la sfiora
la sensitiva e non si rattrappisce.

L'ombra fidata e il muto che risorge,
quella che scorporò l'interno fuoco
e colui che lunghi anni d'oltretempo
(anni per me pesante) disincarnano,
si scambiano parole che interito
sul margine io non odo; l'una forse
ritroverà la forma in cui bruciava
amor di Chi la mosse e non di sé,
ma l'altro sbigottisce e teme che
la larva di memoria in cui si scalda
ai suoi figli si spenga al nuovo balzo.

- Ho pensato per te, ho ricordato
per tutti. Ora ritorni al cielo libero
che ti tramuta. Ancora questa rupe
ti tenta? Sì, la bàttima è la stessa
di sempre, il mare che ti univa ai miei
lidi da prima che io avessi l'ali,
non si dissolve. lo le rammento quelle
mie prode e pur son giunta con le folaghe a distaccarti dalle tue. Memoria
non è peccato fin che giova. Dopo
è letargo di talpe, abiezione

che funghisce su sé... ­

Il vento del giorno
confonde l'ombra viva e l'altra ancora
riluttante in un mezzo che respinge
le mie mani, e il respiro mi si rompe
nel punto dilatato, nella fossa
che circonda lo scatto del ricordo.
Così si svela prima di legarsi
a immagini, a parole, oscuro senso
reminiscente, il vuoto inabitato
che occupammo e che attende fin ch'è tempo
di colmarsi di noi, di ritrovarci...

 

 

2.

DALL'ETICA ALL'ONTOLOGIA DELLA PERSONA:

PER UNA RILETTURA DI DOSTOEVSKIJ

La "Leggenda del grande inquisitore" è fondamentale nell'opera di Dostoev­skij. Secondo autorevoli filosofi quali Giuseppe Riconda e Sergio Givone rappre­senta anche uno snodo nella storia della cultura russa prerivoluzionaria tra il 1880, data di pubblicazione dei Fratelli Karamazov, e gli anni della grande guerra. I nomi di Rosanov, di Chestof, di Berdjaev sono la riprova di come la "Leggenda", ben lungi dall'essere ritenuta un mero pretesto narrativo, abbia tormentato gli spiriti più inquieti qualunque sia la posizione da loro assunta. .
Ebbene, in un luogo centrale dei "Fratelli Karamazov", nel bel mezzo di una discussione tra Ivan e Alioscia in un ristorante della Città di provincia dov'è am­bientata la vicenda, Ivan chiede al fratello se conosce le ragioni del loro incontro: "Forse a noi due, sono cose che ci riguardano - si mise a ridere Ivan - di quello che preme a noi (problemi di famiglia, torbide situazioni in cui si è invischiato il padre) avremo pur sempre tempo di discorrere. Tu mi guardi meravigliato; Ma per­ché ci troviamo qui insieme? Forse per parlare del vecchio, o di Dimitri, o dell'este­- ro,dell'inquietante situazione della Russia, dell'imperatore Napoleone. E' per questo?"
"No, non per questo" risponde Alioscia
"Allora lo capisci anche tu - Ivan riprende - A ciascuno la sua preoccupazione. A noialtri, teneri di becco, interessa prima di ogni altra cosa risolvere i problemi eterni. "
Qui è in gioco il problema di Dio e per bocca di Ivan parla Dostoevskij stesso. Dirà poco più avanti Ivan: "Da dove cominciare? Cominciamo da Dio?" Il pro­blema di Dio è il "problema" per eccellenza. Non è una discussione accademica che lascia tutto al punto di prima, ma è qualcosa che raggiunge le radici stesse del­l'esistenza, chiama in causa il "sottosuolo", tipica espressione dostoevskiana, al­meno da un certo momento della sua produzione in poi, chiama in causa l'essere dell'uomo e l'Essere stesso.
L'energia con cui Dostoevskij ha posto il problema del rifiuto di Dio o della sua riaffermazione lo fa ascrivere tra gli antesignani della filosofia dell'esistenza. Il problema di Dio coinvolge a tal punto l'uomo da non poter essere accantonato e si situa lungo una linea che giunge sino a Heidegger e a Sartre.
Il problema di Dio, tuttavia, non sempre viene affrontato direttamente come nei Fratelli Karamazov, ma resta sullo sfondo anche nei libri apparentemente di­simpegnati quali il Sosia, appartenente alla produzione giovanile, o in opere in cui non si fa cenno ad esso se non molto indirettamente come nelle Memorie del sotto­suolo che segna una svolta nella produzione dostoevskiana degli anni sessanta. Non compare direttamente neppure nei Demoni. E' sempre tacitato, rimosso, rinviato e tuttavia urgente, come una presenza misteriosamente fascinosa ma anche contur­bante, una presenza addirittura annichilente che s'impone al punto tale da costrin­-
gere anche l'indifferente a pronunciarsi su di essa.
La ricerca di Dio, o meglio dell' Assoluto, che inizia nell'incertezze nell'angoscia, terminerà nella certezza e nella gioia, almeno dal punto di vista della finzione romanzesca, nell'ultima opera senza tuttavia liberare lo scrittore dal dubbio che re­clama il diritto di convivere con la fede.

.Uno dei nodi decisivi della narrativa dostoevskiana ha il suo nucleo nel cosid­detto "Uomo del sottosuolo" o nel cosiddetto "sottosuolo" inteso come luogo in cui vivono i personaggi, come grembo oscuro in cui si agitano pulsioni, istinti re­pressi, l'inconscio freudiano potremmo dire con un'anticipazione quasi mitopoieti­ca, e nello stesso tempo esperienza che sbocca in presenza dello stesso essere.

Esperienza del sottosuolo psicologica, pertanto, ed etica o meglio antipsicologi­ca ed antietica nel senso che si configura come una contraddizione in termini di ogni psicologia della verisimiglianza anche dal punto di vista narrativo e come esaltazio­ne dell'insussistenza della morale. È la prima affermazione coerentemente nichilisti­ca che tuttavia sbocca dal piano meramente etico e psicologico al piano ontologico in quanto le strutture profonde dell'essere sono le strutture stesse del sottosuolo.
Ma chi è l'uomo del sottosuolo? Volendo tentarne una definizione possiamo ve­derlo come il primo uomo vuoto apparso nella letteratura mondiale, il progenitore di Raskolnikov di Delitto e castigo, di Svidrigailov nella stessa opera, è la forma originaria che assumerà il nulla profondissimo, senza "limìti, che nei "Demoni" si chiamerà Stavrogin. L'uomo. del sotto suolo è anche l'ultima incarnazione del de­moniaco rappresentata da Ivan Karamazov.
Se l'uomo del sottosuolo è vuoto, non può possedere carattere, non condivide alcuno dei sentimenti e delle idee che cadono in quel "lago d'indifferenza", direbbe Montale, che è il suo cuore, non sopporta definizioni, è un contrario, un rovescio, il negativo di qualsiasi negativo.
Pur divorato dalla sete di rendere male per male, non crede nei propri sentimenti, gli manca quella fiducia in se stesso che dovrebbe animare la sua sete di vendetta.
All'origine dell"'uomo del sottosuolo" sta una sottile noia invincibile che av­volge la sua esistenza e rende inutile ogni tentativo per redimersi da essa. Gli resta una sola risorsa: fingere sentimenti che non prova per cui si offende, declama, s'in­namora, recita le parti del marito felice, del padre amoroso trapassando insensibil­mente da uno stadio all'altro, attraversando, si può dire, l'intera gamma dei sentimenti umani senza soffermarsi su alcuno di essi stabilmente, non trovando mai un "ubi consistam" non c'è esperienza che gli sia estranea ossessionato com'è dall'ansia di vincere la noia.
Vive così nella menzogna o meglio in uno spazio in cui il discrimine tra menzo­gna e verità viene a cadere.
Nello "spirito del sottosuolo" o "spirito sotterraneo", a seconda di come viene tradotto il titolo del libro, si colloca l'esperienza del protagonista che pone tutto il suo impegno nel redimere una prostituta al punto da conquistarla al suo amore e indurla ad abbandonare la sua vita di perdizione salvo poi congedarsi da lei con una risata sprezzante e umiliarla gettandole una manciata di rubli quale ricompensa per il servigio prestato, o meglio mancato.
Questo è lo spirito proprio dchi non crede a nulla: "Amare significa tiranneggiare e dominare moralmente" scrive infatti l'uomo del sottosuolo: "Durante tutta la mia vita sono giunto al punto di pensare che l'errore non consista in altro che nel diritto, liberamente accordato dall'essere amato a colui che ama, di tiranneg­giarlo. Nella mia prima fantasia da sottosuolo, non m'immaginavo l'amore che co­me una lotta. Cominciavo sempre con l'odio per finire con l'assoggettamento morale."
È tipica poi dell'uomo del sottosuolo la rivendicazione di una libertà senza limi­
ti per cui disconosce l'ordine necessario della natura e della ragione.
La libertà dell'individuo si afferma infatti come rivolta contro la necessità del­
l'ordine e della coscienza morale.
Non solo vengono ripudiate le verità matematiche, ma addirittura nel vissuto concreto l'uomo del sotto suolo rivendica la sua originalità ricercando sensazioni di dolore, proclama il suo diritto all'infelicità negando l'idea che la felicità sia una con­dizione naturale: la sofferenza diventa il paradiso in cui si crogiola masochisticamente.
Quali le ragioni di questa innaturalità di sentire? Questo atteggiamento di con­traddizione, di rivolta, di negazione, volutamente sado-masochistico ha una radice che la ragione può illuminare o è avvolto nel buio dell'irrazionale?
A un'analisi approfondita tale esperienza può definirsi come una configurazio­ne distorta del rapporto tra l'io e gli altri. La sfiducia in se stessi, il non-amore di sé hanno come correlato non l'amore, ma l'odio del prossimo. La sovversione del­l'ordine naturale, la non accettazione della propria finitudine, sfociano nell'odio per gli altri.
Uno strano rapporto lega l'uomo del sotto suolo ai suoi simili. All'origine c'è una sorta di masochismo: il masochista è l'artefice affascinato dalla propria infeli­cità che ricerca quindi l'umiliazione proprio perché immensamente vanitoso e orgo­glioso. La situazione originaria è pertanto una situazione di peccato che si configura come rivolta contro l'ordine naturale, come non accettazione dei propri limiti, co­me superbia sconfinata, incarnazione moderna della colpa di Adamo. Quest'orgo­glio ingenera un'illusione di onnipotenza tanto più facile da dissipare quanto più è totale. Tra l'io e gli altri si stabilisce sempre un rapporto e il prestigio che l'uomo attribuisce a un rivale troppo fortunato diventa così la misura della propria vanità.
L'orgoglio è una potenza contraddittoria, è l'egoismo estremo che può conver­tirsi in apparente abnegazione, può trasformarci addirittura in schiavi dell'altro il cui successo scatena questa forza di autonegazione, di automortificazione. E' il pec­cato mortale di Stavrogin ne I demoni; non si dimentichi che "Stavros" nella pro­nuncia russa del greco "stauròs" è "l'imitatore della croce" non nell'umiltà ma nella superbia, colui che, deluso dalle esperienze precedenti, trova nell'umiliazione di sé una ragione di soddisfazione nascosta, occasione di farsi spettacolo agli altri e giun­gere così a un' esperienza inedita, a una sensazione mai assaporata.
C'è quindi un nesso invisibile tra l'esaltazione forsennata di se stessi, l'egoismo smisurato e la propria autoumiliazione che ingenera l'elogio sperticato degli altri, un rapporto insincero e strumentale con il prossimo in cui il servilismo non è che la maschera dell'idolatria di sé.

Per i due innamorati di una stessa donna, questa è un pretesto per scatenare il proprio odio sconfinato per il rivale, stretto parente dell'elogio sperticato di lui e addirittura dell'umiliazione di sé. Si instaura un rapporto tra il sadico e il maso­chistico dove il primo sa di essere funzionale al secondo nel senso che ne asseconda la voluttà di umiliazione, questi ha ragion d'essere nella misura in cui trova chi ap­paga la sua volontà di autoumiliazione.
La morale della generosità è quindi in tal caso apparente. Nel mondo del sotto­suolo regna la verità dell'egoismo, dell'ambizione, dell'orgoglio, della volontà di pre­varicazione. In superficie non emergono che i cerimoniali di una società vuota in cui il masochista fa professione di illimitata soggezione agli altri.
Al culmine dell'esperienza del sottosuolo si situa l'esperienza del doppio, cioè della coscienza scissa e sdoppiata. L'orgoglioso è infatti colui che si crede uno men­tre si divide in un essere disprezzabile ai suoi occhi e in un osservatore che disprez­za. In un certo senso l'io diventa altro, un altro che assume figura di essere odioso cui tuttavia non si può non rendere omaggio in quanto incarna la riuscita delle am­bizioni frustrate del soggetto stesso.
Il fallimento delle proprie ambizioni lo costringe a prendere il partito dell'altro che gli rivela la sua nullità. Si ha quindi una profonda divisione in cui l'io per un verso si riconosce miserabile, indegno di pietà e prova vergogna profonda di sé mentre l'altro assume la duplice figura di chi tiranneggia a buon diritto perché rappresenta l'inveramento dei sogni in cui l'io è fallito, ma ha anche un volto odioso in quanto è l'ostacolo gettato sulla strada dell'io e delle sue ambizioni smisurate e quindi tutte fallibili.
Il rapporto con l'altro si configura a questo punto come un compromesso inevi­tabile non solo sul piano esistenziale ma, vedremo più avanti, addirittura metafisi­co. L'altro viene allora assolutizzato, assume figura di Dio, rappresenta quella totalità dell'essere di cui ci sente espropriati. Avviene qui il trapasso dal piano dell'esperien­za psicologica ed etica (anzi della negazione dell'etica) a quello dell'esperienza me­tafisica. L'ontologia del sottosuolo ci presenta un essere scisso in cui l'io e l'altro sono in perpetua guerra. Non solo la storia e l'umanità sono lacerate da profondi conflitti, ma l'io è tormentato sino alla tomba dal fantasma dell'altro, dramma emer­gente soprattutto nell' opera che precede i grandi romanzi.
Compaiono già segnali nel Sosia e persino in Umiliati e offesi ma il nodo decisi­vo è rappresentato dalle Memorie del sottosuolo dove si narra l'avventura della scissione del proprio io e dell'impossibile sua ricomposizione.
Il Dostoevskij maggiore dei quattro grandi romanzi: Delitto e castigo, L'idiota, I demoni, I fratelli Karamazov non fa che dare forma a queste diverse figure del sottosuolo, scisse e sdoppiate ad eccezione de L'idiota dove compare un personag­gio totalmente positivo che, forse per questo, a molti non piace.
In Delitto e castigo c'è un tentativo di uccidere l'altro, di ricomporre questa uni­tà scissa e frantumata. Infatti Raskolnikov, il cui nome deriva da "raskol" che nel­la lingua russa significa "divisione", uccide con lo scopo di porre il suo orgoglio su basi incrollabili. ­
Si cerca di oltrepassare l'etica naturale che impone di non uccidere. Nella vec­chia usuraia si uccide un principio, una sorta di demone del male; si uccidono l'usura e l'avarizia. Egli è cosciente di pregustare già l'inveramento di un sogno prometeico­romantico che da Nietzsche in poi si chiamerà il sogno del superuomo.
Raskolnikov, per dare una base sicura al suo orgoglio, immagina che il suo de­litto, escludendolo dalla morale comune, lo preservi dall'irruzione dell'altro nei propri territori. Ma l'altro ricompare come provano i rimorsi che assediano la coscienza di Raskolnikov, l'inquietudine che lo opprime subito dopo il delitto, e lo prova il fatto che il rapporto di soggezione quasi vittimistico dei romanzi precedenti, dall'Eter­no marito alle Memorie del sottosuolo si instaura anche qui. La figura dell'altro è incarnata da Porfiri, il giudice inquisitore, e tale è la forza di suggestione emanata da questi, che l'omicida non avrà alcuna esitazione nel denunciarsi a lui.
L'immagine della sicurezza, della riuscita, il tutore della legge che Raskolnikov pretendeva di espellere, è proprio incarnata da questi biechi giudici, burocratici cu­stodi di quell'ordine sociale repressivo che è lo zarismo. Dal punto di vista di un'a­nalisi meramente socio-politica l'anarchico rientra nei ranghi della conservazione riconoscendo l'ordine assoluto incarnato dall'altro. La salvezza avviene per via mi­stica ma la conversione è appena intravista, propiziata da una prostituta. Non è un caso che la luce misteriosa intravista da lontano gli giunga attraverso la lettura del miracolo della resurrezione di Lazzaro, dal capitolo undicesimo del Vangelo di San Giovanni, fatta a lui da Sonia stessa.
Nei Demoni il protagonista, Stavrogin, è oggetto di venerazione da parte di tutti perché agli occhi di tutti è un dio, non in sé, ma per gli altri. In questa fenomenologia­ del sottosuolo dio non esiste, o meglio, esiste per gli altri nel senso che è l'altro a essere assolutizzato. Qui viene assolutizzato Stavrogin, oggetto di ammirazione non solo per il padre spirituale, il vecchio Stepan Verchovenskij, contraffazione del padre della trilogia trinitaria, di cui lui è figlio adottivo, eletto a preferenza del fi­glio naturale, Piotr Stefanovic, ma anche da parte del circolo dei nichilisti che si muove intorno ad essi.
Si compie nei Demoni il trapasso alla metafisica già preannunciato in Delitto e castigo. E' proprio in tale opera che l'idolo assume figura di ostacolo permanente e non rimovibile contro cui si infrangono i sogni del rivale-adoratore. Solo in que­sta condizione esso può essere assolutizzato da chi ritiene se stesso un dio e tende a identificarsi con l'idolo-ostacolo.
Il contatto con l'idolo avviene nella sofferenza, ed è celebrato nella cornice di un‘immensa liturgia del male che si specifica nella negazione assoluta, nella disso­ciazione
e, nelle sue forme più rituali, nella profanazione, in un Satanismo senza confini.
L'esperienza del sacro è rovesciata nella sua controfigura e nella parodizzazione­
del divino, ma la sofferenza non è apportatrice di salvezza come quella del­l'Evangelo, propiziata da Sonia Marmeladova che lascia presentire la redenzione Raskolnikov. Essa è un'esperienza che annienta ed ha come esito ultimo la morte.
Masochismo e sadismo costituiscono i sacramenti di questa mistica del sotto­suolo: la sofferenza cui si votano i suoi adepti non è espiatrice, ma è un altro risvolto­ dell'orgoglio smisurato costretto a venire a patti con l'altro. Orgoglio smisurato perché il sogno prometeico di divinizzazione di sé è irrealizzabile, perché le risposte della storia sono limitanti e ogni realizzazione non può che darsi nella finitezza che esclude l'infinità del sogno.
Qui il Romanticismo consuma la sua estrema parabola. Dostoevskij rappresen­ta non solo la liquidazione del Romanticismo, ma fa piazza pulita delle filosofie pragmatistiche.È stato detto da un insigne studioso come René Girard che viene qui smascherata l'utopia della morale dell'utile propugnata dalla borghesia ottocen­tesca per cui l'interesse dei singoli coincide con l'interesse comune. Esito ultimo è il nichilismo che rappresenta una stazione sperimentale per poter ritrovare se non la fede, la ricomposizone della persona, la ricomposizione in unità e in armonia del­l'io con l'altro. La morale dell'utile è una pseudo-morale. L'opera dostoevskiana rappresenta la risposta dal versante di Raskolnikov, di Petr Verchovenskij, di Kiril­lov, di Stavrogin e di Ivan Karamazov all'insipienza e all'impraticabilità dell'utopia laico-liberale del pragmatismo ottocentesco.

La cultura del nichilismo che ha assunto l'ego come misura del mondo, misura illimitata costretta pertanto a venire a un patto, non più sul piano esistenziale ma metafisico, di non aggressione con l'altro, ha ucciso consapevolmente Jahvé, il Dio biblico, un dio geloso, morto prima che Nieztsche lo uccidesse. La filosofia moder­na, da Cartesio in poi, è venuta a uccidere Dio nel senso che loha espropriato delle sue prerogative di esclusività. Il culto di Jahvé, il "dio geloso", esclude gli idoli, esclude qualsiasi mediazione, si rende in spirito e verità. Dio lopretende per sé solo,per cui l'idolatra è l'infedele che devia tale culto sostituendosi a Dio sia che l'idolo sia lui stesso, sia che venga a compromesso con altri. L'io assume per sé questa pre­tesa di esclusività, di culto divino. Ogni filosofia del soggettoe, detto in termini esistenziali, ogni soggettività, deve pertanto fondare l'essere del reale nella sua tota­lità e affermare le parole con cui Jahvé si rivela a Mosé nel roveto ardente: "lo sono Colui che è". La pretesa di occupare l'intero orizzonte dell'essere è il sogno smisurato che si cela già nel "Cogito" cartesiano e attraversa tutta la parabola della cultura laico-liberale settecentesca sino all'Illuminismo. La filosofia moderna pre­tende di fare della soggettività la fonte unica dell'essere stravolgendo così l'ontolo­gia classica. È qui che si afferma lo spirito del sottosuoloche secondo Dostoevskij, uomo dell'oriente slavo, connota la cultura occidentale fondata sul soggettivismo. L'io non è tuttavia un oggetto contiguo ad altri io oggetto: è con l'altro in un rap­porto ineludibile e tale bipolarità insistita rappresenta un ostacolo permanente alla divinizzazione dell'uomo, ansia prometeica che sostiene la cultura moderna da Car­tesio a Hegel. Il rapporto con l'altro comporta questo patto di non aggressione me­tafisica che, come tutti i patti di non aggressione, è fittizio e non coglie la profondità dell'essere. La divinità pertanto non può toccare né all'io né all'altro. Se tocca al­l'io, l'altro ne è escluso, ma all'io non potrà mai toccare al di fuori del rapporto dialettico con l'altro destinato ad essere il bastone gettato fra le ruotedell'io. Se è così, la divinità non può che essere incessantemente disputata tra l'io e l'altro.
L'impostazione del rapporto io-altro come atteggiamento antagonistico non tocca quindi soltanto il terreno etico. La mancata accettazione dell'altro come persona irriducibile all'io, il rifiuto di accettare la propria finitudine conseguono alla pretesa di spossessamento diDio. Le tante soggettività di cui è formata l'umanità, irriduci­bili come sono l'una all'altra, non possono infatti che vivere in un rapporto di per­manente dissidio l'esperienza centuplicata del doppio (nel senso che ciascuno di noi è un doppio). Tale esperienza diviene tuttavia insopportabile e non può pertanto avere come frutto che la follia suicida di Ivan, di Kirillov e soprattutto il suicidio disperato di Stavrogin nei Demoni.
Che cosa avviene secondo lo spirito del sottosuolo?
Secondo la diagnosi di Kirillov, il grande martire di tale religione del nulla, il male viene dal desiderio di immortalità acceso da Cristo nell'uomo e Kirillov stesso si uccide non per la disperazione di non essere immortale, ma per possedere l'infini­to della propria libertà nell'accettazione totale della propria finitezza. Emerge qui un altro paradosso: l'estrinsecazione della propria infinita libertà è compiuta nel­l'atto stesso in cui si accetta la propria finitezza. La sete di mortalità accesa dal germe dell'Evangelo viene così repressa e il suicidio di Kirillov diventa gesto esem­plare, con una sua efficacia metafisica; egli non ha più bisogno come Raskolnikov di uccidere l'Assoluto immolando un proprio simile, uccide se stesso e quindi la pretesa di immortalità nascosta nel suo io. Kirillov sembra quindi tendere ad una redenzione rovesciata di segno.
Uno strano rapporto di amore e odio a un tempo col Cristo lo conduce non tanto all'imitazione ma se mai alla parodizzazione dell'Evento redentivo della Cro­ce quasi volesse correggerlo. Il Cristo assume quindi la figura di un rivale amato e odiato a un tempo; nella prospettiva nichilistica di Kirillov, è la reintegrazione più sublime dell'altro che si cerca di imitare secondo una struttura tipica dell'Evangelo e delle civiltà postcristiane per cui non si può agire se non assecondando l'impulso ad imitare l'altro, se non contraffacendo. L'essenza del sottosuolo qui rivelata non è quindi l'umile imitazione di Gesù, ma l'imitazione orgogliosa e satanica dei demoni.
Al suicidio di Kirillov, che ha qui significato esemplare, fa riscontro il suicidio disperato di Stavrogin, di chi pretende di umiliarsi, ma senza pentimento, sentimen­to di cui prova vergogna. La confessione appare invece dettata da una libidine di natura masochistica che fa annettere all'orizzonte dell'esperienza qualcosa di inedi­to e spettacolare senza quel fondo di umiltà autentica, condizione del perdono vero.
Dostoevskij denuncia con spirito veramente profetico la ricaduta del popolo di Dio e qui, direi, dell'intera civiltà postcristiana nell'idolatria. Si ripete qui esemplar­mente, in filigrana, la storia di Israele dove però la sofferenza non appare strumen­to di espiazione, ma elemento di un inferno in cui ci si autoesalta, dove l'uomo cerca un'impossibile gioia.
Il mio discorso appare sino a questo punto tutto incentrato sul negativo in quanto non si è preso in considerazione L'idiota. Ma il principe Myskin è una presenza ge­lida che ritorna nella sua condizione silente di testimone del male del mondo dopo aver assistito impassibile all'uccisione di Nastasia Filippovna ad opera del fratello-­rivale, probabilmente una delle due anime in cui sdoppia la sua stessa identità. Ro­gozin rappresenta la carnalità e Myskin la forma di un'idea che però non s'incarna proprio perché passa come una meteora e per questo non redime anche se conquide i bambini e costituisce un polo d'attrazione per le donne che ne apprezzano la sensibilità. lntravvediamo la redezione solo alla fine di Delitto e castigo e dei Demoni.
Dostoevskij è il diagnostico implacabile dei mali dell' occidente.
Non chiamerei in causa Il diario di uno scrittore teorico e prolisso; il grande messaggio è consegnato ai romanzi così come sono strutturati, al modo in cui ha dato forma al rapporto con l'altro.
La verità è intravista sullo sfondo, vale a dire la profezia dello scrittore è in­trinseca alla sua stessa denuncia: l'esigenza di una ricomposizione in unità della co­scienza lacerata.
Qui il professor Pareyson ha visto molto bene nei suoi saggi dostoevskiani, che ci auguriamo vengano raccolti in volume, laddove riconosce che una libertà senza limiti, avulsa da punti di riferimento e da valori, che ruoti intorno a se stessa come una bussola priva di ago magnetico e pretenda di attraversare i confini della realtà, assunta come insegna ma non garantita da Dio, è una libertà del nulla e per il nulla, aperta su di uno spazio in cui s'insedia il padre della menzogna e il negatore della vita.
Una libertà che Dostoevskij non dice o dice nel "Buona Pasqua" rivolto da Alesa nel finale dei Karamazov ai bambini che hanno assistito al banchetto funebre come usava allora nella Russia zarista. "Ci rivedremo tutti, lo rivedremo Kolia (il figlio di un ufficiale degradato che viveva in una baracca), lo rivedremo tutti in Paradi­so". È un rinvio all'escatologia dove si compirà la gioia.
Tuttavia il messaggio di Dostoevskij non si limita a ciò anche se il suo verbo è costantemente animato da un'utopia messianica, di un messianismo storicamente connotato e con i tratti di un'ideologia slavofila. Il suo messaggio è il superamento del doppio e quindi dell'allucinazione (possiamo qui ricordare l'apparizione del dia­volo a Ivan e Stavrogin che rivede se stesso), ricomposizione in unità possibile solo qualora l'uomo accetti un garante di tale unità e sappia orientare la sua libertà ai valori, qualora non pretenda di ottenere una libertà assoluta e instauri i rapporti con l'altro in termini non di ipocrita soggezione, rovescio di un orgoglio smisurato, ma nell'accettazione della propria finitudine e della libertà altrui, irriducibile al pro­prio ego. Da questo punto di vista Dostoevskij pone veramente le premesse per la rifondazione di un'ontologia ricostituita nella sua unità e integrità.

3. IL CRISTIANESIMO TRAGICO DI GEORGE BERNANOS

Lo scrittore George Bernanos durante il soggiorno brasiliano al termine dell'ul­tima guerra mondiale inviò al suo editore parigino una breve ('notice bioghraphi­que" che contiene alcuni cenni, essenziali nella loro rapidità, sulla sua formazione non solo religiosa, ma anche morale e umana.
(Traduco puntualmente sperando di essere fedele): "Se volessi riassumere in po­che parole per gli amici l'essenza di ciò che è stata la mia formazione religiosa e morale, direi di essere stato educato nel rispetto, nell'amore, ma anche nella più libera comprensione possibile non solo del passato del mio paese, ma anche della mia religione.
Comprendere per amare, amare per comprendere, in questo credo consista la nostra più profonda tradizione spirituale nazionale ed è la ragione che spiega la no­stra ripugnanza per ogni forma di fariseismo. Nella mia famiglia cattolica e monar­chica ho sempre sentito parlare con grande libertà, spesso con severità, e dei monarchici e dei cattolici. lo credo sempre che non si sarebbe capaci di servire dav­vero, nel senso tradizionale di questa splendida parola, se non mantenendo nei con­fronti della causa che si serve un'assoluta indipendenza di giudizio. È la regola delle fedeltà senza conformismi, ossia delle fedeltà autentiche."
Il rapidissimo profilo tracciato da Bernanos stesso nel '45 dà ragione delle aspe­rità e contraddizioni apparenti, ma anche della coerenza di un monarchico che, cre­sciuto in una famiglia cattolico-reazionaria, non ha mai accettato la democrazia e la repubblica, vagheggiando un anacronistico ritorno dei Borboni intesi come il so­lo potere legittimo sul trono di Francia per diritto divino.
A partire dalla metà degli anni venti entra in forte collisione con Charles Maur­ras, nume tutelare della destra francese, esponente di un nazionalismo lontano dal razzismo hitleriano e dalle venature imperialistiche proprie di tutti i fascismi e ne prende le distanze negli anni '30. Nel '36, durante un soggiorno alle Baleari, ha mo­do di osservare la repressione franchista con il seguito di crudeltà, arbitri, dispoti­smo in nome della crociata anticomunista.
Tornerà in Francia con il terribile pamphlet: I cimiteri bianchi sotto la luna, for­se il primo atto d'accusa venuto da un uomo della destra conservatrice, già affer­matosi come singolarissimo romanziere con Sous le soleil de Satan, la trilogia pubblicata nel '25, "La joie" del '29 e l'abbozzo di Monsieur Ouine.
Si tratta di un'accusa insospettata che tuttavia lo isola e induce taluni ambienti della sinistra a progettare di catturarlo nelle file del "front populaire", ma le accuse sferzanti mosse all'ideologia di origine marxista e l'anticomunismo implacabile fini­scono per ghettizzarlo maggiormente. Infatti allo scoppio della guerra, dopo aver dato il suo appoggio non al governo di Vichy ma a De Gaulle, non si rifugia in Algeria dove era rimasto un barlume di libertà, ma preferisce l'esilio brasiliano.
Dopo la guerra tornerà in Francia dove manterrà lo stesso atteggiamento in nome di un assoluto etico che non trova riscontro nella storia vista come "il regno del male" abitato dal Principe delle tenebre su cui Dio ha consentito il dominio.
Dal '45 al '50 i suoi rapporti con la quarta repubblica sono tesi al punto che preferisce vivere in esilio in Tunisia dove chiuderà i suoi giorni non completando il capolavoro rappresentato dai Dialoghi delle Carmelitane.
Tali notizie biografiche ci aiutano a meglio inquadrare uno scrittore che non è solo romanziere, ma anche il pamphletaire dei Cimiteri sotto la luna, il diarista di Verrà il vendicatore e il giornalista che scrive sui maggiori giornali francesi di opi­nione di destra e di centro quali il Combat e il Figaro. È l'uomo d'azione, il cittadi­no, il patriota, il cristiano.
Postulare una separatezza di ambiti tra il letterario, la militanza civile e l'impe­gno religioso sarebbe far torto a Bernanos e precluderci la comprensione del suo universo etico-religioso.
Riuscirà utile ora citare alcuni passi molto eloquenti a tal proposito: "Ho la­sciato la Spagna nel '37 per rientrare in Francia. La sconfitta delle coscienze vi face­va prevedere quella degli eserciti. La triplice corruzione nazista, fascista e marxista non aveva risparmiato quasi nulla di ciò che mi avevano insegnato a rispettare e ad amare. Ho lasciato subito il mio paese: non era più possibile per un uomo libero vivervi, scrivervi e addirittura respirarvi". E nel 1940, dopo la disfatta francese che precede la costituzione del governo collaborazionista di Vichy, Bernanos, nel dichiarare il suo atto di fede nella Francia libera gaullista, scrive: "Non ho grandi speranze di vivere un domani in un mondo libero. Temo per la libertà una crisi terribile che metterà in pericolo di morte la cristianità universale. Il fenomeno più singolare del­la guerra di oggi è che i totalitarismi non si democraticizzano per nulla, al contrario sono le democrazie a totalizzarsi."
Bernanos scrive qui in piena coerenza con se stesso e il suo pessimismo storico troverà conferma nell'industrialismo e nel montante consumismo del dopoguerra. Uno degli ultimi scritti politici di Bernanos La France con tre les robots si presenta come un appello alla nazione teso a imporre un'inversione di marcia alla robotizza­zione della società, il peggiore dei totalitarismi (dopo quello del nazismo e dello sta­linismo ).
L'uomo libero è per Bernanos il figlio della grazia, ma il dramma della libertà si gioca in un universo dominato dalle forze del male, per cui l'orizzonte storico in cui si situa il combat pour la verité, la testimonianza per la verità, si realizza in un orizzonte cupo, dominato da Satana.
Nel '40, anno cruciale per la "défaite", la vergogna nazionale francese, segno di contraddizione per molti intellettuali, il Nostro pubblica dall'esilio brasiliano il romanzo: Monsieur Ouine a cui aveva dedicato sei lunghi anni. La ragione di tale lentezza non è contingente e investe le condizioni stesse dello scrittore cristiano cui non è indifferente la fede. In una pagina di Monsieur Ouine, come capita sovente, l'autore interferisce nel dibattito ideologico dei personaggi commentando: "È ve­nuta l'ora in cui sulle rovine di ciò che ancora resta dell'antico ordine cristiano na­scerà il nuovo ordine che sarà veramente l'ordine mondano, l'ordine del principe cui appartiene il regno di questo mondo. Allora sotto la dura legge della necessità, più forte di ogni illusione, l'orgoglio degli uomini di chiesa, trattenuto per troppo tempo da semplici convenzioni sopravvissute alle credenze, avrà perso perfino il suo oggetto. "
La figura dell' Anticristo trova qui tutta una serie di incarnazioni storiche: è la corruzione della borghesia finanziaria della Terza Repubblica, è il dispotismo guer­rafondaio nazista e fascista, è il comunismo, ma è soprattutto il robotizzarsi della Francia, il cadere dell'Europa sotto la scure di un industrialismo alienante.
Il cristiano può solo opporre in tal caso un rifiuto radicale raffigurato da Mosè che nel libro dell'Esodo scaglia contro il Faraone il suo: 'Non serviam': "tra te e Jahvè ho già scelto e non mi piegherò a servire le potenze di questo secolo."
In tale contesto va visto il pessimismo cristiano e "tragico" cui si è inteso richia­mare con l'intitolazione di questa relazione pur sapendo che per un cristiano non si dà mai tragedia pura in quanto gli è sempre aperta la via della redenzione. Sta di fatto che nell'orizzonte del secolo non vi è tregua per l'anima che vive posseduta dalla grazia: questo il punto fermo da cui dobbiamo partire per la comprensione di Bernanos. Il Cristianesimo apocalittico, la sua sfida a tutte le utopie laiche, ha radici nella sua stessa tragicità. Per comprendere tale affermazione non si può pre­scindere da far riferimento a Satana, presenza che si radica dove regna la santità.
Sarà qui opportuno ricordare le parole che avrebbe pronunciato Giovanni Pao­lo II durante una privata riunione nel corso della sua ultima visita a Torino. "Que­sta è città di Santi, ed è proprio per questo che in essa più a lungo Satana si è insediato." Tale parola è stata di scandalo per i benpensanti, ma non per il cristia­no, per chi ha dimestichezza con le agiografie e con questa letteratura di segno cri­stiano nata in terra di Francia cui appartengono scrittori della levatura di Mauriac e soprattutto di Bernanos. In quest'ultimo Satana ha una centralità assoluta al pun­to che il mondo prende quel colorito tenebroso, stigma della sua presenza.
Ciò spiega anche la tetraggine dei paesaggi. Bernanos è grande paesaggista e scrit­tore di razza per chi abbia il coraggio di leggerlo nell'originale, ma di un'asciuttezza e di un'austerità che non lasciano spazio all'indugio coloristico; non c'è attrazione per certi quadri "en plein air", il paesaggio interiore da lui definito è veramente infernale, gravato dalla gelida solitudine in cui vivono le anime possedute dal mali­gno; è tutto una psicomachia in cui si contendono il terreno e giocano per la salvez­za o la dannazione Cristo e Satana, i due protagonisti che non lasciano spazio a comparse.
Non meraviglia quindi che il Nostro abbia dedicato grande rilievo a figure di sacerdoti. Compaiono i religiosi ricorrenti nei romanzi fogazzariani; le sue prefe­renze tuttavia non vanno all'intellettuale raffinato, al modernista che pretende di conciliare scienza e fede e di atteggiarsi a teologo dando lezioni ai papi come Don Benedetto Maironi. Tali "curés" nei romanzi bernanosiani sono presenti per essere sbeffeggiati e messi alla gogna dalla conduzione stessa del romanzo come gli Acca­demici di Francia, vellicati da curiosità agiografiche di cui nel terzo volume della trilogia, Sotto il sole di Satana il Nostro traccia un ritratto caricaturale a tutto ton­do. In tali figure di religiosi sembra sbizzarrirsi la vena satirica dell'autore. Lo at­trae il "prètre" negletto, rozzo, come il curato del romanzo L'impostura, "l'abbède Chevalance". Si tratta di giullari di Dio, apparentemente inesperti, cui spetta la sola consolazione della grazia, che giocano la loro avventura pastorale in una situa­zione di gelo interiore non dissimile da quella di personaggi preda di Satana. Alludo al "curato di campagna", il miglior personaggio uscito dalla penna dello scrittore e soprattutto a l'"abbé de Donissan" della trilogia Sous le soleil de Satan, titolo che non potrebbe essere più eloquente.
Si tratta di figure prive di un carisma evidente, di un'illustre tradizione ecclesiastica,appartenenti a famiglie della provincia, destinate dai vescovi a parrocchie "nere" in cui si è insediato Satana.
Assumendo a modello il "curato di campagna" o l"'abbé de Chevalance" ci troviamo poi a fare i conti con figure che si presentano come il loro antitipo quali l'abbè de Cenabre, il dottissimo scrittore, agiografo, studioso di storia ecclesiastica, protagonista de L'imposture, il primo romanzo in cui compare un sacerdote, o Mon­sieur Ouine.
Quest'ultimo albeggia nella fantasia del Nostro nei primi anni trenta e viene portato a compimento nel' 40. Sempre indeciso, non dice né sì né no ed è posto al centro di un mondo opposto a quello salvato dalla grazia divina. Di contro all'infanzia, alla comunione, alla gioia, simmetricamente si pone l'intelligenza di un uomo in­vecchiato in una solitudine immedicabile al punto da non saper amare neppure se stesso.
Caratteristica del personaggio è l'abominevole tristezza di chi ha soffocato la gioia sotto la spinta della curiosità demoniaca di tutto conoscere e tutto sapere. Si­milmente "l'abbé de Cénabre", il confratello che lo precede di almeno un decen­nio, scandaglia i segreti delle anime e scrive splendide agiografie di figure quali Thérèse di Lisieux o di mistici medievali ai confini dell'eresia come Taulero senza giungere a cogliere il segreto della santità perché manca l'attrazione per essa.
Nella tremenda notte in cui tenterà il suicidio si sentirà rispondere dall'antico compagno di seminario, l'abbé de Chevalance: "Se non ama se stesso come può amare Dio? " Il curato ama di sé una larva, un'immagine sublimata, ma quell'in­trico verminoso di istinti ripugna al raffinato intellettuale per cui la partita si gioca sempre su uno scenario separato che nulla ha a che fare con la profondità dell'ani­ma dove Satana si beffa di tanta profusione di intelligenza.
Intorno a Monsieur Ouine nella "paroisse morte", a causa della sua presenza, gli uomini e le cose sono maldicenza, paura, delitto anonimo. Il grave è che queste "anime perse" non sono solo intellettuali, raffinati ricercatori e teologi, ma sono pastori che pretendono di gestire il loro ruolo facendo sfoggio della loro destrezza e abilità senza mai giungere alle sorgenti della vita spirituale in quanto manca loro l'amore profondo per le anime che può solo radicarsi nell'amore per il Cristo, sor­gente su cui si fonda anche l'amore per se stessi.
Monsieur Ouine è antifrasi della figura sacerdotale in una vera e propria comu­nità notturna, è il prete di Satana che scandaglia le anime giungendo a una cono­scenza di ben altra natwa da quella biblica. Non scorge mai le possibilità di salvezza, i rischi di perdizione. Nelle anime scorge solo il gioco complicato delle passioni, dei desideri, le risorse psicologiche, le manie, le abitudini viziose. Conosce i loro segreti per poterle manipolare a suo favore e dirigerle a suo modo: è la sua una guida sata­nica, mascherata di unzione religiosa, opposta alla direzione spirituale.
La sorgente della sua chiaroveggenza non è pertanto l'amore affascinato delle anime, l'ansia per la loro sorte eterna: è una pura curiosità tremendamente acuta, che gli affida le anime indifese come fossero insetti resi immobili sotto il microsco­pio. Da buon giocatore usa la sua perspicacia per manovrare i meccanismi osservati dirigendoli a suo piacere. Tutto in lui è satanico perché ha perso il gusto dell'amore di sé che è tutt'uno con la gioia di vivere.
Chi cercasse nei romanzi di Bernanos, così analitico delle ragioni del peccato, una sorta di attrazione oscura ne andrebbe deluso perché in lui è troppo presente il senso della noia e il peccato è vissuto come qualcosa di ripetitivo.
Infatti nel romanzo Les tentations du desespoir, seconda parte della trilogia Sotto il sole di Satana, l'abate di Donissan dice alla piccola Mouchette che pretende di custodire gelosamente il segreto dell'assassinio e della malcelata maternità: "L'indi­vidualità non si rivela mai nel peccato" e la giovane sente di non essere che l'epigo­na di un universo dall'incredibilmente monotona, ossessiva e assurda ripetitività.
Mentre la santità si radica nell'individualità e costituisce l'essere personale, il pec­cato è il regno dell'anonimato, il luogo della non-vita dove si consuma la liturgia del Nulla. Qui Bernanos affonda il suo bisturi implacabile facendo rilevare come il mondo di Satana, il regno della noia abbia quale logico compimento la consuma­zione di sé.

L'autore ha raggiunto uno dei punti più alti della narrativa dostoevskiana che faceva di Satana il grande artefice dell'annientamento universale.
Così l'abate di Cenabre, grande agiografo ricercato da tutta la Parigi-bene, pro­va la tentazione del suicidio una notte in cui ha inutilmente tentato di vincere il pro­prio orgoglio: "Non si può dire che appoggiò l'arma alla tempia, vi si buttò contro in un minuto terribile in cui l'inferno non è altro che un odio, una fiamma unica sull'anima in pericolo. Penetra tutto, distruggerebbe l'angelo stesso, non si arresta che ai piedi della croce." È infatti la croce il limite dove Satana viene vinto, viene disvelato nel suo odio.
L'abate di Cénabre è salvato da uno strano istinto, tuttavia Satana resiste anco­ra nel suo orgoglio: "La semplice accettazione, la rinuncia alla lotta inutile, il gesto che confessa la disfatta, sarebbe stato il solo mezzo per aprire la vera sorgente al pianto, ma egli temeva quella liberazione più di qualunque supplizio. Si disperava, si odiava nella sua disperazione, ma non poteva avere pietà di sé."
L'uomo ha perduto il gusto per l'amore di sé, l'orgoglio lo vince ancora: è que­sta la ragione per cui il dramma non si conclude e la notte non è liberatrice come lo era stata per l'Innominato.
Se queste figure sono l'antifrasi dell'autentico sacerdote, il santo non è quello definito dall'agiografia tradizionale. La santità è un dono tremendo, vocazione pri­vilegiata a portar la croce di tutte le miserie, antitesi tra grazia e intelligenza. L'an­tintellettualismo porta Bernanos a opporre l'intelligenza cartesiana, di buona tradizione francese, a questa docilità alla grazia che tuttavia convive, in chi non sappia rinun­ziare all'uso della "raison", con l'attrazione per la casistica e la dialettica.
Il santo è immune da tali tentazioni, ma l'essere segno della scelta divina lo espone alla furia di Satana come ci narra la pagina del romanzo di Mouchette già ricordato in cui l'abate di Donissan tenta invano di strappare la giovane suicida agli artigli del Maligno. È racchiusa in quelle righe anche la storia del lungo calvario che confi­gura l'avventura terrena del sacerdote: "Voi lo cerchereste invano nella carne più segreta che il vostro miserabile desiderio attraversa senza assopirsi e la bocca che mordete non rende se non un sangue freddo, pallido.
È nell'orazione del solitario, nel suo digiuno, nella sua penitenza, al culmine della più profonda estasi e nel silenzio del cuore che Satana si rivela. Egli avvelena l'ac­qua lustrale, brucia nel cero consacrato, respira nell'alito delle vergini, vi divora nella disciplina, corrode ogni via. Lo vediamo mentire sulle labbra dischiuse per dispen­sare la parola di verità, perseguitare il giusto in mezzo ai buoni e ai lampi dell'estasi beatifica. Lo vediamo all'opera persino nelle braccia stesse di Dio."
Questo sembra essere il senso della santità, il terreno esposto più di tutti agli attacchi del Maligno sempre all'erta nella flagellazione, nel digiuno, nella preghiera macerante. A questo punto ci si può chiedere se la santità di Bemanos conosca la gioia.
È un profondo sentimento che non trapela, intrinseco alla fedeltà stessa alla pro­pria vocazione. Non è una gioia sensibile come si deduce da una lettera datata 18 luglio 1946: "Avviene della speranza come avviene della fede. La speranza migliore è senza consolazione sensibile. Che m'importa di sapere se ho la speranza quando io abbia le opere?" Le virtù teologali, per Bemanos, non conducono a una gioia immediata, non hanno una loro divisa; la pienezza della vocazione del Santo consi­ste nella fedeltà al proprio battesimo, al dovere come pura forma. Siamo lontani da ogni confronto sensoriale, da ogni eudemonismo: in questo sta la distanza di Bemanos da ogni umanesimo cristiano.
 In un passo di Sous le soleil de Satan il Nostro fa dire al curato, maestro spirituale dell'abate di Donissan, che l'uomo quando agisce non è affatto legato al calcolo e le etiche utilitaristiche non hanno radice nella concreta umanità: "L'uomo, si pensa, ricercherà soltanto quello che piace, la sua coscienza lo guiderà nella scelta. Certi balbettamenti non spiegano nulla. In un si­mile universo di animali sensibili e raziocinanti non c'è posto per il santo o bisogna convincerlo di follia."
Siamo ben lontani dalla manzoniana ricerca di equilibri, non c'è posto per la santità in un mondo fatto di mezze misure, in un do saggio sapiente di prudenza, di rischio, di coraggio, d'intelligenza. È la rivolta contro il buonsenso: "E così si fa, beninteso, ma con così poco non si risolve il problema. Ognuno di noi è, a volta a volta, in un certo modo, o un santo o un delinquente portato talvolta al bene non per un giudizioso calcolo approssimativo dell'utilità, ma chiaramente, singolar­mente, per una slancio totale dell'essere, per un'effusione d'amore che fa della sof­ferenza e della rinuncia l'oggetto stesso del desiderio, d'altro canto tormentato dalla smania misteriosa di avvilirsi, dalla compiacenza di assaporare il gusto della cenere, dalla vertigine dell'animalesco, incomprensibile nostalgia. .
Cosa importa l'esperienza della vita morale accumulata da secoli, che importa l'esempio di tanti peccatori disgraziati e della loro mala sorte? Il male come il bene lo si ama di per se stesso e lo si serve."
In quest'ultima frase si compendia tutto il movimento oratorio del discorso e si suggella il radicalismo cristiano del Nostro. Il male e il bene divengono qui due ipostasi, figure quasi entificate.
Tale radicalismo apparenta Bemanos a Dostoevskij non solo per l'equazione Satana-Nulla, ma anche per questo antagonismo tra bene e male che non consentemediazioni. Quale il senso della tragedia? Il pessimismo non è qui escatologico, ma solo storico. Il centro della teologia bernanosiana si alimenta al giansenismo france­se di Pascal e di Racine. Quest'ultimo ha proscritto dalla letteratura come esecrabi­le il compiacimento della passione che può essere per lo scrittore credente unicamente oggetto di analisi. È la linea che da Racine raggiunge Manzoni congiunto a Berna­nos dalla simbologia della notte in cui quest'ultimo raggiunge esiti più alti dal pun­to di vista della scrittura intesa come manipolazione del tempo narrativo. Mentre infatti la vicenda dell'Innominato si svolge nello spazio di un capitolo, alla tentazio­ne dell'abate di Cenabre, che si sviluppa tra mezzanotte- e le quattro del mattino, sono dedicate ben cento pagine.
In Pascal il pensiero 553 nell'edizione del Brunschvicg, il famoso "mystère de l'agonie de Jesus", splendido commento teologico all'episodio evangelico, suona così "Jesus sera en agonie jusque à la fin du monde. Il ne faut pas dormir pendant ce temps là." L'espressione francese così pregnante allude a un tempo che si distende per tutti i secoli sino alla piena sconfitta di Satana, sino all' Apocalisse. È quindi normale che la passione del Cristo e la sofferenza del credente durino sino alla fine dei secoli. È questo il senso del tragico cristiano, di una teologia del Venerdì Santo non ignara della lezione della croce e del prezzo di una Resurrezione che non asciu­ga le gocce sgorgate dal costato del Redentore destinate a inondare il mondo nei secoli.
Satana potrà lottare sino alla Parusia finale. Ciò spiega anche perché non ci sia spazio per una gioia che non sia epidermica, superficiale, dimentica della partita in gioco, ma dà anche ragione della frase voluta dal Nostro a epigrafe dei Dialoghi delle Carmelitane, sceneggiatura per un film ricavata da una novella della scrittrice tedesca Gertrud V on Le Fort: L'ultima al patibolo.
L'espressione, tratta dal romanzo La gioia, suona così: "Sotto un certo aspetto, vedete, la paura è comunque figlia di Dio, riscattata la notte del Venerdì Santo. Non è bella a vedersi, no; ora derisa, ora maledetta, rinnegata da tutti. Eppure non illudetevi: essa si trova al capezzale di ogni agonia, essa intercede per l'uomo."
La paura da vizio si trasforma in virtù, diviene testimone solitaria della sua ago­nia, riscattata solo dal sacrificio della croce. Non è un caso che la tragedia delle carmelitane si compia quando la più debole, Bianca de la Force, vincerà la paura, sua compagna inseparabile fin sul patibolo.
Non resta che tentare di comprendere la ragione del lungo tempo impiegato da Bernanos nella composizione di Monsieur Ouine, l'opera da lui ritenuta il suo ca­polavoro.
Scrivere un libro significa risalire alla fonte perduta, al tormento dell'anima da cui è nato. Il bisturi che fruga nell'intimo dei personaggi scava in se stesso.
Non basta un'analisi intellettuale per giungere alle proprie scaturigini per cui l'av­ventura letteraria, come la militanza politica, finiscono per coincidere con l'avven­tura stessa del cristiano cui nessuna garanzia di salvezza si offre e per il quale tutte le esperienze spirituali sono dei calvari.

4. IL CRISTIANESIMO TRAGICO DI GEORGE BERNANOS

Lo scrittore George Bernanos durante il soggiorno brasiliano al termine dell'ul­tima guerra mondiale inviò al suo editore parigino una breve ('notice bioghraphi­que" che contiene alcuni cenni, essenziali nella loro rapidità, sulla sua formazione non solo religiosa, ma anche morale e umana.
(Traduco puntualmente sperando di essere fedele): "Se volessi riassumere in po­che parole per gli amici l'essenza di ciò che è stata la mia formazione religiosa e morale, direi di essere stato educato nel rispetto, nell'amore, ma anche nella più libera comprensione possibile non solo del passato del mio paese, ma anche della mia religione.
Comprendere per amare, amare per comprendere, in questo credo consista la nostra più profonda tradizione spirituale nazionale ed è la ragione che spiega la no­stra ripugnanza per ogni forma di fariseismo. Nella mia famiglia cattolica e monar­chica ho sempre sentito parlare con grande libertà, spesso con severità, e dei monarchici e dei cattolici. lo credo sempre che non si sarebbe capaci di servire dav­vero, nel senso tradizionale di questa splendida parola, se non mantenendo nei con­fronti della causa che si serve un'assoluta indipendenza di giudizio. E' la regola delle fedeltà senza conformismi, ossia delle fedeltà autentiche."
Il rapidissimo profilo tracciato da Bernanos stesso nel '45 dà ragione delle aspe­rità e contraddizioni apparenti, ma anche della coerenza di un monarchico che, cre­sciuto in una famiglia cattolico-reazionaria, non ha mai accettato la democrazia e la repubblica, vagheggiando un anacronistico ritorno dei Borboni intesi come il so­lo potere legittimo sul trono di Francia per diritto divino.
A partire dalla metà degli anni venti entra in forte collisione con Charles Maur­ras, nume tutelare della destra francese, esponente di un nazionalismo lontano dal razzismo hitleriano e dalle venature imperialistiche proprie di tutti i fascismi e ne prende le distanze negli anni '30. Nel '36, durante un soggiorno alle Baleari, ha mo­do di osservare la repressione franchista con il seguito di crudeltà, arbitri, dispoti­smo in nome della crociata anticomunista.
Tornerà in Francia con il terribile pamphlet: I cimiteri bianchi sotto la luna, for­se il primo atto d'accusa venuto da un uomo della destra conservatrice, già affer­matosi come singolarissimo romanziere con Sous le soleil de Satan, la trilogia pubblicata nel '25, "La joie" del '29 e l'abbozzo di Monsieur Ouine.
Si tratta di un'accusa insospettata che tuttavia lo isola e induce taluni ambienti della sinistra a progettare di catturarlo nelle file del "front populaire", ma le accuse sferzanti mosse all'ideologia di origine marxista e l'anticomunismo implacabile fini­scono per ghettizzarlo maggiormente. Infatti allo scoppio della guerra, dopo aver dato il suo appoggio non al governo di Vichy ma a De Gaulle, non si rifugia in Algeria dove era rimasto un barlume di libertà, ma preferisce l'esilio brasiliano.
Dopo la guerra tornerà in Francia dove manterrà lo stesso atteggiamento in nome di un assoluto etico che non trova riscontro nella storia vista come "il regno del male" abitato dal Principe delle tenebre su cui Dio ha consentito il dominio.

Dal '45 al '50 i suoi rapporti con la quarta repubblica sono tesi al punto che preferisce vivere in esilio in Tunisia dove chiuderà i suoi giorni non completando il capolavoro rappresentato dai Dialoghi delle Carmelitane.
Tali notizie biografiche ci aiutano a meglio inquadrare uno scrittore che non è
solo romanziere, ma anche il pamphletaire dei Cimiteri sotto la luna, il diarista di
Verrà il vendicatore e il giornalista che scrive sui maggiori giornali francesi di opi­nione di destra e di centro quali il Combat e il Figaro. È l'uomo d'azione, il cittadi­no, il patriota, il cristiano.
Postulare una separatezza di ambiti tra il letterario, la militanza civile e l'impe­gno religioso sarebbe far torto a Bernanos e precluderci la comprensione del suo universo etico-religioso.
Riuscirà utile ora citare alcuni passi molto eloquenti a tal proposito: "Ho la­sciato la Spagna nel '37 per rientrare in Francia. La sconfitta delle coscienze vi face­va prevedere quella degli eserciti. La triplice corruzione nazista, fascista e marxista non aveva risparmiato quasi nulla di ciò che mi avevano insegnato a rispettare e ad amare. Ho lasciato subito il mio paese: non era più possibile per un uomo libero vivervi, scrivervi e addirittura respirarvi". E nel 1940, dopo la disfatta francese che precede la costituzione del governo collaborazionista di Vichy, Bernanos, nel dichiarare il suo atto di fede nella Francia libera gaullista, scrive: "Non ho grandi speranze di vivere un domani in un mondo libero. Temo per la libertà una crisi terribile che metterà in pericolo di morte la cristianità universale. Il fenomeno più singolare del­la guerra di oggi è che i totalitarismi non si democraticizzano per nulla, al contrario sono le democrazie a totalizzarsi."
Bernanos scrive qui in piena coerenza con se stesso e il suo pessimismo storico troverà conferma nell'industrialismo e nel montante consumismo del dopoguerra. Uno degli ultimi scritti politici di Bernanos La France con tre les robots si presenta come un appello alla nazione teso a imporre un'inversione di marcia alla robotizza­zione della società, il peggiore dei totalitarismi (dopo quello del nazismo e dello sta­linismo ).
L'uomo libero è per Bernanos il figlio della grazia, ma il dramma della libertà si gioca in un universo dominato dalle forze del male, per cui l'orizzonte storico in cui si situa il combat pour la verité, la testimonianza per la verità, si realizza in un orizzonte cupo, dominato da Satana.
Nel '40, anno cruciale per la "défaite", la vergogna nazionale francese, segno di contraddizione per molti intellettuali, il Nostro pubblica dall'esilio brasiliano il romanzo: Monsieur Ouine a cui aveva dedicato sei lunghi anni. La ragione di tale lentezza non è contingente e investe le condizioni stesse dello scrittore cristiano cui non è indifferente la fede. In una pagina di Monsieur Ouine, come capita sovente, l'autore interferisce nel dibattito ideologico dei personaggi commentando: "È ve­nuta l'ora in cui sulle rovine di ciò che ancora resta dell'antico ordine cristiano na­scerà il nuovo ordine che sarà veramente l'ordine mondano, l'ordine del principe cui appartiene il regno di questo mondo. Allora sotto la dura legge della necessità, più forte di ogni illusione, l'orgoglio degli uomini di chiesa, trattenuto per troppo tempo da semplici convenzioni sopravvissute alle credenze, avrà perso perfino il suo oggetto. "
La figura dell' Anticristo trova qui tutta una serie di incarnazioni storiche: è la corruzione della borghesia finanziaria della Terza Repubblica, è il dispotismo guer­rafondaio nazista e fascista, è il comunismo, ma è soprattutto il robotizzarsi della Francia, il cadere dell'Europa sotto la scure di un industrialismo alienante.
Il cristiano può solo opporre in tal caso un rifiuto radicale raffigurato da Mosè che nel libro dell'Esodo scaglia contro il Faraone il suo: 'Non serviam': "tra te e lahvè ho già scelto e non mi piegherò a servire le potenze di questo secolo."
In tale contesto va visto il pessimismo cristiano e "tragico" cui si è inteso richia­mare con l'intitolazione di questa relazione pur sapendo che per un cristiano non si dà mai tragedia pura in quanto gli è sempre aperta la via della redenzione. Sta di fatto che nell'orizzonte del secolo non vi è tregua per l'anima che vive posseduta dalla grazia: questo il punto fermo da cui dobbiamo partire per la comprensione di Bernanos. Il Cristianesimo apocalittico, la sua sfida a tutte le utopie laiche, ha radici nella sua stessa tragicità. Per comprendere tale affermazione non si può pre­scindere da far riferimento a Satana, presenza che si radica dove regna la santità.
, Sarà qui opportuno ricordare le parole che avrebbe pronunciato Giovanni Pao­lo II durante una privata riunione nel corso della sua ultima visita a Torino. "Que­sta è città di Santi, ed è proprio per questo che in essa più a lungo Satana si è insediato." Tale parola è stata di scandalo per i benpensanti, ma non per il cristia­no, per chi ha dimestichezza con le agiografie e con questa letteratura di segno cri­stiano nata in terra di Francia cui appartengono scrittori della levatura di Mauriac e soprattutto di Bernanos. In quest'ultimo Satana ha una centralità assoluta al pun­to che il mondo prende quel colorito tenebroso, stigma della sua presenza.
Ciò spiega anche la tetraggine dei paesaggi. Bernanos è grande paesaggista e scrit­tore di razza per chi abbia il coraggio di leggerlo nell'originale, ma di un'asciuttezza e di un'austerità che non lasciano spazio all'indugio coloristico; non c'è attrazione per certi quadri "en plein air", il paesaggio interiore da lui definito è veramente infernale, gravato dalla gelida solitudine in cui vivono le anime possedute dal mali­gno; è tutto una psicomachia in cui si contendono il terreno e giocano per la salvez­za o la dannazione Cristo e Satana, i due protagonisti che non lasciano spazio a comparse.
 Non meraviglia quindi che il Nostro abbia dedicato grande rilievo a figure di sacerdoti. Compaiono i religiosi ricorrenti nei romanzi fogazzariani; le sue prefe­renze tuttavia non vanno all'intellettuale raffinato, al modernista che pretende di conciliare scienza e fede e di atteggiarsi a teologo dando lezioni ai papi come Don Benedetto Maironi. Tali "curés" nei romanzi bernanosiani sono presenti per essere sbeffeggiati e messi alla gogna dalla conduzione stessa del romanzo come gli Acca­demici di Francia, vellicati da curiosità agiografiche di cui nel terzo volume della trilogia, Sotto il sole di Satana il Nostro traccia un ritratto caricaturale a tutto ton­do. In tali figure di religiosi sembra sbizzarrirsi la vena satirica dell'autore. Lo at­trae il "prètre" negletto, rozzo, come il curato del romanzo L'impostura, "l'abbède Chevalance". Si tratta di giullari di Dio, apparentemente inesperti, cui spetta la sola consolazione della grazia, che giocano la loro avventura pastorale in una situa­zione di gelo interiore non dissimile da quella di personaggi preda di Satana. Alludo al "curato di campagna", il miglior personaggio uscito dalla penna dello scrittore e soprattutto a l"'abbé de Donissan" della trilogia Sous le soleil de Satan, titolo che non potrebbe essere più eloquente.
Si tratta di figure prive di un carisma evidente, di un'illustre tradizione ecclesia­stica,
appartenenti a famiglie della provincia, destinate dai vescovi a parrocchie "nere" in cui si è insediato Satana.
Assumendo a modello il "curato di campagna" o l"'abbé de Chevalance" ci troviamo poi a fare i conti con figure che si presentano come il loro antitipo quali l'abbè de Cenabre, il dottissimo scrittore, agiografo, studioso di storia ecclesiastica, protagonista de L'imposture, il primo romanzo in cui compare un sacerdote, o Mon­sieur Ouine.
Quest'ultimo albeggia nella fantasia del Nostro nei primi anni trenta e viene portato a compimento nel' 40. Sempre indeciso, non dice nè sì nè no ed è posto al centro di un mondo opposto a quello salvato dalla grazia divina. Di contro all'infanzia, alla comunione, alla gioia, simmetricamente si pone l'intelligenza di un uomo in­vecchiato in una solitudine immedicabile al punto da non saper amare neppure se stesso.
Caratteristica del personaggio è l'abominevole tristezza di chi ha soffocato la gioia sotto la spinta della curiosità demoniaca di tutto conoscere e tutto sapere. Si­milmente "l'abbé de Cénabre", il confratello che lo precede di almeno un decen­nio, scandaglia i segreti delle anime e scrive splendide agiografie di figure quali Thérèse di Lisieux o di mistici medievali ai confini dell'eresia come Taulero senza giungere a cogliere il segreto della santità perché manca l'attrazione per essa.
Nella tremenda notte in cui tenterà il suicidio si sentirà rispondere dall'antico compagno di seminario, l'abbé de Chevalance: "Se non ama se stesso come può amare Dio? " Il curato ama di sé una larva, un'immagine sublimata, ma quell'in­trico verminoso di istinti ripugna al raffinato intellettuale per cui la partita si gioca sempre su uno scenario separato che nulla ha a che fare con la profondità dell'ani­m_ dove Satana si beffa di tanta profusione di intelligenza.
Intorno a Monsieur Ouine nella "paroisse morte", a causa della sua presenza, gli uomini e le cose sono maldicenza, paura, delitto anonimo. Il grave è che queste "anime perse" non sono solo intellettuali, raffinati ricercatori e teologi, ma sono pastori che pretendono di gestire il loro ruolo facendo sfoggio della loro destrezza e abilità senza mai giungere alle sorgenti della vita spirituale in quanto manca loro l'amore profondo per le anime che può solo radicarsi nell'amore per il Cristo, sor­gente su cui si fonda anche l'amore per se stessi.
Monsieur Ouine è antifrasi della figura sacerdotale in una vera e propria comu­nità notturna, è il prete di Satana che scandaglia le anime giungendo a una cono­scenza di ben altra natura da quella biblica. Non scorge mai le possibilità di salvezza, i rischi di perdizione. Nelle anime scorge solo il gioco complicato delle passioni, dei desideri, le risorse psicologiche, le manie, le abitudini viziose. Conosce i loro segreti per poterle manipolare a suo favore e dirigerle a suo modo: è la sua una guida sata­nica, mascherata di unzione religiosa, opposta alla direzione spirituale.
La sorgente della sua chiaroveggenza non è pertanto l'amore affascinato delle
anime, l'ansia per la loro sorte eterna: è una pura curiosità tremendamente acuta, che gli affida le anime indifese come fossero insetti resi immobili sotto il microsco­pio. Da buon giocatore usa la sua prespicacia per manovrare i meccanismi osservati dirigendoli a suo piacere. Tutto in lui è satanico perché ha perso il gusto dell'amore di sé che è tutt'uno con la gioia di vivere.
Chi cercasse nei romanzi di Bernanos, così analitico delle ragioni del peccato, una sorta di attrazione oscura ne andrebbe deluso perché in lui è troppo presente il senso della noia e il peccato è vissuto come qualcosa di ripetitivo.
Infatti nel romanzo Les tentations du desespoir, seconda-parte della trilogia Sotto il sole di Satana, l'abate di Donissan dice alla piccola Mouchette che pretende di custodire gelosamente il segreto dell'assassinio e della malcelata maternità: "L'indi­vidualità non si rivela mai nel peccato" e la giovane sente di non essere che l'epigo­na di un universo dall'incredibilmente monotona, ossessiva e assurda ripetitività.
Mentre la santità si radica nell'individualità e costituisce l'essere personale, il pec­cato è il regno dell'anonimato, il luogo della non-vita dove si consuma la liturgia del Nulla. Qui Bernanos affonda il suo bisturi implacabile facendo rilevare come il mondo di Satana, il regno della noia abbia quale logico compimento la consuma­zione di sé.
L'autore ha raggiunto uno dei punti più alti della narrativa dostoevskiana che faceva di Satana il grande artefice dell'annientamento universale.
Così l'abate di Cenabre, grande agiografo ricercato da tutta la Parigi-bene, pro­va la tentazione del suicidio una notte in cui ha inutilmente tentato di vincere il pro­prio orgoglio: "Non si può dire che appoggiò l'arma alla tempia, vi si buttò contro in un minuto terribile in cui l'inferno non è altro che un odio, una fiamma unica sull'anima in pericolo. Penetra tutto, distruggerebbe l'angelo stesso, non si arresta che ai piedi della croce." È infatti la croce il limite dove Satana viene vinto, viene disvelato nel suo odio.
L'abate di Cénabre è salvato da uno strano istinto, tuttavia Satana resiste anco­ra nel suo orgoglio: "La semplice accettazione, la rinuncia alla lotta inutile, il gesto che confessa la disfatta, sarebbe stato il solo mezzo per aprire la vera sorgente al pianto, ma egli temeva quella liberazione più di qualunque supplizio. Si disperava, si odiava nella sua disperazione, ma non poteva avere pietà di sé."
L'uomo ha perduto il gusto per l'amore di sé, l'orgoglio lo vince ancora: è que­sta la ragione per cui il dramma non si conclude e la notte non è liberatrice come lo era stata per l'Innominato.
Se queste figure sono l'antifrasi dell'autentico sacerdote, il santo non è quello definito dall'agiografia tradizionale. La santità è un dono tremendo, vocazione pri­vilegiata a portar la croce di tutte le miserie, antitesi tra grazia e intelligenza. L'an­tintellettualismo porta Bernanos a opporre l'intelligenza cartesiana, di buona tradizione francese, a questa docilità alla grazia che tuttavia convive, in chi non sappia rinun­ziare all'uso della "raison", con l'attrazione per la casistica e la dialettica.
Il santo è immune da tali tentazioni, ma l'essere segno della scelta divina lo espone.
alla furia di Satana come ci narra la pagina del romanzo di Mouchette già ricordato in cui l'abate di Donissan tenta invano di strappare la giovane suicida agli artigli del Maligno. È racchiusa in quelle righe anche la storia del lungo calvario che confi­gura l'avventura terrena del sacerdote: "Voi lo cerchereste invano nella carne più segreta che il vostro miserabile desiderio attraversa senza assopirsi e la bocca che mordete non rende se non un sangue freddo, pallido.

È nell'orazione del solitario, nel suo digiuno, nella sua penitenza, al culmine della più profonda estasi e nel silenzio del cuore che Satana si rivela. Egli avvelena l'ac­qua lustrale, brucia nel cero consacrato, respira nell'alito delle vergini, vi divora nella disciplina, corrode ogni via. Lo vediamo mentire sulle labbra dischiuse per dispen­sare la parola di verità, perseguitare il giusto in mezzo ai buoni e ai lampi dell'estasi beatifica. Lo vediamo all'opera persino nelle braccia stesse di Dio."
Questo sembra essere il senso della santità, il terreno esposto più di tutti agli attacchi del Maligno sempre all'erta nella flagellazione, nel digiuno, nella preghiera macerante. A questo punto ci si può chiedere se la santità di Bemanos conosca la gioia.
È un profondo sentimento che non trapela, intrinseco alla fedeltà stessa alla pro­pria vocazione. Non è una gioia sensibile come si deduce da una lettera datata 18 luglio 1946: "Avviene della speranza come avviene della fede. La speranza migliore è senza consolazione sensibile. Che m'importa di sapere se ho la speranza quando io abbia le opere?" Le virtù teologali, per Bemanos, non conducono a una gioia immediata, non hanno una loro divisa; la pienezza della vocazione del Santo consi­ste nella fedeltà al proprio battesimo, al dovere come pura forma.
Siamo lontani da ogni confronto sensoriale, da ogni eudemonismo: in questo sta la distanza di Bemanos da ogni umanesimo cristiano. In un passo di Sous le soleil de Satan il Nostro fa dire al curato, maestro spirituale dell'abate di Donissan, che l'uomo quando agisce non è affatto legato al calcolo e le etiche utilitaristiche non hanno radice nella concreta umanità: "L'uomo, si pensa, ricercherà soltanto quello che piace, la sua coscienza lo guiderà nella scelta. Certi balbettamenti non spiegano nulla. In un si­mile universo di animali sensibili e raziocinanti non c'è posto per il santo o bisogna convincerlo di follia."
Siamo ben lontani dalla manzoniana ricerca di equilibri, non c'è posto per la santità in un mondo fatto di mezze misure, in un do saggio sapiente di prudenza, di rischio, di coraggio, d'intelligenza. È la rivolta contro il buonsenso: "E così si fa, beninteso, ma con così poco non si risolve il problema. Ognuno di noi è, a volta a volta, in un certo modo, o un santo o un delinquente portato talvolta al bene non per un giudizioso calcolo approssimativo dell'utilità, ma chiaramente, singolar­mente, per una slancio totale dell'essere, per un'effusione d'amore che fa della sof­ferenza e della rinuncia l'oggetto stesso del desiderio, d'altro canto tormentato dalla smania misteriosa di avvilirsi, dalla compiacenza di assaporare il gusto della cenere, dalla vertigine dell'animalesco, incomprensibile nostalgia. .
Cosa importa l'esperienza della vita morale accumulata da secoli, che importa l'esempio di tanti peccatori disgraziati e della loro mala sorte? Il male come il bene lo si ama di per se stesso e lo si serve."
In quest'ultima frase si compendia tutto il movimento oratorio del discorso e si suggella il radicalismo cristiano del Nostro. Il male e il bene divengono qui due ipostasi, figure quasi entificate.
Tale radicalismo apparenta Bemanos a Dostoevskij non solo per l'equazione Satana-Nulla, ma anche per questo antagonismo tra bene e male che non consente mediazioni. Quale il senso della tragedia? Il pessimismo non è qui escatologico, ma solo storico. Il centro della teologia bernanosiana si alimenta al giansenismo france­se di Pascal e di Racine. Quest'ultimo ha proscritto dalla letteratura come esecrabi­le il compiacimento della passione che può essere per lo scrittore credente unicamente oggetto di analisi. È la linea che da Racine raggiunge Manzoni congiunto a Berna­nos dalla simbologia della notte in cui quest'ultimo raggiunge esiti più alti dal pun­to di vista della scrittura intesa come manipolazione del tempo narrativo. Mentre infatti la vicenda dell'Innominato si svolge nello spazio di Ufi capitolo, alla tentazio­ne dell'abate di Cenabre, che si sviluppa tra mezzanotte- e le quattro del mattino, sono dedicate ben cento pagine.

In Pascal il pensiero 553 nell'edizione del Brunschvicg, il famoso "mystère de l'agonie de Jesus", splendido commento teologico all'episodio evangelico, suona così "Jesus sera en agonie jusque à la fin du monde. Il ne faut pas dormir pendant ce temps là." L'espressione francese così pregnante allude a un tempo che si distende per tutti i secoli sino alla piena sconfitta di Satana, sino all' Apocalisse. È quindi normale che la passione del Cristo e la sofferenza del crredente durino sino alla fine dei secoli. È questo il senso del tragico cristiano, di una teologia del Venerdì Santo non ignara della lezione della croce e del prezzo di una Resurrezione che non asciu­ga le gocce sgorgate dal costato del Redentore destinate a inondare il mondo nei secoli.
Satana potrà lottare sino alla Parusia finale. Ciò spiega anche perchè non ci sia spazio' per una gioia che non sia epidermica, superficiale, dimentica della partita in gioco, ma dà anche ragione della frase voluta dal Nostro a epigrafe dei Dialoghi delle Carmelitane, sceneggiatura per un film ricavata da una novella della scrittrice tedesca Gertrud V on Le Fort: L'ultima al patibolo.
L'espressione, tratta dal romanzo La gioia, suona così: "Sotto un certo aspetto, vedete, la paura è comunque figlia di Dio, riscattata la notte del Venerdì Santo. Non è bella a vedersi, no; ora derisa, ora maledetta, rinnegata da tutti. Eppure non illudetevi: essa si trova al capezzale di ogni agonia, essa intercede per l'uomo."
La paura da vizio si trasforma in virtù, diviene testimone solitaria della sua ago­nia, riscattata solo dal sacrificio della croce. Non è un caso che la tragedia delle carmelitane si compia quando la più debole, Bianca de la Force, vincerà la paura, sua compagna inseparabile fin sul patibolo.
Non resta che tentare di comprendere la ragione del lungo tempo impiegato da Bernanos nella composizione di Monsieur Ouine, l'opera da lui ritenuta il suo ca­polavoro.
Scrivere un libro significa risalire alla fonte perduta, al tormento dell'anima da cui è nato. Il bisturi che fruga nell'intimo dei personaggi scava in se stesso.
Non basta un'analisi intellettuale per giungere alle proprie scaturigini per cui l'av­ventura letteraria, come la militanza politica, finiscono per coincidere con l'avven­tura stessa del cristiano cui nessuna garanzia di salvezza si offre e per il quale tutte le esperienze spirituali sono dei calvari.

5. Pace e convivenza tra i popoli in letteratura

"Il Rabbi disse:

Sta scritto nel Salmo Grandéi la pace (Salmo 118. v.165.

Perché anche se gli Israeliti diventassero idolatri,

ma facessero opera di pace,

Dio direbbe: Non posso far nulla contro di loro"

Bereshit Rabba


Nel suo romanzo, composto nella cella di un carcere nazista e pubblicato nel dopoguerra, La morte di Virgilio, il romanziere austriaco Hermann Broch imma­gina un colloquio tra Virgilio morente e Cesare Ottaviano sul futuro di Roma im­periale, e in particolare sul modo di mantenere la pace: "Faticoso era il respiro. faticosa la parola, faticosa la lotta contro la sempre vigile diffidenza di Cesare, contro il suo suscettibile orgoglio: "Senza spada è la pace che tu hai fondata al­l'interno dell'impero, o Cesare, e senza spada essa abbraccerà tutto il mondo". "Giusto [...] e io cercherò di ordinare la pace mediante trattati e non con la spa­da; per quanto l'ombra della spada debba stare dietro al trattato perché nessuno lo infranga". "Nel regno della conoscenza la spada diventerà superflua".
"L'imperatore alzò gli occhi quasi stupito: "Non vuoi premunirti contro even­tuali violazioni dei trattati e dei patti? e come vorresti attuarlo senza l'aiuto delle legioni?"
L'incomprensione tra i due è totale; per l'uno, lo statista, non vi è che una for­ma di convivenza pacifica tra i popoli, quella garantita dalla armi a presidio dei trattati; per il poeta, l'imperium sine fine, illimitato nel tempo, al di fuori di ogni coordinata spaziale, è l'impero della conoscenza, di cui il dominio di Roma non è che un'allegoria.
In ogni caso, sia l'ideale sapienziale di Virgilio, con i suoi tratti di esoterismo, sia il realismo del politico, sono lontani dalla visione cristiana della pace, come è delineata con divina semplicità nel Nuovo Testamento, dall'Evangelo di Gio­vanni, 14,27 a-b ("Vi lascio la mia pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mon­do io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore"), ai testi pao­lini della Lettera ai Tèssalonicesi 3,16 ("Il Signore della pace vi dia egli stesso la sua pace sempre e in ogni modo"), della Lettera agli Efesini 2,14 19, che identifica­no in Cristo il fondamento della pace ("Egli è infatti la nostra pace"), alle esorta­zioni dell'Apostolo contenute in più passi della Lettera ai Romani (8, 6: ... i desi­deri dello Spirito sono vita e pace" 12,18: "Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti").
Nella letteratura patristica, tra le tante testimonianze di ripudio della guerra, ci basti selezionare quella di San Cipriano (IlI sec. d.C): "Il mondo è bagnato di sangue fraterno: l'omicidio è crimine quando sono i singoli a commetterlo, ma diventa virtù quando è compiuto in nome dello stato!

Questa impunità dai delitti non è causata da innocenza e giustizia, ma dalla grandezza della ferocia" (A Donato, 6). L'insegnamento della Chiesa Cattolica si riassume nella Costituzione Pastorale Gaudium et Spes su La Chiesa nel mondo contemporaneo (capitolo V, nn. 77 90), tra i più importanti documenti del Concilio Vaticano II: "La pace non è la semplice assenza della guerra, né può ridursi uni­camente a rendere stabile l'equilibrio delle forze contrastanti, né è l'effetto di una dispotica dominazione, ma essa viene con tutta esattezza definita opera del­la giustizia. E' il frutto dell'ordine impresso nella umana società dal suo Fondato­re e che deve essere attuato dagli uomini che aspirano ardentemente a una giusti­zia sempre più perfetta [...] La pace non è stata mai qualcosa di stabilmente rag­giunto, ma è un edificio da costruirsi continuamente (n. 78 a).
In particolare, "ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distru­zione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità, e con fermezza e senza esitazione deve essere condan­nato (n. 80 d)."
Alla condanna della guerra totale come crimine contro Dio e l'umanità fanno seguito le proposte per la prevenzione e la soluzione dei conflitti, quali l'istituzio­ne di organismi internazionali; la cooperazione internazionale sul piano (nn. 84-85), il compito dei cristiani nell'aiuto economico agli altri paesi, l'efficace pre­senza della Chiesa nelle istituzioni e dei cristiani in detti organismi (nn. 88-90), l'arresto alla corsa agli armamenti.
Il riconoscimento del diritto alla legittima difesa non autorizza l'imposizione del dominio su altre nazioni (nn. 79).
Ci si perdoni il lungo indugio sulla posizione della Chiesa per quanto riguar­da la convivenza tra i popoli. Esso valga solo a segnare la distanza tra una conce­zione passiva della pace, a cui si ispira lo stesso gesto di Antigone, che con la se­poltura del fratello rivendicando i diritti dei morti afferma una sorta di trascen­denza della morte sulla vita, e la prassi inaugurata dal Cristianesimo di una pro­mozione della pace, in termini di collaborazione attiva, non di aristocratico iso­lamento o di fuga da un mondo dominato dalla discordia e dall' odio.
E' il rischio che corrono, per rimanere nell'ambito della letteratura di lingua tedesca del Novecento, scrittori contemporanei del già citato Broch, come Ernst Wiechert, romanziere di successo anche in Italia tra i tardi anni Quaranta e i pri­mi anni Cinquanta del secolo scorso, che con La vita semplice propone nel ritor­no alla Natura, nell'estraniarsi dalla vita urbana, la guarigione di ogni male, o co­me il celebratissimo autore di Siddharta Hermann Hesse, con la sua evasione in un passato utopico e la sua rievocazione della musica del Seicento e del Settecen­to ne Il gioco delle perle di vetro. Sia in Hesse che in Wiechert, il tempo è abolito; la fuga dal presente storico approda a un umanitarismo che condanna la storia in nome della natura.
Ben altra è la lezione che ci proviene da uno scritto in forma di diario Nulla di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque, tra le più straordinarie te­stimonianze della crudeltà dell'estenuante guerra di posizione, quale fu la prima guerra mondiale.
In nessuna opera degli scrittori citati, eccezion fatta per l'ultimo, che tuttavia insiste più sugli orrori e sulle devastazioni provocati dalla guerra sulla psiche giovanile che non sulla violazione delle norme etiche statuite sulla base di princi­pi imprescrittibili, l'amore della pace provoca una mobilitazione delle coscienze per un'opposizione alla guerra e un impegno di ricerca di soluzioni condivise dei conflitti.

L'attività letteraria, saggistica, e soprattutto drammatica di Bertolt Brecht merita ben altro discorso, per l'energica denuncia, che va ben oltre la sterile pro­testa dell'accaparramento dei beni della terra, destinato a sfociare nella guerra totale per la spartizione del mondo da parte dei detentori del potere economico, e soprattutto per l'efficacia della rappresentazione della miseria materiale e mo­rale di cui è causa uno stato di guerra permanente. Esemplare, sotto questo profi­lo, è Madre Coraggio e i suoi figli, ambientata durante la guerra dei Trenta Anni, per la grandiosa rappresentazione del dramma irrisolto nel cuore di una donna tra il sentimento materno e la dura necessità della sopravvivenza che la porta a speculare sulle conseguenze della guerra, ritenuta condizione naturale dei rap­porti tra i popoli. Altrettanto efficace, ne L'anima buona di Sezuan, l'impietosa satira di un inerte atteggiamento pacifista e della bontà passiva in un mondo do­minato dalle forze del Male. La lucida individuazione della origine di tutti i mali e della loro manifestazione estrema, la guerra, nel capitalismo finanziario e nella divisione della società in classi, conferisce vigore e straordinaria incisività al di­scorso drammaturgico di Brecht, viziato tuttavia, in buona parte dei lavori tea­trali degli anni Trenta, da un marcato ideologismo di impronta marxista, che fa dipendere la causa della pace tra i popoli da una rivoluzione sociale che rovesci l'ordine esistente, e non dalla conversione radicale delle coscienze.
Se si risale a ritroso lungo la tradizione letteraria, sino al Settecento, epoca d'oro del romanzo satirico, ci si imbatte, nel quarto de I viaggi di Gulliver di Jona­than Swift, in una testimonianza raccapricciante nel suo candore, sulle cause delle guerre tra stati, resa dall'autore al signore della razza degli Houyhnhm presso cui è a servizio: "La contesa tra due principi nasce talvolta da questo: chi di loro due dovrà spogliare un terzo di domini sui quali né il primo né il se­condo può accampare alcun diritto. C'é pure il caso in cui un principe fa guerra all'altro, solo perché teme che quest'altro possa far guerra a lui. La guerra, inol­tre, scoppia, ora perché il nemico è troppo forte, ora perché è troppo debole. A volte i nostri vicini non hanno le cose di cui noi abbondiamo, o, viceversa, abbon­dano delle cose che ci fanno difetto: allora si combatte finché o quelli ci pigliano la roba nostra, o ci danno la loro. Legittima ragione di invadere un paese è lo stato di debolezza in cui questo si viene a trovare dopo una carestia rovinosa, o una pe­stilenza sterminatrice, o una guerra civile provocata da fazioni. Si ha diritto di muovere guerra al nostro più stretto alleato sempre che una delle sue città giaccia in una posizione che strategicamente conviene a noi, o che un suo territorio pos­sa arrotondare e integrare i nostri domini.
Quando un principe invade con truppe agguerrite un paese in cui gli abitanti sono poveri e ignoranti, è perfettamente legittimo che egli di questi mandi la me­tà a morte, e converta l'altra metà in tanti schiavi, per il fine di incivilirli e obbli­garli a smettere il loro barbaro tenore di vita.
Quando un principe chiama in aiuto Tizio per respingere l'invasione di Caio, la maestà stessa, l'onore e la consuetudine vogliono che Tizio, cacciato che abbia Caio, usurpi i domini che era venuto a difendere, e ammazzi, imprigioni o esili il principe in soccorso del quale s'era mosso.
L'alleanza di consanguinei o affini si tramuta spesso in una causa di ostilità: anzi, quanto più stretti sono i parenti, tanto più sono proclivi ad attaccare brighe.

Le nazioni povere hanno fame e le ricche sono piene di orgoglio, e orgoglio e fame si faranno sempre la guerra.
Per tutte queste ragioni il mestiere del soldato è onorifico più di qualsiasi al­tro: perché il soldato è uno yahoo che mediante una mercede si obbliga ad am­mazzare a sangue freddo quanti suoi simili più può, senza che questi gli abbiano mai recato la minima offesa" (Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver, Milano, 1982, pp. 514515, traduzione italiana).
Il provocatorio racconto dell'autore, da cui si evince che le relazioni tra i mo­narchi nel mondo degli yahoo (uomini nella lingua di quel popolo) comportano uno stato di guerra permanente, suscita la reazione indignata del suo signore, per il cinismo e la crudeltà e l'uso perverso e disumanizzante della ragione, di cui tanto gli uomini si vantano come loro prerogativa.
La posizione di Manzoni, avversa al modello di relazioni tra i popoli che esclude una pace tra eguali e assume come principio indiscusso il dominio del più forte, pena lo sterminio di chi voglia resistergli, come fa intendere il corrosivo estro satirico di Swift, emerge in modo inequivoco nei Promessi Sposi già nell'an­tifrasi dell'aggettivo bella che definisce la guerra: "il guasto e lo sperperio di quella bella guerra di cui abbiamo fatto menzione di sopra (capitolo XII). Il sar­casmo di Manzoni sembra investire qualsiasi guerra, non solo quella di succes­sione al ducato di Mantova di cui sta parlando; essa non trova altra legittimazio­ne se non in una guerra difensiva, che tuttavia "non può esistere se non alla con­dizione di una guerra ingiusta", come egli argomenterà nel Pensiero XV,II.
Se non che tutte le parti in conflitto tentano di giustificare l'intervento armato a vendetta di un torto subito o per il ristabilimento dell'ordine turbato, come Manzoni osserva nel capitolo XXVII: "La corte di Madrid, che voleva a ogni co­sto (abbiam detto anche questo) escludere da quei due feudi il nuovo principe, e per escluderlo aveva bisogno di una ragione (perché le guerre fatte senza una ra­gione sarebbero ingiuste), s'era dichiarata sostenitrice di quella che pretendeva­no avere, su Mantova un altro Gonzaga, Ferrante principe di Guastalla; sul Monferrato Carlo Emanuele I, duca di Savoia, e Margherita Gonzaga, duchessa vedova di Lorena".
Il paradosso, confinato nell'inserto parentetico, denuncia il carattere prete­stuoso e strumentale delle ragioni addotte a legittimare un conflitto, occasionato sempre da un casus belli inventato ad arte.
La via d'uscita da un mondo ove non contano che i rapporti di forza e il diritto del più forte, suggerita dalla semplicità evangelica ,di padre Cristoforo, invitato dai commensali di don Rodrigo a dirimere una disputa cavalleresca: "il mio debol parere sarebbe che non vi fossero né sfide, né portatori, né bastonate", provoca la sorpresa del conte Attilio: "... Con queste massime, Lei vorrebbe mandare il mon­do sossopra. Senza sfide! Senza bastonate! Addio il punto d'onore: impunità per tutti i mascalzoni! Per buona sorte che il supposto è impossibile" (capitolo V).
L'utopia cristiana del Regno di pace, di giustizia e d'amore, apertamente ri­fiutata e irrisa dal conte Attilio, può essere accettata solo a patto di essere confi­nata nello spazio separato del sacro, al di fuori di ogni relazione con la storia, co­me osserva Azzeccagarbugli nella sua argomentata teoria della doppia verità, una, valida nell'ambito del sacro, l'altra nell'ambito del profano: "[...] la sua sen­tenza, buona, ottima e di giusto peso sul pulpito, non vaI niente, sia detto col do­vuto rispetto, in una disputa cavalleresca".
E' la massima concessione che la Realpolitik può fare al religioso, con cui non intrattiene altro rapporto che non sia di indifferenza, o-di sottomissione alle pro­prie ragioni.
Ma nelle Osservazioni sulla Morale cattolica, nel VII capitolo intitolato Degli odi religiosi, Manzoni riprende un tema già trattato con dissacrante ironia, ai li­miti del blasfemo, da Swift nel citato VI capitolo de I viaggi di Gulliver, ove l'auto­re, tra le cause delle guerre, include anche quelle di religione: "Non si contano i milioni di vite sacrificate alla discrepanza di opinione: se, per esempio, la carne sia pane, o non piuttosto il pane sia carne; se il succo di una certa bacca sia san­gue ovvero vino" (pp. 511543, citata edizione).
A proposito della strage degli Ugonotti, da parte dei cattolici nella notte di San Bartolomeo, Manzoni osserva, in una pagina che sembra anticipare profeti­camente l'insegnamento del Concilio Vaticano II: "La memoria di quell'atrocis­sima notte dovrebbe servire a far proscrivere l'ambizione e lo spirito fazioso, l'a­buso del potere e l'insubordinazione alle leggi, l'orribile e stolta politica che inse­gna a violare a ogni passo la giustizia per ottenere qualche vantaggio, e quando poi queste violazioni accumulate abbiano condotto un gravissimo pericolo, inse­gna che tutto è lecito per salvar tutto..."
La sacralità della vita e l'inviolabilità dei diritti della persona, fine e non mez­zo, che nessuna causa, che pur si presuma nobile, come quella del trionfo della re­ligione, può calpestare, sono proclamate con fermezza: "Nessun cattolico di buona fede può mai credere d'avere una giusta ragione per odiare il suo fratello" e ancora in chiusura del capitolo: "La violenza esercitata in questa religione di pace e di misericordia è affatto avversa al suo spirito [...] Onore a quegli uomini veramente cristiani che, in ogni tempo, e in faccia a ogni passione e a ogni poten­za, predicarono la mansuetudine; da quel Lattanzio che scrisse doversi la religio­ne difendere col morire, e non con l'uccidere, fino agli ultimi che si sono trovati in circostanze in cui ci volesse coraggio per manifestare un sentimento così essen­zialmente evangelico".
La nostalgia della pace, l'orrore della violenza, il rimorso per la vendetta che lo stato di guerra e la necessità di sopravvivere impongono, fanno da controcan­to, nel romanzo di Primo Levi Se non ora, quando? al legittimo orgoglio per la ri­conquistata coscienza della propria identità religiosa ed etnica degli ebrei del­l'Europa orientale resistenti al nazismo.
La vendetta è inseparabile dalla testimonianza, come recita la lirica che dà il titolo al libro "Solo noi pochi siamo sopravvissuti / per l'onore del nostro popolo sommerso / per la vendetta e la testimonianza. / Se non sono io per me. chi sarà per me? / Se non così come? E se non ora, quando?" (Se non ora, quando? Roman­zi e poesie, Volume II, Torino, 1994, cap. VI p. 337)
L'inevitabilità della guerra, sia pure a fini difensivi, e pertanto dell'uccidere,

non annulla la legge imprescrittibile, statuita dal quinto comandamento (il sesto nella tradizione ebraica).
Il partigiano ebreo Mendel, il solo sopravvissuto della sua comunità, dice: "E dopo di allora io penso che uccidere sia brutto, ma che di uccidere i tedeschi non ne possiamo fare a meno. Da lontano o da vicino, alla tua maniera o alla no­stra. Perché uccidere è il solo linguaggio che capiscono, il solo ragionamento che li fa convinti. Se io sparo a un tedesco, lui è costretto ad ammettere che io ebreo valgo più di lui: è la sua logica capisci; non la mia. Loro capiscono solo la forza. Certo, convincere uno che muore non serve a molto, ma a lungo andare an­che i suoi camerati finiscono col capire. I tedeschi hanno incominciato a capire qualche cosa solo dopo Stalingrado. Ecco, per questo è importante che ci siano partigiani ebrei, ed ebrei nell'Armata Rossa. E' importante, ma è anche orribile; solo se io uccido un tedesco riuscirò a persuadere gli altri tedeschi che io sono un uomo. Eppure noi abbiamo una legge che dice "Non uccidere" (capo IV, p. 279, citata edizione).
Durante la ritirata delle truppe tedesche, sul fronte orientale, i partigiani oc­cupano la sala del Consiglio Comunale di una città e fanno giustizia degli ucciso­ri di una loro compagna: "Raggiunsero rapidi e silenziosi la porta del villaggio; le sentinelle non c'erano; irruppero di corsa per le vie deserte, mentre a Mendel tornavano a mente immagini lontane, sbiadite e importune, immagini che ti in­ceppano invece di sospingerti. Simone e Levi che vendicano col sangue l'affronto fatto dai Sichemiti alla sorella Dina. Era stata giusta quella vendetta? Esiste una vendetta giusta? Non esiste; ma se sei uomo, e la vendetta grida nel tuo sangue, e allora corri e distruggi e uccidi: come loro, come i tedeschi" (pag.472).
L'atto, imposto dall'inesorabile necessità della guerra, non ha, ai loro occhi, nonostante l'autorevole precedente riportato nel libro della Genesi, a cui il perso­naggio fa riferimento, alcuna legittimazione etica.
Il partigiano rifiuta la legge di guerra, applicata dal nemico, che stabilisce, per ogni tedesco ucciso, il sacrificio di dieci vittime, civili e innocenti: la legge di guerra va umanizzata, come dice Mendel che, dopo la macabra contabilità a fi­ne giornata, osserva con raccapriccio che purtroppo lo stesso rapporto (dieci per uno) è stato fatto valere anche da loro: "Il sangue non si paga col sangue. Il sangue si paga con la giustizia. Chi ha sparato alla Nera è stato una bestia. Se i te­deschi hanno ucciso col gas, dovremo uccidere col gas tutti i tedeschi? Se i tede­schi uccidevano dieci per uno e noi faremo come loro, diventeremo come loro, e non ci sarà pace mai più (pag. 473, capitolo XI).
L'orizzonte della pace sembra dischiudersi, pur nel disfrenarsi cieco della barbarie, e ogni gesto compiuto, di difesa e di vendetta, sembra avere un senso in vista di quel fine ultimo che accende i cuori di speranza.
La riluttanza a uccidere, pur in presenza di un nemico crudele, e sterminatore, ha radice del resto nella religiosità dell'ebraismo, che stenta ad ammettere la dero­ga dalla Legge divina. La disobbedienza all'ordine di fare fuoco sui nemici da par­te di un gruppo di studenti di una scuola rabbinica dell'impero zarista, che si legge nell'episodio raccontato da un personaggio dello stesso romanzo di Primo Levi, conferma il permanere, negli strati profondi dell'ebraismo, di una mentalità non violenta: "Non vede, signor capitano? Non sono sagome di cartone, sono uomini come noi. Se gli sparassimo, gli potremmo fare del male (pp. 284 85).
E' una cultura di pace, quella che affonda le sue radici nella tradizione giudai­co-cristiana, interiorizzata al punto da fare valere la pace come un bene assolu­to, al posto più alto nell'ordine dei valori, più in alto che non l'adorazione del Dio unico, come si legge nel detto rabbinico citato in epigrafe.

Ma forse non c'è contraddizione: la promozione della pace è l'opera più gradita a Dio, e può essere ritenuta la forma più autentica dell'obbedienza alla sua Legge.