PROPOSTA DIDATTICA

MATERIALI PER L'ELABORAZIONE DI UN ARTICOLO DI GIORNALE SUL TEMA

LA CRITICA DELLA GLOBALIZZAZIONE

di Federico MATTEODA, economista


Per l'ultimo anno della Scuola Secondaria Superiore, in preparazione dell'esame di stato



1. Introduzione: l'importanza delle critiche alla globalizzazione

A partire dalla conferenza della Wto (World trade organization, denominata anche Omc, Organizzazione mondiale del commercio) tenutasi a Seattle (Usa) nel novembre 1999, fino alla riunione del G8 (il G8 riunisce i capi di Stato e di governo dei più grandi Paesi industrializzati, che si incontrano periodicamente per discutere di questioni economiche. Ne fanno parte USA, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Canada e Italia. Dal 1997 anche la Russia viene ammessa a questi incontri, pur non partecipando ancora ad alcune decisioni finanziarie) che si è svolta a Genova nel luglio 2001, tutti i convegni economici e politici internazionali di una qualche importanza sono stati accompagnati dalle manifestazioni di protesta di quello che da tutti viene ormai indicato come "movimento di Seattle", oppure "movimento no global". Si tratta di un movimento internazionale che si autoorganizza tramite Internet, ed è costituito da centinaia di gruppi di tutti i Paesi, dalle connotazioni ideologiche e programmatiche molto varie (movimenti religiosi di diverse confessioni, ex e neo comunisti, gruppi anarchici, amici del Terzo mondo, organizzazioni umanitarie, gruppi ambientalisti, sindacati, Ong [Organizzazioni non governative, finalizzate agli scopi più diversi: difesa dei lavoratori, dei bambini, delle donne, dei diritti civili e di quelli politici, dei carcerati, della salute, dei consumatori, dell'ambiente, degli animali; promozione di iniziative che si propongono di accrescere la giustizia e arrecare vantaggi collettivi. A Seattle erano presenti ben 1387 organizzazioni non governative]), apparentemente uniti dal convincimento che la globalizzazione sia nient'altro che il nome della nuova struttura dell'economia mondiale imposta dal grande capitale internazionale, che per accrescere i profitti aggrava lo sfruttamento dei lavoratori e dell'ambiente, sia nei Paesi del Terzo mondo che nei Paesi industrializzati.

Prima di esaminarne le denunce, i giudizi e le proposte del movimento no global, se ne deve sottolineare non solo la valenza etica ma anche e soprattutto la grande importanza concreta, dovuta alla forza della sua critica. Il primato economico dell'Europa si è affermato contemporaneamente alla crescita della libertà dei cittadini rispetto a tutte le forme di autorità e libertà significa anche diritto e possibilità di critica della realtà in atto e dei poteri che la organizzano. In nessun campo può infatti realizzarsi un qualsiasi progresso senza la preventiva critica di ciò che già esiste: critica e progresso costituiscono una unità inscindibile, perché solo dall'analisi degli aspetti negativi del presente e delle possibilità di superarli può muovere l'azione volta a contrastare la rete di interessi e di credenze che tendono a perpetuare l'esistente. E' forse questo l'aspetto che più di ogni altro distingue la cultura occidentale: il riconoscimento, ad ogni individuo o gruppo, della fondamentale libertà di dissenso e di critica: il movimento no global, esercitandola, richiama l'attenzione dei popoli e dei governi sulle ingiustizie e sui pericoli insiti nell'attuale processo di globalizzazione e negli sviluppi che l'accompagnano. Esso inoltre costringe anche chi è convinto della positività della globalizzazione ad approfondire le analisi, portando alla luce aspetti e significati dei problemi che altrimenti rimarrebbero occultati dalla superficialità, dalle ideologie o dai calcoli interessati.

Alcuni dei temi sollevati dai no global non verranno qui discussi perché vi è un accordo unanime con le loro analisi e le loro denunce: crescente inquinamento dell'aria e dell'acqua, della terra e della stratosfera; predazione delle risorse ambientali non rinnovabili operata dalle multinazionali nei Pvs (vedremo però che ciò avviene grazie alla determinante complicità delle classi politiche locali); esigenza di maggiori controlli e di una migliore informazione sugli alimenti e sui farmaci. Saranno invece esaminati gli aspetti controversi della critica alla globalizzazione, le proposte avanzate dal movimento no global, e le valutazioni e le risposte che ad esse vengono date.

Prima però è necessario delineare con precisione, nel primo capitolo, la natura e le conseguenze della globalizzazione, evitando gli errori e l'incompletezza con i quali di solito se ne parla; solo in questo modo sarà possibile esaminare correttamente il suo rapporto con la povertà del Terzo mondo, essendo questo rapporto al centro delle analisi dei no global.

Inoltre, poiché la globalizzazione è lo stadio più recente di una lunga evoluzione dell'economia e delle società capitalistiche, si descrivono le origini e la natura del capitalismo, nonché della democrazia che ne ha accompagnato lo sviluppo; vengono inoltre analizzati quei caratteri che fanno del capitalismo il modo più efficiente per produrre ricchezza. Nei restanti capitoli viene approfondito l'esame di alcuni argomenti toccati nei capitoli precedenti.

1-1 - Interessi concentrati e interessi diffusi. Le conseguenze dell'incapacità di ragionare nel lungo termine. L'esempio del problema ambientale

Vedremo nel corso di questo lavoro come molte delle soluzioni proposte dai critici della globalizzazione per i problemi da essi correttamente individuati -anche quelle che sarebbero tecnicamente realizzabili e sicuramente efficaci- non vengono tuttavia adottate dai governi a causa della loro irrealizzabilità politica, dovuta ad un serio limite delle attuali democrazie. In sintesi: l'esperienza storica dimostra che le soluzioni ai problemi economici, politici e sociali, e oggi anche a quelli ambientali, spesso non vengono adottate, nemmeno quelle più evidenti e condivise, per l'opposizione di forti interessi concentrati di un numero limitato di soggetti bene organizzati, che riescono ad influire sulle decisioni dei politici in almeno due casi: quando le giuste soluzioni, che danneggerebbero questi interessi, non sono chiaramente comprese dalla generalità dei cittadini, oppure quando queste soluzioni, pur evidenti a tutti e necessarie per evitare danni futuri, implicano costi attuali che la maggior parte dei cittadini non vuole sopportare, perché capace soltanto di ragionare in una prospettiva di breve periodo. Di conseguenza i politici evitano di imporre queste soluzioni, temendo l'impopolarità. Ad esempio nel caso dell'effetto serra accade che l'ovvia soluzione -ridurre le emissioni di anidride carbonica- implica da subito il dover sopportare costi elevati, mentre il danno da evitare (scioglimento dei ghiacci polari, conseguente innalzamento del livello dei mari e allagamento delle città costiere, desertificazione delle attuali fasce a clima temperato, alterazione degli equilibri faunistici, incremento delle precipitazioni atmosferiche a carattere violento e distruttivo) appare più o meno lontano nel tempo, e quindi la maggior parte dell'opinione pubblica oscilla tra un allarmismo superficiale (periodicamente suscitato dai media ma incapace di acquistare dimensione e peso politico) e un sostanziale disinteresse di fondo, che suggerisce ai politici di non fare nulla. Per contrastare l'effetto serra ci vorrebbe ben altro che le tiepide misure previste dal trattato di Kyoto (il trattato di Kyoto impegna i Paesi aderenti a ridurre le emissioni di CO2).

e soprattutto ci vorrebbe un governo mondiale dotato di poteri di coercizione effettivi e universalmente applicabili. In assenza di un'autorità sovranazionale nessun governo cercherà mai di imorre ai propri cittadini misure efficaci per il contenimento delle emissioni: non lo faranno i governi dei Paesi industrializzati, perché l'aumento dei costi ridurrebbe il tenore di vita, la produzione e l'occupazione, a vantaggio dei Paesi concorrenti dotati di minori scrupoli; e tanto meno lo faranno i Pvs, ai quali non ha senso chiedere di accrescere i costi del loro sviluppo per contenere un danno che, finora, è stato provocato soprattutto dai Paesi industrializzati (ed infatti il trattato esonera i Pvs dall'impegno di ridurre le emissioni, non tenendo conto del fatto che sono proprio questi Paesi che, cercando di industrializzarsi, utilizzano la fonte energetica meno costosa, il carbone, che è anche la più inquinante).

Ciò non significa tuttavia che nulla venga mai fatto: si fa il necessario se e quando si tratta non di sostenere un costo attuale per evitare un danno futuro, ma di evitare un danno grave già in atto e immediatamente sopportato da tutti. In questo caso la classe politica di ogni Paese è costretta ad imporre anche alle più forti coalizioni di oppositori quelle soluzioni che, malgrado i costi, appaiono indispensabili alla generalità dei cittadini. Se e quando i danni provocati dall'aumento della temperatura divenissero consistenti ed evidenti, è probabile che i governi dei principali Paesi si coalizzerebbero per imporre anche agli eventuali recalcitranti le misure necessarie. Ma non è infondato il timore che si arrivi a questo punto soltanto dopo che si saranno subiti gravissimi danni, interpretabili come annuncio di un prossimo disastro totale: prima di allora le previsioni degli scienziati e le proteste degli ambientalisti e dei no global, anche se accompagnate da evidenti sintomi di pericolo, potrebbero servire soltanto ad alimentare le oscillazioni tra paura e indifferenza.

Si può fare un significativo esempio degli anni '50: da tempo si parlava dello "smog" londinese, una miscela di nebbia, fumo e particelle di carbone incombuste, micidiale per i polmoni degli abitanti della capitale britannica. Quando per due inverni consecutivi le morti sicuramente causate dallo smog toccarono cifre molto elevate, specie tra le persone con affezioni alle vie respiratorie e tra gli anziani, venne imposta in brevissimo tempo la trasformazione da carbone a gasolio degli impianti di riscaldamento privati e di tutti gli impianti di combustione industriali, e l'aria di Londra tornò respirabile. Perché le autorità non erano intervenute prima? Perché i costi della trasformazione erano rilevanti, e gli interessi concentrati dei proprietari degli impianti erano sempre riusciti a prevalere sull'interesse generale; i politici imposero la trasformazione soltanto quando tutti gli elettori si sentirono direttamente minacciati.

Effetto serra e smog londinese sono due esempi del già accennato limite delle attuali società democratiche: le perduranti ingiustizie, le vaste sacche di povertà, le forme di sfruttamento che permangono, le gravi disfunzioni e le inerzie in importanti ambiti sociali, la frequente corruzione dei politici e le commistioni tra politica e affari, non sono più, come probabilmente erano agli inizi dell'industrializzazione, pratiche necessarie per una rapida accumulazione che consenta lo sviluppo del capitalismo: oggi sono soltanto la conseguenza del prevalere di interessi che la democrazia consentirebbe di superare, e che tuttavia continuano ad imporsi a causa del basso livello della cultura economica e politica della quasi totalità dei cittadini, che li rende incapaci di scorgere i propri interessi di lungo periodo e quindi succubi di illusorie campagne di agitazione o di rassicurazione, orchestrate dai gruppi interessati alla conservazione degli esistenti rapporti economici e di potere. Oggi, grazie all'incremento della ricchezza accumulata e delle capacità produttive che il capitalismo ha realizzato, esisterebbe in concreto la possibilità di sottoporre tutte le attività economiche ad un controllo che, senza soffocarle, ne limiti i guasti, esigendo dai politici una considerazione dell'interesse generale più onesta e lungimirante di quella fin qui praticata; ma questa possibilità reale esige le due condizioni ricordate: una trasformazione radicale della consapevolezza dei cittadini e, nella maggior parte dei casi, anche un effettivo governo mondiale, o almeno una solida coalizione dei principali Paesi che ne assuma le funzioni.

La crescita della consapevolezza, che per la prima volta nella storia realizzerebbe la concreta partecipazione di tutti al controllo della propria vita (dando così piena attuazione al modello democratico), incontra l'opposizione mascherata della maggior parte degli attuali detentori del potere politico ed economico, che riescono a mantenere i cittadini nell'ignoranza grazie al fatto di essere anche i controllori della maggior parte dei canali culturali e dei mezzi di informazione, e in relazione a ciò non si sottolineerà mai abbastanza il valore della critica al capitalismo e alla globalizzazione, tesa ad accrescere la consapevolezza dei problemi.

La seconda condizione - realizzazione di un effettivo governo mondiale incontra invece due ostacoli molto difficili da superare e dei quali si parla assai poco, malgrado la loro evidenza.

2. La globalizzazione e le sue conseguenze

Da alcuni anni si parla e si scrive molto di globalizzazione dell'economia, ma di rado se ne descrivono con completezza la natura, i modi di manifestarsi e le conseguenze. Si cercherà di farlo in questo paragrafo, dal quale dipende tutto il seguito di questo lavoro: infatti il senso e la validità di ciò che viene detto (da qualunque punto di vista) sui problemi sollevati dai no global, dipendono dalla corretta comprensione delle possibilità, dei limiti e degli imperativi che la globalizzazione pone allo sviluppo dell'economia di tutti i Paesi, industrializzati o in via di sviluppo.

Il termine viene spesso riferito ad ambiti temporali di diversa estensione. Alcuni amano affermare che la globalizzazione c'è sempre stata, almeno dai tempi dell'Impero romano o da quelli delle grandi scoperte geografiche e dei traffici con le Americhe e con l'Oriente; altri la fanno risalire all'epoca dell'incremento del commercio internazionale a seguito del primo sviluppo industriale alla fine del Settecento, altri ancora ne spostano l'inizio alla fine dell'Ottocento, oppure dopo la seconda guerra mondiale, sempre in coincidenza con dei picchi di incremento dei traffici internazionali. Ma è evidente che in tutti questi usi il termine è privo di una connotazione specifica, essendo soltanto un sinonimo del concetto di internazionalizzazione dell'economia. La globalizzazione di cui invece oggi si parla è un insieme di fatti specifici relativi alle attività produttive, commerciali e finanziarie, che hanno assunto una valenza complessiva negli ultimi vent'anni; essa dipende interamente da tre principali fattori, tutti legati all'evoluzione della scienza e della tecnica.

1) L'invenzione del microprocessore, di gran lunga il fattore più importante. Il microprocessore è una memoria elettronica, nelle cui microcelle sono memorizzate (in codice binario: 0/1, sì/no, aperto/chiuso) le informazioni necessarie per regolare il passaggio della corrente elettrica nelle diverse parti di una qualsiasi macchina (orologi elettronici, sistemi di controllo e comando di un videoregistratore, di una lavastoviglie, di un'automobile, ecc.), regolandone il funzionamento automatico. I microprocessori (detti anche microelaboratori) hanno perciò un vastissimo campo di applicazioni, e soprattutto costituiscono le unità centrali dei computer. Vi è un continuo progresso nella costruzione dei microprocessori, che in spazi via via più ridotti concentrano sempre maggiori capacità di memoria, permettendo ai computer, e alle altre apparecchiature elettroniche che li utilizzano, di compiere elaborazioni sempre più veloci e complesse di masse crescenti di dati, fornendo sempre migliori soluzioni ai problemi di ogni tipo.

2) L'enorme riduzione -tendenzialmente verso lo zero- del costo di ogni tipo di comunicazione (trasmissione di suoni, testi e immagini, soprattutto utilizzando la rete Internet) attraverso cavi telefonici, cavi a fibre ottiche, segnali elettronici trasmessi via etere mediante ripetitori o satelliti.

3) I ridottissimi costi per il trasporto di merci via acqua in ogni punto del globo.

Inoltre, per lo sviluppo della globalizzazione, era necessaria la presenza di altri due fattori, dipendenti non dall'evoluzione della tecnica ma dalle scelte di politica economica dei governi:

4) i Paesi economicamente avanzati hanno sempre più aderito al modello della libera circolazione dei capitali, abbandonando le tradizionali politiche che ponevano ostacoli alla loro emigrazione all'estero;

5) contemporaneamente i Paesi occidentali hanno intrapreso un'efficace politica disinflazionistica, per eliminare la corsa dei prezzi degli anni '70. Questa politica ha consentito di ridurre drasticamente i tassi di interesse e quindi la rimunerazione dei titoli a reddito fisso, stimolando ulteriormente la mobilità dei capitali anche verso l'estero, alla ricerca di investimenti profittevoli.

2-1 - La scomparsa dei limiti alla trasferibilità delle tecniche e dei capitali

I fatti descritti hanno significato la fine delle teorie classica e neoclassica sul commercio estero, secondo le quali esistevano precisi limiti alla trasferibilità dei capitali e delle tecnologie nei Pvs, la cui manodopera non era in grado di utilizzare al meglio le attrezzature più complesse. La teoria rispecchiava una realtà nella quale le produzioni ad alto contenuto tecnologico e intenso uso di capitale erano prerogativa dei Paesi avanzati, mentre negli altri Paesi (generalmente produttori di materie prime, agricole o minerarie) venivano trasferite produzioni industriali a basso contenuto tecnologico e uso intensivo di manodopera. Oggi, poiché tutte le forme di comunicazione e di trasporto sono enormemente facilitate, i capitali e le tecnologie si spostano velocemente ovunque, e possono farlo perché, grazie ai microprocessori, il funzionamento di macchine anche molto complesse può essere sorvegliato da manodopera con media o bassa professionalità, mentre per risolvere i problemi tecnici occorre un numero limitato di esperti, facilmente assistiti dai centri specializzati nei Paesi d'origine grazie appunto alla facilità di dialogare a distanza e di comunicare immagini e dati di ogni tipo.

Naturalmente capitali e tecnologie non si spostano in quei Paesi nei quali il livello culturale è molto basso:

"non è una 'teoria', ma una realtà vista dappertutto nel mondo dei poveri. Dove c'è un popolo istruito, la crescita economica è inevitabile; dove c'è un popolo analfabeta è inevitabile il sottosviluppo. Per entrare nel 'mercato globale' con buone possibilità di crescita, la prima cosa che si richiede a tutti i Paesi è un buon livello di istruzione e poi la stabilità politica. Quindi la scuola è il motore dello sviluppo, molto più del denaro. Ad un popolo analfabeta, che non sa produrre nemmeno il cibo che gli serve per mantenersi, come si può prospettare una crescita economica, politica, sociale? (...).

Quante volte ho visto in Africa scuole elementari con classi di 60-70-80 e anche più di 100 bambini vocianti, che non hanno quaderni, matite, libri... Si limitano a ripetere tutti assieme quel che grida la maestrina e a tentare di leggere quel che lei scrive sulla lavagna" (P. Gheddo, R. Beretta, Davide e Golia. I cattolici e la sfida della globalizzazione, Ed. S. Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, pp. 125-127).

2-1.1 - Quattro modi di manifestarsi della globalizzazione

La globalizzazione si manifesta in tre ordini di fenomeni:

1. Concorrenza nei servizi. Nei Paesi di antica industrializzazione il settore dei servizi aveva sempre avuto la funzione di valvola di sfogo per la disoccupazione creata dal progresso tecnologico; la globalizzazione sta via via riducendo questa funzione.

a) imprese localizzate nei Paesi sviluppati fanno svolgere servizi, consistenti in elaborazione di dati di ogni genere, da operatori specializzati a basso costo, residenti nei Pvs - per ora soprattutto asiatici - che già dispongono di validi sistemi scolastici e quindi di operatori preparati: oggi un numero grandissimo di attività, che non richiedono nient'altro che un computer collegato ad un telefono, può essere svolto in qualsiasi parte del mondo: banche, società finanziarie e di assicurazioni, ospedali, imprese informatizzate di ogni genere, grazie alle comunicazioni in tempo reale via computer, fanno elaborare estratti conto, bilanci, polizze, cartelle cliniche, programmi operativi (software) a imprese di servizi che a volte operano a migliaia di chilometri di distanza. Ad esempio, oltre cento fra le cinquecento maggiori imprese degli Stati Uniti acquistano servizi di software da imprese indiane, i cui programmatori sono pagati meno di un quarto di quelli americani.

Spesso le grandi multinazionali creano all'estero dei grandi centri servizi:

"In India l'anno scorso la General Electric ha ssunto 6 mila persone e quest'anno ha in programme di reclutare mille scienziati, per il suo centro internazionale di ricerca, contabilità e gestione dei clienti, che così arriverà a 10 mila dipendenti. Dalle Filippine un gruppo di stock broker ha appena iniziato a lavorare per un nostro cliente americano, intermediario finanziario, vendendo al telefono azioni a clienti in Usa. In Ghana un centro di immissione ed elaborazione dati si occupa della liquidazione delle polizze di una compagnia assicurativa americana, Aq solution. Oltre 2 mila persone rispondono al telefono da call center a Rabat e Tangeri, in Marocco, a consumatori francesi e spagnoli, collegati dal gruppo spagnolo Telefonica. Nell'Europa dell' Est, e soprattutto in Ungheria e nella repubblica Ceca, molte società di servizi lavorano per aziende tedesche" (D. Lavin, intervistato da M. T. Cometto, "Corriere Economia", 11-2-02).

b) La concorrenza avviene non soltanto nelle funzioni amministrative e contabili, ma in tutti i tipi di servizi: ovunque nei Paesi ricchi si importano infermieri dal Terzo mondo; allo scopo di ridurre i costi dell'assistenza sanitaria il governo inglese ha invitato una delegazione di Bombay per discutere un piano di 'navette sanitarie' tra Gran Bretagna e India; negli Stati Uniti sta crescendo l'importazione di medici, ingegneri, professori universitari (si sta parlando di professionisti di livello medio: il fenomeno non va confuso con la 'fuga dei cervelli' verso gli Usa.

2. Investimenti nel Terzo mondo. I capitali in cerca di investimenti si spostano dai Paesi sviluppati ai Pvs asiatici, o ai Paesi ex comunisti dell'Europa orientale, o in alcuni Paesi dell'America latina, creando nuove imprese o filiali di imprese già esistenti in Europa occidentale, Nordamerica e Giappone; lo fanno per poter sfruttare il basso costo della forza lavoro, i ridottissimi oneri sociali a carico del datore di lavoro (socio-dumping), la ridotta tutela giuridica dell'ambiente (eco-dumping), e le facilitazioni fiscali, generalmente molto consistenti

3. Delocalizzazione. Anche quando non vi è l'investimento di nuovi capitali, un'impresa sposta all'estero, dove possa godere degli accennati vantaggi, alcune fasi della lavorazione di un prodotto (quelle a più alto contenuto di manodopera); può trattarsi delle fasi finali, oppure di fasi intermedie, e in tal caso i prodotti da finire vengono reimportati. Per quanto riguarda l'Italia, le imprese che delocalizzano appartengono a numerosi settori (tessili, calzature, meccanica), e causano forti riduzioni dell'occupazione. Eppure la delocalizzazione, che permette di mantenere nel Paese d'origine almeno le funzioni di direzione e progettazione, è l'unica alternativa al trasferimento integrale della produzione all'estero o alla cessazione dell'attività.

4. Crescita autonoma dei Pvs. Nei Pvs sorgono imprese con capitali indigeni, operanti anche in settori tecnicamente avanzati: per esempio Taiwan, acquistando tecnologia dall'estero, in pochi anni si è assicurata una consistente quota dell'industria mondiale dell'assemblaggio dei personal computer. Inoltre i governi più avveduti investono nell'istruzione e nella ricerca, e la concorrenza di un numero crescente di Pvs dipende non più soltanto dal basso costo del lavoro ma anche dalla capacità di creare nuovi prodotti.

Il risultato è una effettiva internazionalizzazione di tutti i processi economici:

"Un microprocessore viene generalmente progettato in California, ma impiega memorie dinamiche ad accesso casuale prodotte in Estremo oriente e viene montato su chassis in leghe metalliche speciali provenienti da ditte svedesi. Un jet montato negli Stati Uniti impiega motori prodotti da società inglesi, componenti particolari francesi, italiane e persino cinesi, elettronica giapponese, mentre una grande quantità di calcoli e di progetti di parti speciali viene elaborata su computer sparsi per il pianeta e circola in tempo reale su reti telematiche interconnesse" (Revelli, Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo, in: P. Ingrao, R.Rossanda, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma, 1995, pag. 204).

Molte grandi imprese multinazionali sono vere imprese globali, all'interno delle quali è diventato ormai quasi impossibile individuare (e quindi per i governi tassare) il contributo in valore aggiunto apportato da ogni singolo Paese:

"Il cittadino americano che acquista dalla General Motors una Pontiac Le Mans, si impegna inconsapevolmente in una transazione internazionale. Dei 10.000 dollari pagati alla GM, circa 3.000 vanno alla Corea del Sud per montaggi e lavori eseguiti da operai generici, 1.750 dollari vanno al Giappone per componenti avanzati (motori, alberi di trasmissione ed elettronica), 750 dollari alla Germania per la progettazione stilistica e tecnica, 400 dollari a Taiwan, a Singapore e al Giappone per l'acquisto di piccoli componenti, 250 dollari alla Gran Bretagna per servizi pubblicitari e di marketing e circa 50 dollari all'Irlanda e alle Barbados per l'elaborazione" (M.Revelli, ib., p. 203).

2-2 - La corsa alla riduzione dei costi e l'esasperazione della concorrenza internazionale

L'aspetto economicamente più significativo della globalizzazione, quello che meglio la definisce, è l'inarrestabile corsa a produrre dove i costi sono minori. E non si tratta di una scelta dettata dalla ricerca di profitti più elevati, ma di una imposizione del mercato globale, per non essere eliminati dalla concorrenza.

"La Bmw annuncia che ha in programma la costruzione di una fabbrica di automobili negli Stati Uniti. Molti Stati fanno un'offerta per l'impianto. Alla fine la Carolina del Sud, famosa per i suoi bassi salari, per una applicazione assai permissiva delle leggi ambientali e per la soppressione dei sindacati, offre alla Bmw un finanziamento di 300 milioni di dollari per il terreno, la rete viaria, l'approvvigionamento idrico, le fogne, gli uffici, l'aeroporto, l'addestramento e per sostenere altre spese. La Bmw costruisce il suo impianto nella Carolina del Sud. Ogni addetto finisce così per costare alla Bmw 12-16 dollari l'ora, contro i 25 della Germania.

Il ministero inglese per il commercio e l'industria apre un sportello speciale denominato "Investi in Gran Bretagna" e paga inserzioni sui giornali d'affari tedeschi per annunciare che il Paese offre un livello di tassazione per le maggiori imprese del 33 per cento (quello tedesco è del 50 per cento) e un costo del lavoro del 78 per cento più basso di quello tedesco. In un annuncio pubblicitario viene riferito che un migliaio di aziende si sono trasferite nel Regno Unito per beneficiare dei vantaggi offerti dai bassi salari e dagli oneri sociali inferiori.

Nella Corea del Sud e a Taiwan la crescita economica, le riforme democratiche e la sindacalizzazione stanno producendo un innalzamento del livello dei salari, cosicché la Nike chiude venti fabbriche lì e apre un negoziato per poter produrre le sue scarpe in Cina, in Thailandia e in Indonesia" (J.Brecher, T. Costello, Contro il capitale globale, Feltrinelli, Milano, 1996, pagg. 26-27).

"Da quando è caduto il muro, le industrie tedesche producono soprattutto in Paesi con salari bassi come l'Ungheria o la Repubblica Ceca. Per le fabbriche bavaresi Hong Kong è praticamente dietro l'angolo. Gli stipendi dei Paesi più poveri sono, secondo la stima di von Pierer, dall'80 al 90 per cento inferiori a quelli tedeschi" (Der Spiegel", articolo redazionale, L'unico padrone è il mercato, op. cit., p. 22).

La gara per attirare investimenti esteri e creare occupazione non risparmia la gloriosa Inghilterra, che diventa terra di conquista per il capitale coreano:

"In Gran Bretagna si sta espandendo il gruppo coreano Lg, uno dei più grandi investitori diretti, con una fabbrica di elettronica da quattro miliardi di marchi, con più di seimila posti di lavoro. I coreani sanno che nel Galles, sede dell'industria, i salari sono in alcuni casi più ridotti che da loro" (Der Spiegel", ib., p. 23).

La globalizzazione colpisce anche la ricchissima Svizzera:

"Industriali e manager svizzeri, la cui fama è pari a quella degli gnomi delle banche, hanno capito subito e al volo che la globalizzazione (in pratica significa: produrre dove i costi sono più bassi) è un fenomeno irreversibile, e ci si sono buttati a capofitto. Per cui la Nestlé ha chiuso i suoi stabilimenti nel Ticino ed è andata a fare gelati in Spagna e surgelati di pesce in Ungheria; la Swissair ha piazzato la centrale informatica e tutta la contabilità computerizzata in India; le industrie farmaceutiche sono andate negli Usa. Risultato finale: in cinque anni le imprese svizzere hanno creato trecentomila posti di lavoro all'estero e distrutto duecentomila in patria" (R.Fabiani, "L'Espresso", 17-7-97, p. 89).

La concorrenza, e quindi l'esigenza di ridurre i costi, viene ulteriormente accentuata dalla consuetudine, che ormai sta raggiungendo anche le imprese più piccole, di inserire il proprio catalogo con i prezzi in un sito Internet; in tal modo chi desidera acquistare un bene può scegliere tra i produttori di tutto il mondo quello che per le sue esigenze rappresenta il miglior rapporto qualità/ prezzo

Quando si parla di concorrenza, generalmente ci si riferisce alla produzione di beni materiali. Ma la globalizzazione sta estendendo la competizione anche al settore dei servizi:

"Molti servizi non sono in competizione perché possono essere forniti solo in contiguità fisica con chi li consuma: cure mediche, assistenza alle persone, spettacoli, cultura, igiene, ecc. Altri sono una caratteristica dei Paesi di vecchia industrializzazione, presuppongono culture consolidate e rapporti di fiducia che superano i meri costi di produzione: servizi finanziari, assicurativi, ecc. [...] Ma le cose cambiano abbastanza velocemente. [...] Le abitudini della gente mutano come mutano le mode e gli status symbol. La cultura si estende ad altri Paesi. Soprattutto la tecnologia consente di ridurre spazio e tempo.

Tra qualche anno pochi dei servizi tradizionali saranno al riparo dalla concorrenza, pur se necessiteranno sempre di contiguità. Il sistema delle comunicazioni, la telematica e soprattutto il sapere memorizzato nelle macchine possono sostituire compiti e mansioni. [...] Ma anche funzioni pubbliche, un tempo appannaggio di Stati e amministrazioni, possono subire la concorrenza di altri Stati e altre amministrazioni.

Le università europee subiscono la concorrenza di quelle statunitensi, come quelle dell'Europa continentale subiscono la concorrenza di quelle della Gran Bretagna. [...]

Anche le imprese stanno mettendo in competizione le amministrazioni pubbliche: un produttore di formaggi sardi, che risiede in Sicilia, esporta i suoi prodotti negli Usa dal porto di Rotterdam con un'apposita società olandese al fine di ottenere i rimborsi Feoga (Fondo europeo di orientamento e garanzia agricola) dall'amministrazione dei Paesi Bassi, ove essi si ottengono in pochi giorni, e non dell'Italia, dove è normale aspettare diversi mesi.

In effetti, non esiste alcuna produzione, di beni o di servizi, che sia in assoluto al riparo dalla concorrenza internazionale" ( I.Cipolletta, La responsabilità dei ricchi, Laterza, Roma, 1997, pagg. 35-37).

Infine, a partire dagli anni '90, in tutto il mondo la spinta a ridurre i costi viene rafforzata dall'ingresso in borsa di una nuova, potente categoria di investitori istituzionali: i fondi pensione, che esigono rendimenti costanti ed elevati per poter pagare ai soci le pensioni attese.

"In specie i fondi pensione anglosassoni, con portafogli di centinaia di miliardi di dollari, chiedono alle imprese che il loro capitale sia remunerato con tassi del 10-15% l'anno. Visto che detengono le quote più corpose del capitale azionario, nessun dirigente, dall'amministratore delegato in giù, può pensare di disattendere le loro richieste".

(L. Gallino, Il costo umano della flessibilità, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 20)

Per accrescere i profitti si devono ridurre i costi, e tra questi è il costo del lavoro quello relativamente più elastico, sul quale si può operare contenendo i salari e accrescendo la flessibilità.

2-3 - La mobilità dei capitali e l'impotenza dei governi

La mobilità dei capitali in cerca di investimento e la possibilità di spostare le attività produttive o di avviarne di nuove quasi ovunque, conferisce alle imprese, e soprattutto alle grandi multinazionali, un enorme potere nel confronto dei governi, perché dalle loro scelte dipende la creazione o la perdita dei posti di lavoro, che per ogni governo è il problema più importante.

La mobilità resa possibile dai nuovi sistemi di trasferimento elettronico ha assunto dimensioni impressionanti: in una giornata normale, i mercati mondiali dei capitali trasferiscono mediamente (a seconda delle stime) tra 1.300 e 2.000 milioni di dollari, ma soltanto una frazione tra il 2 e il 5 per cento di questo movimento corrisponde a scambi di beni e di servizi; tutto il resto si sposta alla ricerca di buoni rendimenti. Questa mobilità ha conseguenze molto negative per l'economia dei Paesi dai quali i capitali fuggono, ma di fronte ad essa i governi sono del tutto impotenti: anche in presenza di divieti legislativi sarebbe estremamente facile trasferire clandestinamente i capitali, senza contare che se davvero si riuscisse a impedirne l'esodo, le conseguenze, per i Paesi interessati sarebbero ancora più gravi, perché in futuro più nessuno tornerebbe ad effettuarvi investimenti. Perdurando l'assenza di un governo mondiale è quindi necessario rassegnarsi al fatto che

"l'epoca del controllo nazionale sull'economia si è semplicemente conclusa. Le attività economiche si spostano dove non ci sono controlli, e spesso questa rilocazione avviene senza alcuno spostamento in termini fisici. Le attività assicurative e finanziarie sono eseguite elettronicamente alle Bermude o alle Bahamas, mentre quasi tutti quelli che le eseguono siedono ancora nei propri uffici di New York o di Londra" (L. Thurow, ib., pag. 139).

L'impotenza dei governi si manifesta anche nelle crescenti difficoltà per tassare i profitti:

"In un mondo sempre più integrato, e con la possibilità per il capitale e per la manodopera di spostarsi liberamente da Paesi ad alta tassazione verso altri a tassazione più contenuta, si riduce per una nazione la libertà di fissare livelli di imposizione fiscale superiori a quelli di altri Paesi. Nello stesso tempo, l'espansione delle attività economiche via Internet renderà più difficile individuare e quindi tassare le transazioni. [...]

[Grazie alla globalizzazione] le imprese hanno più libertà nella scelta del luogo in cui stabilire la propria sede. [...] In secondo luogo la globalizzazione rende difficile stabilire dove una società deve pagare le tasse. Le imprese multinazionali progettano i loro prodotti in un Paese, li fabbricano in un altro e li vendono in un terzo. Ciò offre loro ampio spazio per ridurre gli oneri fiscali spostando le operazioni nelle varie zone del mondo o con abili trasferimenti di costi e margini sui prezzi. Pagando prezzi gonfiati per componenti importati da una controllata in un Paese a bassa pressione fiscale, una ditta può trasferire i suoi utili tassabili in quel Paese, e così ridurre il conto delle sue tasse. Le controllate estere delle società americane denunciano più elevati margini di profitto nei Paesi a bassa pressione fiscale rispetto a quelli dalla pressione più elevata" (The Economist-L'Espresso, articolo redazionale, Con Internet il fisco torna al Medio Evo, "L'Espresso", 26-6-1997, pagg. 174-175).
2-4 - Tobin tax: una proposta irrealizzabile

I critici della globalizzazione hanno fatto della Tobin tax una loro bandiera, riproponendola come efficace strumento per ridurre la povertà. Dovrebbe consistere in un prelievo (di importo variabile, a seconda dei proponenti, tra lo 0,05 e lo 0,25 per cento) su tutte le transazioni valutarie a breve (e naturalmente non dovute alla compravendita di beni reali); era stata ideata da James Tobin, premio Nobel per l'economia, allo scopo di ridurre la grave instabilità valutaria generata, a partire dal 1971, dalla fine della convertibilità del dollaro in oro. (L'instabilità valutaria, cioè le consistenti e continue variazioni del valore delle monete, costituisce un freno al commercio internazionale, e quindi riduce la produzione di ricchezza danneggiando indistintamente tutti i Paesi). La proposta non venne mai realizzata, e oggi viene ripresa con un duplice fine:

1- frenare la speculazione finanziaria: come si è visto nel par. 2-3, stime recenti valutano in circa 2.000 miliardi di dollari l'ammontare giornaliero degli scambi valutari, di cui solo una piccola frazione (tra il 2 e il 5 per cento) è destinata al commercio di beni e servizi, mentre la parte restante è pura speculazione sul futuro andamento delle quotazioni delle valute e dei titoli. La tassa scoraggerebbe gli speculatori, contrastando i subitanei spostamenti di grandi masse di capitali da un Paese all'altro, che possono determinare una crisi o amplificarne le conseguenze (come è avvenuto nel 1994 con il Messico, nel 1997 con i Paesi dell'Asia sudorientale e nel 1998 con la Russia).

2- Il ricavato della tassa (di importo variabile a seconda della percentuale imposta, ma comunque molto rilevante, fino a un massimo stimato di circa 700 miliardi di dollari l'anno) dovrebbe essere destinato interamente -secondo alcuni soltanto in parte- ai Paesi più poveri per stimolarne lo sviluppo. E' curioso che i sostenitori della Tobin tax non rilevino una palese contraddizione del loro ragionamento: se si realizza il primo obiettivo (ridurre significativamente il movimento dei capitali speculativi sui quali la tassa viene applicata) si fallisce il secondo, perché si riduce proporzionalmente il ricavato della tassa da destinare ai Paesi poveri.

Secondo il parere unanime degli esperti di finanza internazionale, l'applicazione della tassa fallirebbe entrambi gli obiettivi, provocando inoltre serie conseguenze negative.

1- La Tobin tax è stata sconfessata dal suo stesso ideatore, a seguito delle discussioni sollevate dalla sua riproposizione da parte del movimento no global:

"La mia proposta è stata usata per più ampie campagne che vanno oltre le sue ragioni originarie, che erano di ridurre la volatilità dei tassi di cambio" (J. Tobin, citato da S. Lepri, "La Stampa", 12-7-00. Poiché nelle transazioni commerciali il pagamento delle merci viene generalmente effettuato molti mesi dopo la consegna, i tassi di cambio volatili rendono incerto il valore effettivo delle somme che incasserà chi esporta o che dovrà esborsare chi importa, e questa incertezza, accrescendo il rischio per entrambi i contraenti, costituisce un potente freno al commercio internazionale).

Oggi i tassi di cambio tra le monete non sono volatili come negli anni '70, e non costituiscono un ostacolo al commercio internazionale come accadeva allora. Il valore della moneta di un Paese, oggi, precipita soltanto quando è in atto o è attesa, in quel Paese, una seria crisi del sistema produttivo, o delle banche e della finanza, o una crisi politica o sociale; naturalmente in queste occasioni la crisi viene aggravata dalla fuga dei capitali, come è accaduto in tutti i casi sopracitati; ma è anche ovvio che quando gli operatori si attendono una crisi seria nessuna tassa al mondo riuscirebbe ad arrestare la fuga dei capitali.

2- Le conseguenze positive della Tobin tax si verificherebbero soltanto se la sua applicazione si estendesse a tutto il mondo. Ma se venisse introdotta, e applicata con severità, spingerebbe gli operatori verso i centri offshore, i famosi "paradisi fiscali", dai quali continuerebbero a operare senza subire alcuna tassazione. Inoltre, anche se quelli esistenti venissero soppressi, è molto probabile che il loro ruolo sarebbe egualmente svolto, con modalità più o meno ben mascherate, da altri piccoli Paesi, che dalla non applicazione della Tobin tax e dal conseguente afflusso di capitali, ricaverebbero vantaggi maggiori dei danni derivanti dalle sanzioni che gli altri Paesi potrebbero loro applicare.

In assenza di un governo mondiale in grado di imporre a tutti l'applicazione delle misure deliberate, è del tutto irrealistico immaginare un accordo volontario fra quasi duecento Paesi su di una proposta discutibile come la Tobin tax; basti pensare agli appena quindici Paesi dell'Unione europea, i quali non riescono ad accordarsi per armonizzare tra loro la tassazione del risparmio.

Inoltre, poiché la tassa non colpirebbe le transazioni valutarie relative al movimento di merci, costituirebbe un forte incentivo alle truffe: per esportare capitali illegalmente verso il Paese P (paradiso fiscale) dai Paesi A, B, C, sarebbe infatti sufficiente che un'impresa fasulla di P emettesse fatture relative ad inesistenti esportazioni di merci da P verso questi Paesi, in modo da giustificare i movimenti di valute verso P; la cosa sarebbe facilmente realizzabile corrompendo qualche funzionario preposto al controllo dei movimenti valutari.

3- Se l'applicazione della tassa venisse seriamente ventilata in qualificate sedi internazionali, il semplice annuncio, spaventando i mercati finanziari, avrebbe rilevanti conseguenze negative, così riassunte dall'ex direttore della Wto, Ruggiero:

"Scoraggerebbe i Paesi ricchi a investire in quelli più poveri, ridurrebbe la liquidità dei mercati, soprattutto di quelli meno avanzati, aumentandone la vulnerabilità e la possibilità di crisi. E indurrebbe molti operatori a investire nei paradisi fiscali" ( Citato da E. Novazio, "La Stampa", 12-7-00)

Sul fatto che impedire la mobilità dei capitali danneggerebbe i Pvs, il parere degli economisti è unanime:

"Per loro natura, i capitalisti sono dei codardi che abbandonano la nave alle prime minacce per l'integrità della loro ricchezza. (...) Sbarrare la porta per impedire la fuga agli investitori (locali o esteri) allarmati per le notizie sul fronte economico, equivale ad avere la certezza che non rientreranno più dalla porta d'ingresso. I Paesi in via di sviluppo non avranno il capitale di cui abbisognano" (L. Thurow, Giappone oltre la crisi, Il Sole 24 Ore, Milano, 1999, p. 35. Corsivo aggiunto).

Per tutti questi motivi la probabilità che i governi dei grandi Paesi prendano in seria considerazione l'idea della Tobin tax in realtà non esiste: l'apertura del mercato dei capitali, che è uno degli elementi costitutivi della globalizzazione, produce ovunque crescita economica, mentre il ritorno ai controlli valutari porterebbe con sé, inevitabilmente, la tendenza alla stagnazione, che colpirebbe tutti i Paesi, causando il definitivo tramonto delle speranze di sviluppo per i Paesi poveri; si tratta di considerazioni del tutto ovvie, e in realtà chi parla di Tobin tax lo fa soltanto per mascherare l'assenza di proposte più realistiche per combattere la povertà. Non si può escludere del tutto che per dare soddisfazione alla grande campagna orchestrata dai no global su questo argomento, in una qualche forma la Tobin tax venga infine promulgata, ma sicuramente lo sarebbe in una forma tale da renderne facile l'evasione o irrilevante l'applicazione.

Queste considerazioni lasciano tuttavia irrisolto il problema dell'eccessiva volatilità dei capitali: è un altro dei tanti problemi che soltanto un governo mondiale potrebbe affrontare

2-4.1 - I paradisi fiscali.

Si è visto che l'applicazione della Tobin tax non è realizzabile senza l'eliminazione dei paradisi fiscali. Sparsi per il mondo ve ne sono circa cinquanta; Merry Lynch, una delle più grandi banche americane di investimenti, stima prudentemente in tremilatrecento milioni di dollari la ricchezza gestita nelle loro banche; la stima del Fmi è di cinquemilacinquecento miliardi di dollari: si tratta di una somma colossale, pari al 25 per cento del Pil mondiale totale!

E' noto che non esistono dittature (di destra e di sinistra), organizzazioni mafiose, o gruppi terroristici, che non abbiano i loro conti cifrati in uno o più paradisi fiscali. Inoltre, grazie al segreto bancario che garantiscono, essi sono il principale strumento della grande evasione fiscale, e spesso sono anche la base operativa per falsificare od occultare flussi finanziari ingenti, realizzare frodi societarie, finanziare la corruzione di politici e amministratori, saccheggiare i risparmiatori mediante l'emissione di obbligazioni-spazzatura.

Di fronte a questo elenco di crimini è evidente che i paradisi fiscali andrebbero eliminati; tuttavia, in assenza di un governo mondiale, il proposito è irrealizzabile. Esiste infatti, anche se non viene sbandierato, un punto di vista favorevole alla loro esistenza:

"Secondo tale visione (...) la presenza dei paradisi fiscali può costituire un elemento funzionale all'attenuazione dei rischi di armonizzazione fiscale 'verso l'alto', ottenuta magari grazie alla collusione delle amministrazioni nazionali meno efficienti nella gestione delle politiche economiche e fiscali" Masciandro, La finanza internazionale, la criminalità e il terrorismo. Università Bocconi, Milano, 2002, p. 134-135) .

E' il punto di vista del grande capitale finanziario internazionale, che teme aumenti delle tasse concordati tra i governi; ma nessun Paese, al di là delle chiacchiere, ha finora cercato di coordinare azioni efficaci per eliminare i paradisi fiscali. Una conferma ufficiale di questa passività è venuta dalla direttiva della Commissione europea sulla tassazione del risparmio dei non residenti, che ha approvato il mantenimento del segreto bancario in Svizzera e negli altri paradisi fiscali, pur sapendo di esporsi all'accusa di essere più attenta agli interessi della grande finanza, delle banche e delle imprese piuttosto che a quelli dei cittadini. La direttiva significa infatti la rinuncia ad un serio tentativo di ricupero dell'enorme evasione fiscale che il segreto bancario rende possibile, ed è inevitabile che questo evidente appiattirsi delle decisioni politiche sulle esigenze del capitale sia il cavallo di battaglia di tutti i critici del capitalismo e della globalizzazione. Ma descrivere un fenomeno senza indagarne le cause reali induce a proporre soluzioni inapplicabili: come vedremo in tutto questo lavoro, sono purtroppo tali la maggior parte delle soluzioni proposte dei no global. In questo e in altri casi essi attribuiscono lo strapotere delle multinazionali e delle lobby finanziarie al venir meno della classe politica ai suoi doveri, mentre invece questo potere è la conseguenza della situazione, inedita nella storia, che la globalizzazione, insieme all'eccesso di popolazione, ha determinato relativamente all'occupazione: ciascun governo, ed anche gruppi di governi come quello dell'Unione europea, temono che limitare la libertà di movimento dei capitali, anche in direzione dei paradisi fiscali, li farebbe fuggire dai loro Paesi verso altri più tolleranti, con l'unico risultato di frenare lo sviluppo e l'occupazione.

2-5 - La fine del keynesismo: l'obbligo di azzerare l'inflazione

e i vincoli alla politica economica


La scomparsa del legame tra impresa e territorio nazionale pone pesanti vincoli alla politica economica dei governi. Uno dei più importanti fra questi vincoli è relativo all'inflazione: la globalizzazione dell'economia non consente più ad un Paese (nemmeno nel breve periodo) di avere un tasso di inflazione -e quindi costi di produzione- superiori a quelli dei Paesi concorrenti, pena la perdita delle sue posizioni sui mercati internazionali. La lotta per acquisire o mantenere quote di mercato spinge ciascuno a ridurre progressivamente il tasso di inflazione, generando effetti imitativi a catena in tutti gli altri Paesi; la stabilità dei prezzi è ormai diventata, ai fini della tutela della produzione e dell'occupazione, il primo obiettivo della politica economica. La politica antiinflazionistica implica per i governi forti restrizioni alla politica di bilancio: in particolare diventa indispensabile il contenimento della spesa pubblica, per limitare o eliminare il disavanzo annuale dei conti dello Stato, e quindi contenere il debito pubblico complessivo. Inoltre la globalizzazione impone di destinare quote consistenti di risorse pubbliche agli investimenti nella ricerca scientifica e nella formazione scolastica e professionale dei cittadini (unico mezzo, come si vedrà nel par. 3-1, per difendere la competitività del sistema produttivo nazionale), ma se il bilancio pubblico deve destinare a queste voci di spesa somme sempre più ingenti, è indispensabile ridimensionarne altre. Sono soltanto tre le voci della spesa dello Stato abbastanza rilevanti da consentire tagli sufficienti per contenere il disavanzo e l'inflazione: investimenti, spesa sociale, salario dei dipendenti pubblici. Quest'ultima voce i politici non la toccano per non perdere consensi elettorali; si possono invece ridurre gli investimenti pubblici, ma ciò significa rinunciare alla costruzione di utili infrastrutture (strade, ferrovie, ecc.), ridurre la loro manutenzione (con perdita di efficienza e, in molti casi, aumento del rischio per gli utenti), e quindi significa ridurre la produzione e l'occupazione. Anche la riduzione della spesa sociale (soprattutto pensioni, sanità, sussidi alle famiglie, sussidi di disoccupazione) colpisce i cittadini, costringendoli a ridurre le loro spese, direttamente (perché ricevono meno denaro dallo Stato) o indirettamente (perché devono pagare i servizi che lo Stato non fornisce più gratuitamente).

L'alternativa alla riduzione della spesa pubblica sarebbe naturalmente l'aumento delle entrate dello Stato mediante l'aumento del prelievo fiscale, ma questo aumento provocherebbe la fuga dei capitali e delle imprese verso Paesi nei quali il fisco è più leggero (oltre naturalmente a deprimere la produzione e l'occupazione, perché la gente avrebbe meno soldi da spendere e ridurrebbe gli acquisti).

Si può riassumere la situazione dicendo che il keynesismo è finito. Le politiche keynesiane -ideate dall'economista inglese J. M. Keynes- consistono nell'aumento della spesa pubblica in deficit (soprattutto di quella per investimenti), che lo Stato realizza indebitandosi, per incrementare la produzione e l'occupazione. Naturalmente immettere maggiori quantità di denaro in circolazione fa aumentare anche i prezzi, e quindi l'essenza di queste politiche consiste nello scambio tra inflazione e disoccupazione: per ridurre il numero dei disoccupati si tollera che i prezzi aumentino. (Inoltre l'aumento dell'attività economica provoca l'aumento automatico del gettito fiscale, che serve a ripianare nel tempo, almeno in parte, l'aumento del debito pubblico).

Prima della globalizzazione, lo scambio tra inflazione e disoccupazione risultava tollerabile perché la concorrenza internazionale era molto più ridotta, e se l'aumento dei costi e dei prezzi non era eccessivo, si riusciva ad esportare egualmente. L'accresciuta concorrenza, costringendo a comprimere i costi e quindi l'inflazione, rende non più praticabili le politiche keynesiane (che hanno l'ulteriore difetto di accrescere i tassi di interesse, come sempre accade quando aumenta l'indebitamento dello Stato).

Oggi i governi non possono più stimolare la ripresa economica mediante politiche espansive che accrescano, direttamente o indirettamente, la quantità di moneta in circolazione, perché gli effetti inflazionistici di queste politiche, riducendo le esportazioni e aumentando le importazioni, ne annullerebbero rapidamente tutti i vantaggi; il conseguente squilibrio della bilancia commerciale e il forte rischio di svalutazione del cambio imporrebbero, entro breve tempo, l'adozione di politiche economiche di segno opposto. Ciò significa che nell'economia globalizzata è possibile espandere la produzione e tutelare l'occupazione solo migliorando la competitività del sistema produttivo nazionale (che vuol dire migliorare la qualità dei prodotti e ridurre i costi di produzione e quindi i prezzi di vendita). Le politiche espansive invece (riducendo le esportazioni e aumentando le importazioni a causa dell'inflazione che provocano) hanno principalmente l'effetto di aumentare le esportazioni dei Paesi concorrenti, lasciando al Paese che le adotta squilibri nei differenziali inflazionistici, nei conti pubblici e nei conti con l'estero. Poiché si tratta di una realtà che limita fortemente i poteri di governo, tendono ad ignorarla i politici meno responsabili, attenti più ai consensi elettorali immediati che agli interessi a lungo termine dei loro Paesi; essi trovano economisti amici pronti ad accantonare la competenza professionale per minimizzare le conseguenze dell'inflazione che inevitabilmente accompagna il keynesismo.

Naturalmente anche la nuova regola imposta dalla globalizzazione può subire eccezioni in casi disperati: la crisi economica già manifestatasi nel 2001 e aggravata dai fatti dell'11 settembre ha spinto il governo americano ad accrescere la liquidità mediante commesse pubbliche, tagli alle tasse e sovvenzioni alle imprese. Anche in Europa si fanno sempre più forti le richieste di provvedimenti analoghi, ma il vecchio continente corre un rischio inesistente per l'America: il rischio che le politiche espansive finanziate accrescendo i deficit di bilancio vengano interpretate dalla comunità finanziaria internazionale come un segno che l'Europa non ha ancora saputo imboccare la via del rigore, abbandonando la vecchia strada della finanza facile, finalizzata a difendere la produzione, l'occupazione e lo Stato sociale ma incurante delle inevitabili conseguenze negative nel lungo periodo. Ciò implicherebbe una generale perdita di fiducia nella solidità dell'euro e il tramonto della possibilità che esso venga utilizzato come mezzo di pagamento internazionale e come moneta di riserva, alla pari con il dollaro. Oltre a ciò una politica espansiva, nonostante l'esistenza di settori caratterizzati da capacità produttiva inutilizzata, potrebbe innescare l'inflazione, in Europa assai più che negli Stati Uniti, causando una perdita di competitività dei prodotti europei sul mercato mondiale. Questi motivi spiegano perché la Banca centrale europea esiti a ridurre i tassi di interesse, e spiegano perché molti si oppongano alla proposta di autorizzare i governi ad accrescere i deficit di bilancio per rilanciare l'economia.

Resta comunque il fatto che il keynesismo, felicemente praticato per mezzo secolo in tutto il mondo con ottimi risultati, con la globalizzazione si è trasformato in una manovra rischiosa, da praticarsi con grande prudenza soltanto nei casi di minacciata depressione dell'economia.

Infine la globalizzazione, pur accrescendo la concorrenza fra i Paesi e fra le imprese, limita la lotta contro i cartelli oligopolistici all'interno di ciascun Paese, infatti:

"Alleanze e fusioni continentali e mondiali fra imprese sono permesse e persino appoggiate dai poteri pubblici sulla base dell'argomento che occorre favorire la competitività mondiale della nazione o del continente" (Gruppo di Lisbona, I limiti della competitività, Manifestolibri, Roma, 1995, pag. 154).

1. Diminuisce la fiducia nei partiti e nelle istituzioni democratiche. Nei Paesi industrializzati il forzato abbandono del keynesismo (sostituito da un'economia neoliberista che richiede lo smantellamento dell'intervento diretto dello Stato nella produzione e nei servizi) e il generale indebolimento della capacità degli Stati nazionali di decidere autonomamente la loro politica economica, hanno posto fine alla crescita costante del tenore di vita, durata oltre un secolo, e stanno imponendo crescenti limitazioni alle prestazioni dello Stato sociale. Inoltre, a partire dalla fine degli anni '70, nella distribuzione del reddito prodotto si sta espandendo la quota dei profitti mentre si riduce quella dei salari, come conseguenza di due cause strettamente collegate:

a- i profitti, nei settori sottoposti all'incalzante concorrenza internazionale che tende a comprimerli, devono a tutti i costi mantenersi elevati per poter finanziare con continuità l'innovazione, pena l'espulsione dal mercato;

b- per realizzare profitti in misura sufficiente, i capitali vengono investiti ovunque nel mondo, là dove, a parità delle altre condizioni, i salari sono più bassi. Ciò è consentito dalla scomparsa del legame tra l'impresa e un determinato territorio, scomparsa che a sua volta dipende da quell'insieme di trasformazioni tecniche e finanziarie in cui la globalizzazione consiste, e che ha conferito al capitale un nuovo straordinario potere.

Ovunque insomma si è invertita la tendenza alla riduzione della diseguaglianza dei redditi e della ricchezza, che era rimasta costante a partire dalla fine del secolo XIX, e questi avvenimenti hanno importanti conseguenze nei rapporti tra i cittadini e la politica: i programmi economici dei partiti che si candidano a governare sono tra loro sempre più simili, nessuno promette più significativi progressi delle condizioni di vita e dei salari, e ovunque si registra una crescente sfiducia degli elettori nei partiti e nelle istituzioni democratiche.

2. Esiste un direttorio delle multinazionali? L'impotenza dei governi nel confronto con le grandi imprese ha indotto i no global a ipotizzare l'esistenza di un direttorio delle multinazionali, che segretamente deciderebbe le comuni strategie per rafforzare il dominio sulla politica ed accrescere i profitti. Una serie di interessi è certamente comune a tutte le multinazionali: contenere i salari, la pressione fiscale, gli oneri sociali e ambientali, difendere la libertà di movimento dei capitali e delle merci, garantire la pace sociale e la stabilità politica, avere governi amici per realizzare questi obiettivi e per garantire che le principali posizioni di potere al Fondo monetario internazionale, alla Banca mondiale, alla Wto, ed anche al ministero del Tesoro degli Stati Uniti, siano occupate da personaggi non ostili ai loro interessi. Ciascuna impresa coltiva al meglio le proprie relazioni con la sfera politica per realizzare questi fini generali, utili anche alle imprese concorrenti, e non vi è alcun bisogno di intese segrete per concordare questi ovvi comportamenti.

Ma se da questo discorso generico si passa ad un altro più specifico, quando cioè si tratta di incentivi o di limitazioni alla produzione e al commercio, di esportazioni regolamentate o di barriere tariffarie, quando insomma è in gioco la concorrenza, le imprese di ciascun Paese tentano di ottenere dai rispettivi governi provvedimenti favorevoli che inevitabilmente vanno a scapito delle imprese estere loro rivali. La tesi del direttorio ha il torto di trascurare quello che abbiamo mostrato essere uno degli aspetti più rilevanti della globalizzazione: l'esasperazione della concorrenza, la lotta di tutti contro tutti per la conquista dei mercati, ed è proprio questo aspetto che ha profondamente modificato il rapporto tra la sfera economica e quella politica: non è più necessario che la prima rincorra la seconda per ottenerne l'appoggio, perché in tutti i Paesi la permanenza al governo della classe politica dipende ormai soprattutto -ben più che in passato- dai risultati economici che riesce ad assicurare al proprio Paese, e quindi tutti i governi cercano spontaneamente di favorire le grandi multinazionali per attirarne gli investimenti o per evitarne la fuga. Naturalmente ciò non toglie che in alcuni casi, quando ci riescono, anche le multinazionali di diversi Paesi costituiscano cartelli e oligopoli per ridurre la concorrenza nel proprio settore, come da sempre avviene anche all'interno di ciascun Paese, ma ciò ha poco a che vedere con il supposto direttorio delle multinazionali.

2-5.1 - Fine della politica degli alti salari. La favola di Henry Ford

Di fronte al rallentamento dell'economia iniziato nel 2000, ed al lento ma inarrestabile calo del salario reale (ovvero del concreto potere d'acquisto dei lavoratori dipendenti), in Europa sono numerose le voci che propongono come rimedio l'aumento dei salari: aumenterebbero i consumi e si rilancerebbe la produzione e l'occupazione. Luciano Gallino così esprime questo punto di vista:

"Intorno al 1915 Henry Ford pagava i suoi operai il doppio rispetto alla media dell'industria americana: 5 dollari al giorno invece di 2,50. Non intendeva far opera di beneficenza. Sapeva, e affermava esplicitamente, che con retribuzioni elevate quei lavoratori avrebbero potuto acquistare le merci che loro stessi producevano -in quel caso, automobili. Le imprese italiane non hanno mai amato molto l'equazione fordista -alti salari uguale alti consumi- e dai primi anni '90 ad oggi l'hanno decisamente ripudiata. Adesso scoprono che le famiglie comprano meno auto, meno mobili e meno cellulari, gridano alla crisi, e sollecitano il governo a fare presto qualcosa per superarla. (...) Alle imprese converrebbe piuttosto riflettere sul contributo che esse stesse hanno dato per generare la crisi economica in atto. A cominciare appunto dalle loro politiche del lavoro e delle retribuzioni" (L. Gallino, "La Repubblica", 15-8-03).

L'articolo prosegue elencando le conseguenze di questa presunta miopia degli imprenditori: diminuzione dell'incidenza dei redditi da lavoro dipendente sul Pil, stagnazione delle retribuzioni reali, crescente povertà delle famiglie monoreddito in cui il capofamiglia è occupato come operaio; e conclude dicendo che questa accusa agli imprenditori "non intende ignorare il peso che hanno avuto e hanno altri fattori interni e internazionali". Tuttavia, pur non intendendo ignorarli, di fatto questi fattori nemmeno li nomina, e quindi l'articolo suggerisce ai lettori non particolarmente esperti di economia (che sono la quasi totalità dei cittadini) che la principale misura per combattere la crisi sarebbe l'aumento dei salari, misura che soltanto l'avidità degli imprenditori impedisce di adottare. Ma i fattori trascurati hanno purtroppo un peso schiacciante rispetto alle politiche imprenditoriali, le quali proprio da essi sono determinate.

1- Il paragone con l'America di Henry Ford è improponibile. Negli anni '20 la dipendenza degli Stati Uniti dal commercio internazionale era assai ridotta, e quindi l'aumento dei salari si traduceva pressoché interamente in maggiori acquisti di prodotti americani, tra i quali anche le auto fabbricate da Ford. Oggi in Italia e in Europa un significativo aumento dei salari (e quindi dei costi di produzione) si tradurrebbe principalmente nella crescita delle importazioni, che l'aumento dei costi impedirebbe di bilanciare con maggiori esportazioni. Quindi le imprese italiane non amano l'equazione fordista "alti salari uguale alti consumi" perché una parte consistente dell'aumento dei salari incrementerebbe l'acquisto di prodotti stranieri (tra questi anche le auto).

2- Ma soprattutto non si può, oggi, nei Paesi industrializzati, continuare a ignorare la principale conseguenza determinata dalla globalizzazione: l'accresciuta concorrenza dei Pvs e l'assoluta necessità di ridurre i prezzi comprimendo i costi di produzione, e quindi anche i salari dei lavoratori non altamente specializzati. Mentre negli Stati Uniti il calo dei salari reali è in atto da vent'anni, nella ricca Europa occidentale, a causa del diverso clima sociale e politico (esaminato nel par. 29), il calo è iniziato da poco, ma i salari più elevati e le prestazioni dello Stato sociale più generose il Vecchio continente le sta pagando con un crescente distacco nella ricerca scientifica rispetto agli Stati Uniti, al Giappone e a molti altri Paesi, e con una progressiva deindustrializzazione a vantaggio del Terzo mondo. Le imprese che oggi vengono accusate di opporsi all'aumento dei salari, fra un po' dovranno chiudere o emigrare all'estero; si salveranno soltanto quelle in grado di generare innovazione, ma in Europa, e soprattutto in Italia, il loro numero si va assottigliando, perché in generale vi è un ambiente meno favorevole all'attività imprenditoriale rispetto agli Stati Uniti, al Giappone e ai più avveduti tra i Pvs, e quindi chi ha capitali da rischiare preferisce farlo altrove.

3 - LE CONSEGUENZE DELLA GLOBALIZZAZIONE NEI PAESI INDUSTRIALIZZATI:

LA FINE DEL LEGAME TRA IMPRESA E TERRITORIO E IL NUOVO POTERE DEL CAPITALE


Non è affatto vero, come invece sostengono i liberisti entusiasti, che il mercato libero, la concorrenza, e la globalizzazione che ne è la massima espressione, siano processi capaci di risolvere nel modo migliore i rapporti tra la società e l'economia. L'economia di mercato capitalistica è preferibile agli altri modi di organizzare socialmente la produzione perché, fondandosi sulla responsabilità individuale di ogni attore economico, stimola ciascuno di essi a utilizzare al meglio le capacità di cui dispone, e quindi massimizza il prodotto sociale complessivo. Ma contemporaneamente crea e accentua le disuguaglianze tra le persone e tra i Paesi, perché ogni vantaggio acquisito, di qualsiasi genere, può trainarne altri, mentre ogni passo indietro può essere l'avvio di ulteriori arretramenti. E' quindi compito della politica ridurre le disuguaglianze che la sensibilità collettiva giudica inaccettabili, e la difficoltà di ogni politica economica (la quale non dispone, al contrario di quanto molti credono, di regole fisse applicabili sempre e dovunque) sta nell'individuare in ciascun contesto i limiti che nel perseguimento della giustizia sociale non devono essere valicati, se non si vuole compromettere la produzione della ricchezza. Esaminando le critiche alla globalizzazione queste elementari considerazioni andranno tenute presenti per evitare di scivolare nell'ideologia.

Nel lungo periodo le conseguenze della globalizzazione, per i Paesi occidentali, sono polarmente opposte a quelle che essa determina nel Terzo mondo: le due situazioni vanno quindi esaminate separatamente.

Già si è descritto il significato della globalizzazione per i Paesi industrializzati ad elevato benessere: corsa al contenimento dei costi, riduzione dell'occupazione, chiusura o trasferimento all'estero di imprese, ridotta efficacia delle politiche economiche dei governi. Le conseguenze sull'occupazione sono così riassunte da Gallino:

"Al fondo della piramide sociale, si stanno intanto allargando, specie in Europa e nel Nord America, gli strati di coloro che, spesso in età ancor giovane, sono di fatto definitivamente esclusi dall'attività produttiva -la forma contemporanea dell'antico fenomeno della marginalità sociale. Se ne possono distinguere almeno tre. Il primo, di origine più antica, è formato da individui che, avendo una qualificazione professionale medio-bassa (operai comuni, manovali, braccianti, ecc.) non trovano più occupazione, siano stati o no occupati per qualche tempo, a causa della crescente automazione della maggior parte delle produzioni. Un secondo strato, più recente, è formato da individui provvisti d'una qualificazione professionale medio-alta e alta che hanno perso il lavoro e hanno probabilità minime di trovarne uno simile, per varie ragioni: perché il progresso tecnologico ha reso obsoleta la loro professione, oppure perché il settore produttivo con cui si identificavano sotto il profilo sociale e professionale è entrato irrimediabilmente in crisi. Un terzo strato è formato quasi per intero da giovani che dopo aver acquisito mediante la formazione medio-superiore o universitaria una qualifica molto alta, scoprono che essa non è più richiesta dal mercato del lavoro e dopo anni di tentativi frustranti smettono di cercare un impiego" (L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Bari, 2000, p. 35).

Questa situazione è la conseguenza della profonda trasformazione dei rapporti di potere tra i proprietari di capitali e i lavoratori dipendenti, indotta dalla globalizzazione. In precedenza, gli investimenti produttivi tecnologicamente avanzati (quelli che creano i maggiori profitti) erano realizzabili soltanto in un limitato numero di Paesi dotati di manodopera relativamente acculturata. Ciò significava, per i lavoratori, disporre di un certo potere di contrattazione: è vero che per vivere essi dipendevano dal capitalista che erogava il salario, ma questi dipendeva egualmente da loro per trarre profitto dal suo capitale. E questa dipendenza reciproca nasceva dal fatto che entrambi non potevano emigrare facilmente. L'invenzione del microprocessore, l'incorporazione di molte funzioni intellettuali nelle macchine, la facilità, la velocità e il basso costo di trasporto via mare, l'istantanea trasferibilità dei capitali, nonché il costo quasi nullo di ogni forma di comunicazione e di trasmissione di dati e di immagini (sono questi gli elementi centrali che hanno reso possibile la globalizzazione dell'economia) hanno liberato i capitali in cerca di investimento da ogni legame con un territorio specifico. In passato per i capitalisti era di vitale importanza realizzare un efficace controllo della manodopera, per evitare ribellioni o rivendicazioni eccessive, e ciò avveniva sotto la protezione della legge (sostenuta, quando occorreva, dalla forza repressiva dello Stato). Oggi il capitale dispone di un nuovo potere che può ben dirsi assoluto: il potere di emigrare, di andare a produrre cento metri o diecimila chilometri oltre il confine, là dove si trovi manodopera disposta a lavorare per bassi salari e si paghino poche tasse. Non è più necessario far balenare minacce più o meno velate di licenziamento: il pericolo di restare disoccupati e il generale clima di insicurezza si respirano nell'aria in tutto l'Occidente, e tutti ne sono consapevoli; perciò il ridisegno della piramide sociale descritto da Gallino può procedere pressoché indisturbato (con velocità diversa nei diversi Paesi), suscitando soltanto proteste prive di efficacia.

La globalizzazione, nei Paesi ricchi, implica dunque un'autentica rivoluzione sociale:

"Come tutte le rivoluzioni, comporta uno spostamento di potere da un gruppo a un altro. Nella maggior parte dei Paesi, il potere è destinato a spostarsi dallo Stato e dal suo apparato burocratico al settore privato e agli imprenditori. Così, tutti coloro che avevano acquisito posizioni di privilegio nell'ambito della burocrazia o per le protezioni guadagnate presso i burocrati o perché ben piazzati in un sistema economico regolato e protetto, sono destinati a essere travolti, a meno che non riescano a compiere la transizione al mondo veloce. In questa categoria rientrano anche gli industriali -di solito amici degli amici- che godevano di monopoli sulle esportazioni o sulle importazioni, gli imprenditori protetti dal governo attraverso barriere doganali e tariffarie sui beni prodotti, i grandi sindacati dei lavoratori, abituati a conquistare sempre meno ore di lavoro su mercati protetti, i lavoratori delle aziende pubbliche che godevano di generosi benefici previdenziali e sanitari, e tutti quelli che dipendevano dalla generosità di uno Stato che li proteggeva dal mercato globale e dai suoi aspetti più duri.

Questo spiega perché in alcuni Paesi la rivolta più radicale contro la globalizzazione venga non dai segmenti più poveri della popolazione, ma dagli 'ex' della classe media e medio-bassa, che nei sistemi comunista, socialista e nello Stato sociale capitalista godevano della massima protezione. (...) Questa fascia sociale in discesa ha la capacità politica di organizzarsi contro la globalizzazione. La federazione sindacale americana è diventata, probabilmente, la forza politica contraria alla globalizzazione più potente degli Stati Uniti: i sindacati hanno finanziato, sotto copertura, molte campagne pubblicitarie volte a radunare a Seattle tutti gli oppositori del libero scambio" ( T. Friedman, Le radici del futuro, Mondadori, Milano, 2000, pp. 344-345. Corsivo aggiunto).

L'estendersi del mercato crea ovunque nuovi problemi. Il responsabile dell'osservatorio sul Nord America dell'Accademia cinese di scienze sociali ha dichiarato che

"il meccanismo del mercato si sta affacciando in Cina, ma il problema è come imporlo. Per l'alloggio dipendo dalla mia brigata di lavoro. Se tutti gli alloggi finiscono sul libero mercato, potrei perdere la casa. Non sono un conservatore, ma su problemi concreti come questo, la gente, abituata a essere protetta, può diventare conservatrice per evitare di precipitare in un mercato selvaggio" (Wang Jisi, citato in: T. Friedman, Le radici del futuro, Mondadori, Milano, 2000, p. 345. Corsivo aggiunto).

Questi problemi, particolarmente gravi in tutti i Paesi ex comunisti che vogliono entrare nel mercato globale per liberarsi dalla miseria, sono molto sentiti anche nella maggior parte dei Paesi europei e nel Giappone, nei quali lo Stato, molto più che in America, aveva e ha tuttora un ruolo importante in tutti gli aspetti della vita economica. Di questo ruolo è adesso costretto a liberarsi per lasciare spazio al mercato.

3-1 - Ricerca scientifica e istruzione per difendere, in Occidente, gli attuali

livelli di benessere


La nuova situazione impone quindi ai Paesi occidentali una secca alternativa: accrescere le risorse destinate alla ricerca scientifica e alla scuola (sacrificando in parte i consumi e lo Stato sociale) per creare con continuità nuovi brevetti e nuove produzioni, che almeno per qualche anno i concorrenti non riusciranno a imitare, e in tal modo si potranno difendere i buoni salari e l'occupazione; oppure rassegnarsi a un declino lento ma inevitabile. Non ci sono altre vie che possano consentire ai Paesi occidentali di difendere l'occupazione e il benessere.

"C'è una via che porta in avanti, ed è quella imboccata dagli Stati Uniti, che, quando negli anni '90 temettero di essere soverchiati dal Giappone, non si rinserrarono nel protezionismo suggerito dalla destra isolazionista ma moltiplicarono gli investimenti, la ricerca e la formazione, il che consentì loro il salto tecnologico e produttivo nella new economy (le speculazioni di borsa sono solo un effetto contingente" ( M. Pirani, "La Repubblica", 30-8-01..)"

Un identico consiglio viene agli occidentali da parte cinese: la signora Dai Qing, nota militante del movimento democratico di Tienanmen nell'89, e oggi portavoce dei verdi cinesi, ha dichiarato che

"le sassaiole dei "Talebani di Seattle" hanno l'unico risultato d'impedire dibattiti concreti, lasciando così procedere una globalizzazione incontrollata. I manifestanti nelle vostre piazze esprimono, penso, il panico di certe categorie di lavoratori, alle quali i "musi gialli" presto sottrarranno l'impiego. Io dico: tocca a voi, nei Paesi all'avanguardia dello sviluppo, procedere verso attività economiche che non possano essere svolte da poveri diavoli in Asia" ( Dai Qing, citata da R. Ferraro, Corriere economia, "Corriere della Sera", 2-7-01. Corsivo aggiunto).

I Paesi anglosassoni hanno accettato la sfida, reagendo in modo adeguato; i grandi Paesi dell'Europa continentale continuano invece a perdere terreno, curando il benessere sociale di oggi molto più della ricerca scientifica, che produrrebbe vantaggi soltanto domani. Un bilancio drammatico del ritardo europeo lo ha tracciato Busquin, il commissario di Bruxelles per la Ricerca:

"Negli ultimi dieci anni in media gli investimenti totali europei in ricerca sono scesi dal 2 all'1,8% del Pil mentre quelli americani e giapponesi sono saliti dal 2,5 al 2,8 e 2,9% rispettivamente. Un punto di Pil è una differenza enorme: fanno 60 miliardi di euro [120.000 miliardi di lire] nel '98. (...) Noi europei, nei prodotti ad alta tecnologia accumuliamo un deficit commerciale annuo di 20 miliardi di euro [quasi 40.000 miliardi di lire], che tende ad aumentare. I ricercatori delle nostre imprese sono il 2,5% della forza lavoro contro il 6,7% degli Stati Uniti e il 6 del Giappone" ( P. Bosquin, citato da F. Rampini in New Economy, Laterza, Roma-Bari, 2000, pp. 40-41).

Tutto si può riassumere in una semplice affermazione: gli europei non hanno ancora preso atto del significato della svolta storica che stiamo vivendo, e rifiutano di trarre le necessarie conseguenze, per non doverne pagare il prezzo.

"Viviamo in un'epoca in cui la guerra più importante si conduce nei laboratori e nelle università; le armi strategiche sono brevetti e tecnologie; la posta in gioco è la leadership nel sapere e nell'innovazione che si traduce in conquista di nuovi mercati, ricchezze, milioni di posti di lavoro qualificati. In questa competizione scientifica che decide i rapporti di forza nella geoeconomia , gli Stati Uniti hanno fatto un nuovo balzo in avanti. L'Europa osserva impotente, paralizzata dalle sue paure. L'Italia, periferia della periferia, è ancora più indietro. La protesta dei suoi ricercatori la mette con le spalle al muro. Quanti di loro saranno ancora lì tra qualche anno, e quanti avranno dovuto emigrare verso i centri di ricerca americani?" (F. Rampini, Dall'euforia al crollo, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 55).

3-2 - La perdita di significato del concetto di "sfruttamento" nelle imprese

soggette alla concorrenza internazionale


Tra le accuse rivolte alla globalizzazione, come già si è detto, una delle più comuni è quella di essere l'invenzione più recente del grande capitale per accrescere i profitti aumentando lo sfruttamento dei lavoratori. In realtà, per le imprese che producono beni o servizi soggetti alla concorrenza internazionale, il concetto di sfruttamento ha perso ogni significato con l'intensificarsi della corsa alla riduzione dei costi che la globalizzazione ha determinato. "Sfruttare" significava in passato pagare salari molto bassi allo scopo di accrescere i sovrapprofitti, anche quando sarebbe stato possibile aumentarli senza dover aumentare i prezzi di vendita, accontentandosi di ricevere un profitto normale. Oggi invece qualsiasi impresa soggetta alla concorrenza internazionale è costretta a produrre al costo minore possibile per poter contenere i prezzi, mentre contemporaneamente deve realizzare profitti che le consentano di investire nell'innovazione, pena il declino. E' questa la causa degli investimenti nel Terzo mondo e del progressivo contenimento, anche nei Paesi industrializzati, dell'inflazione, del costo del lavoro, della pressione fiscale e della spesa sociale. Quelli che i no global definiscono "sporchi affari del grande capitale" sono invece, per il Terzo mondo, l'unica speranza di riscatto dalla miseria: lo sanno bene quelli che nel Terzo mondo ci vivono, sia i lavoratori che i governanti, i quali fanno di tutto per attirare gli "sfruttatori", e protestano quando gli occidentali vogliono imporre norme finalizzate, apparentemente, alla riduzione dello sfruttamento, ma in realtà miranti ad eliminare la concorrenza dei poveri.

Resta il fatto che anche i salari molto bassi pagati dalle imprese occidentali, per i lavoratori dei Pvs sono buoni salari: una recente ricerca della Columbia University ha dimostrato che i salari offerti dalle imprese occidentali nel Terzo mondo superano in media del 10 per cento quelli delle imprese locali (la ricerca è citata da A. Ronchey, "Corriere della Sera", 6-2-02).

3-2.1 - Lo sfruttamento continua dove manca la concorrenza e la manodopera è in eccesso

Lo sfruttamento continua nei casi molto numerosi (specialmente nell'edilizia e nei servizi) in cui la concorrenza internazionale non può operare. Approfittando della perenne sovrabbondanza di manodopera, locale e immigrata, una miriade di imprese di ogni dimensione fa lavorare in nero una parte più o meno grande dei propri dipendenti, risparmiando sui salari ed evitando di pagare i contributi sociali.

Inoltre vi sono alcune imprese (multinazionali come la Nike, o anche medie o piccole imprese) che pur producendo una tipologia di beni soggetti alla concorrenza internazionale, si sottraggono ad essa grazie alla forza di richiamo del loro marchio, che sono riuscite ad imporre mediante la pubblicità (anche quando la qualità del prodotto non è tale da giustificare il prezzo). Si è detto, con grande efficacia descrittiva, che il cliente non acquista il paio di scarpe o l'orologio o l'automobile, ma acquista il prestigio legato al marchio. Anche in questi casi i sovrapprofitti possono essere elevati, e, soprattutto quando la produzione avviene nei Pvs e quindi con salari molto bassi, è necessario denunciare e combattere queste perduranti situazioni di sfruttamento.

3-3 - Due difese illusorie contro i timori suscitati nei Paesi ricchi dalla globalizzazione.

Riprenderà vigore il protezionismo?


Gli aspetti negativi -per i Paesi sviluppati- della globalizzazione, hanno dato luogo a interpretazioni di questo fenomeno volte a ridurre i timori che esso suscita. Gli argomenti utilizzati sono di due tipi:

1- la competitività esasperata può e deve essere controllata mediante accordi politici. E' questo l'argomento centrale dei no global, sul quale essi fondano l'intera critica del capitalismo contemporaneo e le loro proposte per una globalizzazione diversa, governata, appunto, dalla politica.

2- la globalizzazione, per i Paesi sviluppati, non è una minaccia ma una grande opportunità; questa posizione, molto diffusa, è attenta a ciò che accade oggi, e viene così argomentata:

"Le fobie che alimentano il dibattito politico sulla globalizzazione riescono a prescindere completamente dai dati di fatto. La prova più lampante dei benefici che ricaviamo è questa: nel corso di tutti gli anni Novanta e fino a oggi, l'Italia ha avuto continuamente una bilancia commerciale attiva con i tanto temuti dragoni del Sud-Est asiatico. Dalla Corea a Singapore, da Taiwan a Hong Kong, ma anche Giappone e Cina, si sono rivelati per le imprese italiane preziosissimi clienti, più che dei pericolosi concorrenti. Questo dato è generalmente vero - sia pure in maniera meno accentuata - per l'insieme dell'Unione europea. Si può affermare con rigorosa certezza che, se l'Asia non fosse "decollata", se non ci fosse stato questo nuovo sbocco per l'industria europea, l'ultima recessione che ha colpito il nostro continente sarebbe stata ancora più grave e socialmente traumatica" (F.Rampini, Usi e abusi della globalizzazione, "Limes", n. 2-97, p. 251).

Si tratta di argomenti ineccepibili: tutto ciò è dovuto al fatto che nei Paesi emergenti i programmi di sviluppo infrastrutturale, comprendenti reti viarie e ferroviarie, porti, aeroporti, stabilimenti industriali e infrastrutture urbane di ogni genere (abitazioni, scuole, ospedali), richiedono importazioni di grande entità. Tuttavia questi argomenti non tengono conto del fatto che lo sviluppo di quei Paesi ha avuto inizio da pochi anni, ed è quindi del tutto ovvio che essi importino dai Paesi industrializzati ciò che serve alla crescita della loro economia e della loro vita civile. Si tratta quindi di una situazione destinata ad esaurirsi: anno dopo anno l'insieme dei Paesi emergenti produrrà un numero sempre maggiore di beni; produrrà, a costi minori, anche quelli che attualmente importa dai Paesi industrializzati, e accrescerà la concorrenza anche nel campo dei servizi; quindi il segno positivo delle bilance commerciali europee è destinato ad una più o meno rapida inversione, a meno che l'Europa, come si è detto, non sappia darsi strutture di ricerca capaci di creare con continuità nuovi beni ad alto contenuto tecnologico.

Il sorgere di rivendicazioni sindacali legato alla crescita del tenore di vita (come è accaduto nella Corea del Sud all'inizio del '97), ridurrà via via il divario del costo del lavoro rispetto ai Paesi sviluppati, ma questo non impedirà che ogni anno un numero crescente di prodotti occidentali, di livello tecnologico sempre più elevato, vengano messi fuori mercato dalla concorrenza non più soltanto delle tigri asiatiche (così sono stati denominati i primi Paesi nei quali la globalizzazione ha innescato un forte sviluppo dell'economia: Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore. Ad essi si è aggiunta la Cina, e continuano ad aggiungersene altri: Malesia, Thailandia, Indonesia, Filippine, Vietnam) , ma della Cina, degli altri Paesi del Sud est asiatico, dell'India, del Brasile, della Russia e degli altri Paesi dell'Europa orientale.

Poiché difficilmente l'innovazione tecnologica nei Paesi industrializzati riuscirà a creare con continuità nuovi posti di lavoro nella misura necessaria a surrogare quelli che via via si perderanno per la concorrenza dei Pvs, molto probabilmente i governi occidentali si troveranno di fronte ad una scelta drammatica: rallentare la globalizzazione inasprendo le barriere protezionistiche (e quindi vanificando l'opera della Wto:), oppure disporsi a gestire il dissenso di masse crescenti di disoccupati, opzione quest'ultima difficilmente realizzabile in Paesi democratici. E' per questo che sta crescendo il numero degli esperti che suggeriscono di

"assecondare la tendenza protezionista per ridurla a un minimo che non comprometta l'intera globalizzazione. Come? Trovando un compromesso tra requisito di crescita competitiva dei Paesi emergenti e sostenibilità da parte di quelli maturi. Un concetto del genere, nel passato, stabilizzò i prezzi del petrolio" (C. Pelanda, "Il Foglio", 26-7-03)

Si tratta di convincere la Cina e gli altri Paesi emergenti ad accettare i necessari compromessi, senza che si debba scatenare una guerra commerciale in piena regola. Non sarà facile, perché un freno alle loro esportazioni rallenterebbe per quei Paesi l'uscita dalla povertà, tuttavia i loro governi sanno anche di non dover mettere eccessivamente in crisi le economie occidentali, perché ne seguirebbe una crisi mondiale della quale i Pvs sarebbero le prime vittime.

L'attuale rallentamento del processo di progressiva riduzione del protezionismo, ed anzi il possibile innalzamento delle barriere doganali, inducono alcuni osservatori a proclamare il tramonto della globalizzazione, ma questo non è che l'ennesimo esempio di confusione tra il commercio internazionale e la globalizzazione: il primo può attraversare momenti di accelerazione e altri di rallentamento, come è più volte avvenuto negli ultimi venti secoli, mentre la globalizzazione è un fenomeno assolutamente nuovo, reso possibile dai tre irreversibili fattori tecnici descritti nel par. 2; gli altri due fattori (libera circolazione dei capitali e lotta all'inflazione) possono certamente essere annullati da decisioni politiche, ma non per lungo tempo, perché frenare la globalizzazione significa produrre di meno a costi maggiori, e quindi il vantaggio immediato della crescita dell'occupazione finirebbe per avere un costo insopportabile.

4 - LE CONSEGUENZE DELLA GLOBALIZZAZIONE NEL TERZO MONDO

E IL PROBLEMA DELLA POVERTÀ


Per i Paesi del Terzo mondo la globalizzazione ha un significato che, senza enfasi, può ben definirsi epocale. Fino a pochi anni fa tre miliardi di esseri umani vivevano ai margini dell'economia mondiale, limitandosi ad esportare materie prime, prodotti agricoli e manufatti a basso contenuto tecnologico; la maggior parte di essi sopravvivevano a stento grazie ad una povera agricoltura di sussistenza, tagliati fuori dal flusso della storia. Oggi, grazie alle nuove tecnologie, milioni di braccia e di cervelli irrompono ogni anno su di un mercato del lavoro divenuto globale, forti della loro povertà che li dispone a lavorare per salari che nessun occidentale accetterebbe, facendone concorrenti temibili per le classi lavoratrici dei Paesi sviluppati.

Tuttavia i no global nei loro documenti rovesciano questa realtà, ricorrendo a un artificio retorico sempre efficace: sostenere cose vere privandole del contesto. Essi affermano che l'estensione della povertà, alla fine del ventesimo secolo, non ha precedenti nella storia. L'accusa, che riassume tutte le altre rivolte alla globalizzazione, corrisponde alla realtà: l'aumento complessivo del numero dei poveri nel mondo è sotto gli occhi di tutti, e non ha sicuramente precedenti nella storia.

"Secondo i dati dell'Undp (il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite) la popolazione mondiale con un reddito inferiore a un dollaro al giorno era nel 1998 di circa 1,2 miliardi di persone, cui si devono aggiungere altri 1,6 miliardi che vivono con meno di due dollari. (...) Critica appare la situazione dei sistemi previdenziali pubblici. Un recente rapporto dell'Ilo (Ufficio internazionale del lavoro) denuncia che il 90% della popolazione mondiale in età di lavoro non è coperta da assicurazioni pensionistiche idonee a garantire un reddito adeguato in vecchiaia" (M. Sacconi, Nel mondo 'globale' c'è una nuova questione sociale, "Limes", n. 3-2001, pp. 168-170).

La stessa disastrosa situazione si presenta in relazione all'assistenza sanitaria. Molto grave è anche il fenomeno del lavoro dei minori, che spesso si svolge in condizioni di pericolo per la loro incolumità fisica o psichica .

Quindi la denuncia dell'estendersi della povertà è più che fondata; essa sarebbe il risultato (secondo l'interpretazione dei no global) dei salari troppo bassi dei popoli del Terzo mondo, a causa della spinta a ridurre i costi imposta dalla globalizzazione. Ma se il fatto della povertà viene collocato nel suo contesto, esso appare la conseguenza inevitabile della crescita demografica, perché mai nella storia vi erano stati sei miliardi di abitanti sulla terra, ed è una mistificazione lasciare intendere che con una gestione non capitalistica dell'economia si potrebbero creare scuole, assistenza sanitaria, abitazioni decenti e posti di lavoro per una popolazione che in pochi decenni è passata da tre a sei miliardi (i tre miliardi in più essendo nati quasi tutti nei Paesi poveri). La globalizzazione non è affatto causa di impoverimento di Paesi che in precedenza poveri non erano (come i suoi critici cercano di sostenere): al contrario il numero dei poveri continua a crescere solo ed esclusivamente là dove la globalizzazione non è giunta, perché se la popolazione aumenta in assenza di sviluppo economico (o comunque ad un tasso di crescita superiore a quello di crescita del Pil), inevitabilmente aumenta anche il numero dei poveri, che diventa a sua volta un ostacolo per lo sviluppo.

Tutti i Paesi entrati di recente nel mercato mondiale, senza eccezione alcuna, hanno migliorato le loro condizioni di vita. Renato Ruggiero, che è stato per molti anni il direttore generale della Wto e conosce a fondo come pochi altri i problemi e le conseguenze della globalizzazione, ha dichiarato in un'intervista:

"Negli ultimi 10-15 anni almeno dieci Paesi in via di sviluppo, con una popolazione di un miliardo e mezzo di anime pari a un 30 per cento dell'umanità, hanno raddoppiato il reddito pro capite dopo avere scelto l'economia di mercato e la liberalizzazione degli scambi" (Intervista rilasciata a S.Tropea, "La Repubblica", 25-10-97; corsivo aggiunto).

Ciò è accaduto perché l'apertura dei mercati crea occasioni di lavoro e quindi migliori condizioni di vita, malgrado i bassi salari. Le affermazioni di Ruggiero sono confermate ufficialmente dalle statistiche dell'Unctad (United nations conference trade and development = Conferenza delle Nazioni unite per il commercio e lo sviluppo); la citazione seguente mostra come la globalizzazione, dove si è realizzata, ha capovolto le previsioni, anche le più accreditate, che fino agli anni '70 venivano fatte sul futuro dei Pvs.

"Gli effetti della globalizzazione sui Paesi in via di sviluppo che ne sono partecipi sono stati finora, nell'insieme, straordinariamente benefici. Basta paragonare i percorsi di Asia e Africa per rendersene conto. L'Asia è entrata di prepotenza nel circuito degli scambi mondiali, l'Africa no. Negli anni Sessanta, il premio Nobel per l'economia Gunnar Myrdal pubblicava un celebre saggio intitolato Asian Drama, il dramma asiatico. Le prospettive future di quel continente -allora poverissimo- venivano dipinte dallo svedese Myrdal in termini catastrofici, come un circolo vizioso di miseria e degrado che avrebbe condotto allo sterminio di intere popolazioni per denutrizione. Il futuro dell'Asia, visto allora da uno dei più brillanti economisti mondiali, appariva uguale al presente dell'Africa: cioè dell'unico continente che è rimasto ai margini del commercio mondiale. L'Asia di oggi, al contrario, ci fa paura per il ritmo stupefacente con cui cresce e si arricchisce. L'Asia non è più Terzo mondo; si sta affrancando dalla miseria grazie alla globalizzazione.

Naturalmente, come è tipico dei periodi di tumultuoso sviluppo economico, il miracoloso decollo asiatico avviene anche al prezzo di un intenso sfruttamento della manodopera. Uno sfruttamento tanto più facile nei Paesi che non hanno regime democratico, né tutela dei diritti umani, né organizzazioni sindacali riconosciute, né Stato sociale. Ma questo è un quadro in evoluzione, il senso di marcia è quello di un sicuro miglioramento anche sul fronte dei salari e delle garanzie" (F. Rampini, Usi e abusi della globalizzazione, "Limes", n. 2-97, p. 249; corsivi aggiunti).

E' quindi infondata l'accusa frequentemente rivolta alla globalizzazione di creare "allo stesso tempo processi di crescente connessione e interdipendenza e processi di ghettizzazione e separazione" (S. Veca, L'11 settembre, discussione pubblica e responsabilità intellettuale, "Iride", 35, 2002, p. 8); è vero il contrario: soltanto i Paesi che si aprono al mercato globale riescono ad uscire dal ghetto del sottosviluppo.

Sotto il titolo "Ma è l'unico sistema per battere la fame", Deaglio esprime sulla globalizzazione e il suo rapporto con la povertà un giudizio sintetico ed equilibrato:

"La globalizzazione ha molti difetti ma è l'unico sistema in grado di sconfiggere la fame e la povertà. Lo sa bene la Cina che accettando di vivere in un mondo globalizzato e quindi di operare in un grande mercato internazionale, ha imparato a produrre in maniera più efficiente. Così ha potuto dare non solo da mangiare ma spesso anche un modesto benessere e una speranza di futuro a oltre un miliardo di persone. La stessa cosa hanno fatto (...) le "tigri asiatiche" e molti Paesi dell'Est europeo. Naturalmente la crescita economica legata al mercato crea tensioni e storture, ci sono prepotenze, prevaricazioni e ingiustizie. Ma prepotenze, prevaricazioni e ingiustizie sono infinitamente peggiori là dove la globalizzazione è rifiutata e si passa da una carestia all'altra, da una guerra all'altra. Etiopia ed Eritrea, Afganistan, Corea del Nord e Somalia: ecco cinque esempi di Paesi chiusi alla globalizzazione e aperti alla disperazione" (M. Deaglio, "La Stampa", 7-9-00; corsivo aggiunto).

Il rapporto tra globalizzazione e povertà viene così descritto dall'economista Krugman:

"Il fatto nudo e crudo è che nel secolo passato ogni esempio positivo di sviluppo economico, ogni caso di nazione povera che è riuscita a elevarsi a un livello di vita decente o quanto meno migliore, è avvenuto grazie alla globalizzazione, ovvero a una produzione per il mercato mondiale, anziché per l'autosufficienza. Molti dei lavoratori che realizzano questa produzione sono mal pagati secondo i parametri occidentali, ma dire che siano stati sfruttati dalla globalizzazione significa dimenticare che questi stessi lavoratori, prima, erano ancora più poveri, e ignorare che chi non ha accesso ai mercati globali è in condizioni decisamente peggiori" (P. Krugman, citato in: T. Friedman, Le radici del futuro, Mondadori, Milano, 2000, p. 369).

Vi sono infine i dati, appena diffusi dalla Banca mondiale, relativi agli anni '90 del secolo scorso: nei Paesi non toccati dalla globalizzazione il Pil (Prodotto interno lordo: il valore complessivo dei beni e dei servizi prodotti da un Paese nel corso di un anno) pro capite è diminuito mediamente dell'1 per cento, nell'Occidente industrializzato è cresciuto del 2 per cento, e nei Pvs che si sono integrati nel mercato globale è cresciuto del 5 per cento.

Ridurre la povertà: è questo l'autentico significato umano e sociale della globalizzazione, una speranza di riscatto per una parte grandissima dell'umanità. Non si tratta di un'interpretazione più o meno fondata ma di una realtà indiscutibile, confermata anche dal fatto che gli oppositori e i critici della globalizzazione si trovano quasi esclusivamente nei Paesi occidentali, mentre i lavoratori e i governi del Terzo mondo sanno che solo entrando nel mercato globale potranno alleviare la loro miseria, e denunciano come forme mascherate di protezionismo i tentativi di porre condizioni a questo ingresso.

4-1 - La nuova via allo sviluppo aperta dalla globalizzazione. Le future grandi potenze.

La globalizzazione mette a disposizione di qualsiasi Paese la possibilità di intraprendere una strada nuova verso lo sviluppo. La formula -emersa nei paragrafi precedenti- consiste nell'innalzare il livello dell'istruzione, nel non curarsi di conquistare l'autosufficienza nazionale in nessun campo, importando tutto ciò che serve, e nel puntare invece sull'esportazione di alcune produzioni nelle quali si deve raggiungere l'eccellenza (relativamente al rapporto qualità/ prezzo), per conquistare i mercati. Il cuore della formula è il basso costo del lavoro (salario e oneri sociali). In seguito, come si è visto, se nel frattempo ci si è dotati di valide strutture di ricerca, invece di produrre soltanto su licenza di imprese straniere (o copiandone i brevetti), si creeranno anche nuovi brevetti, e il tenore di vita potrà salire. Ma lo sviluppo non inizia a caso: è indispensabile una élite politica relativamente onesta e determinata.

I Paesi asiatici di cui si è parlato hanno inventato e stanno seguendo questa nuova via. Anno dopo anno cresce il numero dei brevetti registrati da Hong Kong e Singapore, Taiwan e Corea del Sud, e ben presto -dopo il suo ingresso nella Wto avvenuto nel novembre 2001- anche la Cina si affaccerà con forza sui mercati internazionali. Le conseguenze potrebbero essere sconvolgenti: secondo gli esperti, la Cina, data la sobrietà e la disciplina del suo immenso popolo, in un futuro non troppo remoto potrebbe essere in grado di conquistare i mercati mondiali della maggior parte dei prodotti delle industrie manifatturiere. La chiusura ai prodotti cinesi di molti importanti mercati esteri, eventualmente attuata per difesa, non sarebbe insopportabile per l'economia cinese, che avrebbe pur sempre a disposizione il suo vastissimo mercato interno; l'eventuale protezionismo danneggerebbe assai più chi lo pratica, escludendolo dal ricchissimo mercato cinese.

Non bisogna inoltre dimenticare le potenzialità della Russia e del Brasile, i due Paesi maggiormente dotati di materie prime nel mondo; la Russia dispone anche di un notevole apparato di ricerca scientifica e di un numero grandissimo di ingegneri e di tecnici preparati; né si deve trascurare l'India: malgrado le sue immense masse di miserabili, l'India già dispone di vaste capacità nel settore informatico.

4-2 - I limiti all'industrializzazione del Terzo mondo. Per combattere la povertà:

sviluppo del turismo e tutela dell'ambiente


La globalizzazione costituisce quindi una grande opportunità per i Paesi del Terzo mondo. Non è tuttavia realistico pensare che il processo di industrializzazione possa estendersi a tutti i Paesi attualmente sottosviluppati, a causa di due limiti oggettivi: la disastrosa crescita dell'inquinamento che ne deriverebbe, e l'insostenibile aumento del prezzo di quelle materie prime la cui produzione non si può accrescere senza un forte aumento dei costi. E' noto che l'economia dei Paesi sviluppati -i quali consumano una enorme quantità di materie prime e di energia rispetto alla loro popolazione- è entrata in una fase di "dematerializzazione" dei processi produttivi: gli aumenti dei beni e dei servizi prodotti richiedono l'impiego di quantitativi proporzionalmente decrescenti di materiali ed energia. Nei Paesi sottosviluppati accade l'inverso:

"Nei Paesi poveri, e particolarmente in quelli molto poveri, ogni dollaro aggiuntivo di prodotto ha un contenuto energetico e materiale crescente, almeno fino a una certa soglia. (...). Questo si spiega bene: nei Paesi poveri un dollaro aggiuntivo si spende comprando utensili, cibo, prodotti tessili, materiali da costruzione, combustibile per usi domestici e trasporto; in un Paese ricco con il dollaro aggiuntivo si comprano soprattutto beni e servizi con alto valore aggiunto e scarso contenuto materiale (un libro, un Cd, un giorno di vacanza, un pranzo in un ristorante elegante)"( M. Livi Bacci, G. Errera, Intervista sulla demografia, Etas, Milano, 2001, pp. 40-41).

Se l'inquinamento e le risorse materiali pongono limiti insuperabili allo sviluppo industriale dell'intero Terzo mondo, per affrontare il problema del sottosviluppo resta un'unica possibilità: la maggior parte dei Pvs dovrebbe rinunciare ad una estesa industrializzazione in cambio di consistenti e continuativi indennizzi da parte dei Paesi ricchi, per tutelare l'ambiente e sviluppare il turismo. Il turismo, dopo la realizzazione delle necessarie strutture nei trasporti, nell'edilizia, nell'istruzione e nell'organizzazione sanitaria, potrebbe autofinanziarsi, mentre la tutela delle foreste degli animali e di particolari ecosistemi naturali (che insieme alle foreste conservano la preziosa biodiversità), verrebbe perennemente finanziata dai contributi di tutti gli altri Paesi, essendo comuni a tutti i vantaggi di questa tutela. Si dovrebbe iniziare puntando su alcuni indispensabili obiettivi: sradicare l'analfabetismo femminile (essenziale anche per arrestare la crescita demografica: ovunque si rileva una forte correlazione fra il livello culturale delle donne e il tasso di natalità); formare tecnici agricoli e di altre specialità che dovranno operare presso le comunità di villaggio, creare semplici laboratori specializzati nella produzione di farmaci per le malattie più diffuse.

Ma questa possibilità è per il momento irrealizzabile, perché richiede non solo investimenti molto ingenti, ma anche l'invio, nei Paesi culturalmente più arretrati, come ad esempio quelli africani, di un vero esercito di specialisti: medici e personale sanitario, insegnanti ad ogni livello (dalla scuola materna all'università), agronomi, ingegneri e tecnici di ogni ramo; e questo esercito dovrebbe fermarsi per alcuni decenni, perché non si tratterebbe di insegnare a fare qualcosa e poi andarsene (tutto tornerebbe rapidamente come prima), si tratterebbe invece di aiutare quei popoli a compiere una radicale trasformazione della loro cultura, per superare gli ostacoli che ne hanno finora impedito lo sviluppo. Naturalmente gli specialisti -tranne i pochi volontari animati da spirito missionario- per accettare di trasferirsi per qualche anno in quei Paesi dovrebbero ricevere un salario elevato, e sarebbe quindi necessaria, da parte dei cittadini dei Paesi sviluppati, la disponibilità a sopportare sacrifici consistenti e duraturi, disponibilità che è invece del tutto assente perché la maggior parte di essi ancora non si rende conto che si tratterebbe dell'unico modo per salvaguardare i propri interessi nel lungo periodo .

5 - SOTTOSVILUPPO E POVERTA' NEL TERZO MONDO

LE CAUSE DENUNCIATE


Il protezionismo dei Paesi ricchi, lo strangolamento dei Pvs provocato dal loro debito estero crescente, l'attività della Wto, del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale (volta più a sostenere gli interessi delle multinazionali e delle banche occidentali che a promuovere lo sviluppo dei Paesi poveri), le conseguenze del colonialismo e le perduranti pratiche del neocolonialismo, le ragioni di scambio sfavorevoli ai Pvs e la specializzazione in produzioni povere che è stata loro imposta; sono queste le principali cause del sottosviluppo e della povertà del Terzo mondo denunciate dai critici della globalizzazione. Le esamineremo in questo capitolo.

6 -IL PROTEZIONISMO DEI PAESI RICCHI E L'OPPOSIZIONE AL DUMPING SOCIALE E AMBIENTALE

Ridurre le barriere doganali e aprire le frontiere alla concorrenza internazionale significa, per tutti i Paesi, sviluppati e arretrati, stimolare le imprese all'efficienza e alla riduzione dei costi, con vantaggio per i consumatori. E' insomma una condizione del progresso economico. Condizione necessaria, tuttavia non sufficiente:

"Condizione non sufficiente, perché la caduta delle barriere protettive e il vento della concorrenza creano costi sociali e innescano processi di mutamento tecnologico e organizzativo che chiamano in causa non certo meccanismi di aggiustamento automatico del mercato, bensì politiche attive di formazione e riconversione delle risorse umane, di incentivo all'innovazione e alla ristrutturazione societaria, di dotazione infrastrutturale, di protezione delle fasce deboli della popolazione, di coesione sociale; il tutto a livello di governo centrale e dei governi locali" (F.Onida, "Global", 12-01, p. 30)

Come si vede, le condizioni necessarie per lo sviluppo economico sono complesse e difficili da realizzare, e tanto più lo sono per i Paesi poveri. Resta tuttavia il fatto che la critica dei no-global al protezionismo dei Paesi ricchi è assolutamente fondata. Si tratta del più scottante fra i temi relativi alla globalizzazione, e non riguarda soltanto i rapporti tra i Paesi industrializzati e il Terzo mondo. Se da un lato il protezionismo evidenzia imbarazzanti contraddizioni nei sostenitori troppo entusiasti della globalizzazione e del mercato libero (che rifiutano di scorgerne i rilevanti aspetti negativi), d'altro lato spacca in due fronti contrapposti il movimento no global.

6-1 - Il protezionismo agricolo dei Paesi ricchi

I governi europei mantengono un elevato protezionismo agricolo, mediante incisive tariffe doganali sulle importazioni e consistenti sovvenzioni alle imprese agricole europee, le cui eccedenze vengono acquistate dalla Commissione, stoccate, e poi vendute all'estero a prezzi irrisori. I governi proteggono le imprese agricole perché non vogliono perdere il sostegno elettorale di qualche milione di contadini, e per impedire l'altrimenti inevitabile scomparsa dell'agricoltura dai loro Paesi. Il costo del protezionismo ricade naturalmente sui consumatori europei, che pagano le derrate protette a prezzi più elevati di quelli dei mercati internazionali. Nel 2000, secondo i calcoli dell'Ocse, la politica agricola dell'Unione europea è costata ai cittadini 103,5 miliardi di dollari fra imposte (per pagare le sovvenzioni) e maggiore costo dei prodotti: mediamente 276 dollari a persona, 1.100 per ciascuna famiglia di quattro persone. Gli europei pagano lo zucchero oltre due volte e mezzo il prezzo mondiale, pagano il doppio la carne e il burro, e il 50 per cento in più il frumento.

Ma non sono soltanto gli agricoltori europei a vivere di sovvenzioni: il protezionismo agricolo è comune a tutti i Paesi ricchi; il sostegno complessivo all'agricoltura nei Paesi dell'Ocse ha raggiunto nel 2000 i 327 miliardi di dollari: più del Pil di tutta l'Africa subsahariana. Colpisce un altro dato: l'Unione europea concede ogni giorno a ogni mucca del Vecchio continente un sussidio di 2 euro e 34 centesimi, più di quanto dispongano per vivere la maggior parte degli africani.

Poiché in tutti questi Paesi è assai ridotta la percentuale della popolazione dedita all'agricoltura, quelle ragguardevoli somme (che, non lo si dimentichi, escono dalle tasche dei contribuenti) vengono suddivise tra relativamente poche persone: ciascun agricoltore europeo riceve ogni anno in sussidi l'equivalente di 14.000 dollari, quelli americani ricevono 20.000 dollari a testa (più del doppio della pensione federale versata a un veterano di guerra indigente), i giapponesi ne ricevono 28.000, i norvegesi e gli svizzeri 29.000.

Si oppongono inutilmente a questo protezionismo non soltanto i Pvs, ma anche i Paesi ricchi che esportano prodotti agricoli, primo fra tutti gli Stati Uniti. Siamo veramente al paradosso: sovvenzionano i loro prodotti agricoli, che in tal modo possono essere esportati ovunque a prezzi stracciati, mettendo fuori mercato anche i prodotti a basso costo dei Paesi poveri; ma contemporaneamente protestano contro le barriere doganali altrui. Naturalmente in questa contesa il danno più grave lo subiscono i più poveri tra i Pvs, la cui economia si regge soprattutto sull'esportazione di prodotti agricoli. Mentre gli Stati Uniti, forti importatori di moltissimi prodotti dall'Europa, in parte si rifanno delle tariffe agricole dell'Europa imponendo agli esportatori europei tariffe doganali elevate su alcuni prodotti, i Pvs subiscono il danno senza possibilità di ritorsione.

6-2 - Il protezionismo dei Paesi ricchi sui prodotti industriali

I Paesi industrializzati difendono le industrie nazionali (dai tessuti alle macchine) con barriere doganali che gli accordi della Wto hanno molto ridotto ma non smantellato. Anche in questo caso il protezionismo frena le esportazioni sia dei Paesi industrializzati che dei Pvs, tuttavia sono questi ultimi i più colpiti perché le loro economie sono assai poco diversificate, e quindi restano maggiormente danneggiati dagli ostacoli all'esportazione della limitata tipologia di merci che ciascuno di essi produce.

Siamo al paradosso che

"i Paesi ricchi impongono restrizioni quantitative, tariffe elevate o standard qualitativi tali da impedire l'esportazione di quegli stessi beni che grazie ai loro sussidi hanno contribuito a far produrre" (De Nicola, Invece che abolire il debito, in: No global, Zelig, Milano, 2001, p. 332)

Complessivamente i danni causati ai Paesi poveri dal protezionismo per le mancate esportazioni di prodotti agricoli e di manufatti, superano l'importo degli aiuti ricevuti:

"nel 2000 l'Africa nera ha ricevuto 14 miliardi di dollari sotto forma di carità da quegli stessi Paesi occidentali che elevando barriere e tariffe le hanno fatto perdere opportunità commerciali per 20 miliardi" (Tramballi, "Il Sole 24 Ore", 27-6-01)

"Nel momento in cui i Grandi ci invitano alla liberalizzazione totale dei commerci -scelta che noi africani accettiamo come unica via per la crescita economica del mondo intero, capace di fare da spinta principale per il nostro sviluppo- questi stessi Paesi spendono 1 miliardo di dollari al giorno in favore della loro agricoltura, domandandoci allo stesso tempo di aprire i nostri magri mercati alla concorrenza di quei prodotti sovvenzionati" ( Wade, presidente del Senegal, citato da F. Onida in "Global", 12-2001, p. 30)

E' tuttavia necessario riconoscere l'esistenza di un atteggiamento di fondo comune a tutti i Paesi, poveri e ricchi: ognuno vuole proteggere con barriere doganali i suoi prodotti, e contemporaneamente vorrebbe fossero smantellate le barriere protettive altrui. E' noto, e assai criticato, l'atteggiamento dei Paesi occidentali e delle istituzioni finanziarie internazionale, che generalmente subordinano i prestiti ai Pvs alla riduzione delle loro barriere doganali (si veda il par. 8), ma è meno noto il fatto che le barriere dei Pvs sono elevatissime, e colpiscono anche le importazioni dagli altri Paesi del Terzo mondo. Il 70 per cento dei dazi che mediamente devono subire le esportazioni di un Pvs sono imposti non dall'Occidente ma da altri Paesi in via di sviluppo, e se a ciò si aggiunge il fatto che il 40 per cento delle esportazioni dei Pvs si dirige verso altri Pvs, si delinea un triste quadro di guerra tra poveri.

"Ai Paesi poveri questi alti steccati doganali che essi stessi dispongono alle frontiere possono apparire un modo per tutelare le rispettive produzioni dalla concorrenza straniera, e anche una buona fonte di introiti per le casse pubbliche. Ma la Wto ne sottolinea i risvolti negativi: i forti dazi di un Paese del Sud non fermano, di solito, le merci provenienti dal Nord del mondo , mentre scoraggiano e bloccano (quasi sempre) quelle in arrivo dagli altri Paesi del Sud. La conseguenza è che il commercio Sud-Sud si sviluppa molto lentamente" (D. Grassia, citato da "Il Foglio" dell'8-9-03 in un articolo-collage di citazioni sul vertice della Wto a Cancun).

La questione del protezionismo è la prova decisiva dell'egoismo e dell'ipocrisia dell'intero Occidente. Favorire le esportazioni dei Paesi poveri abolendo le barriere doganali e i sussidi alle proprie imprese, agricole e industriali, significherebbe creare in essi occupazione e fornirli delle valute necessarie per le loro importazioni; significherebbe quindi diminuire il bisogno di prestiti. Ma per gli occidentali implicherebbe il calo della produzione e dell'occupazione, perciò essi preferiscono prestare denaro ai poveri, avendo la certezza che verrà in gran parte utilizzato per acquistare alimenti, prodotti industriali e armi dalle loro imprese, che in tal modo accresceranno la produzione, l'occupazione e i profitti.

6-3 - La liberalizzazione dei servizi

Vi è inoltre la questione della liberalizzazione di tutti i servizi: bancari, assicurativi, relativi alla salute, ed anche dei servizi in senso lato culturali (film, programmi televisivi, scuole e università). Questa liberalizzazione, fortemente voluta dagli Stati Uniti, viene avversata non solo dai no-global ma anche dai governi di quasi tutti i Paesi, che temono la colonizzazione culturale come conseguenza della superiore efficienza delle imprese americane. In generale, la liberalizzazione dei servizi implicherebbe l'affermarsi della concorrenza in settori nei quali, in Europa e altrove, sono ancora molto diffuse le posizioni di monopolio, protette dagli intrecci tra politica e interessi economici.

Va fatta un'osservazione relativamente ai servizi finanziari (banche, assicurazioni, società finanziarie, fondi di investimento). La loro liberalizzazione gioverebbe ai cittadini dei Pvs (nella maggior parte dei quali i servizi finanziari sono assenti o inefficienti), offrendo loro migliori possibilità di impiego dei propri risparmi; tuttavia i fondi raccolti verrebbero investiti ovunque nel mondo, alla ricerca dei migliori rendimenti, procurando buoni utili ai risparmiatori ma nessun vantaggio all'economia locale. Il problema di evitare che queste risorse creino ricchezza altrove senza promuovere lo sviluppo del Paese che le ha generate, possono risolverlo soltanto le classi politiche locali, il cui principale compito dovrebbe consistere nel creare condizioni favorevoli agli investimenti nel proprio Paese, rimuovendo gli ostacoli prima descritti .

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E' in relazione ai problemi del protezionismo che si evidenzia la grande importanza della Wto, che, pur dovendo tenere conto dei rapporti di forza, negozia accordi fra tutti i partecipanti bilanciando l'utilità e i costi di ogni provvedimento, ed ha finora ottenuto una graduale riduzione delle barriere doganali a vantaggio di tutti, anche dei Pvs .

6-4 - Le contraddizioni del movimento no global sul protezionismo

I numerosi gruppi che compongono il movimento non solo sono tra loro molto diversi, ma soprattutto, sulla decisiva questione del protezionismo, appaiono schierati su due fronti nettamente contrapposti, anche se la spaccatura, incredibilmente, non emerge nei media, attenti soltanto agli slogan e agli scontri di piazza.

A Seattle e nei successivi raduni una parte dei dimostranti chiedeva sinceramente (e continua a chiedere) ai governi dei Paesi occidentali di superare gli egoismi e di ridurre le barriere protezionistiche contro le esportazioni agricole e industriali dei Paesi del Terzo mondo; sarebbe questo, essi affermano con piena ragione, il modo più efficace per aiutarli a ridurre la povertà sviluppando l'economia (un modo ben più efficace dei regali e dei prestiti, come si è visto nel precedente paragrafo). Ma le componenti di gran lunga maggioritarie dei no global chiedono misure esattamente opposte:

1- Con arrogante sincerità i sindacati Usa (già da molti anni prima di Seattle) chiedono apertamente che il protezionismo venga rafforzato e che si impedisca alle imprese degli Stati Uniti di creare nuovi impianti all'estero, allo scopo di difendere i livelli salariali e i posti di lavoro degli americani.

"Nel 1998 il presidente Clinton non è riuscito ad ampliare l'accordo Nafta (il trattato di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico) al Cile perché una minoranza, istigata dai sindacati contrari a un'ulteriore liberalizzazione degli scambi internazionali, si è attivamente opposta, mentre la maggioranza che avrebbe potuto trarre grande beneficio dall'allargamento dell'area di libero scambio, non ha mai trovato una coesione e non si è mai mobilitata per difendere il proprio interesse"(T. Friedman, Le radici del futuro, Mondadori, Milano, 2000, p. 448).

2- Gli imprenditori agricoli europei (dalla grande azienda al piccolo contadino), ben rappresentati nel movimento di Seattle, esigono il mantenimento delle barriere doganali affermando che si deve difendere l'agricoltura del vecchio continente dall'imperialismo delle multinazionali agroalimentari americane; in realtà essi difendono la loro sopravvivenza, finora garantita dai dazi e dalle ingenti sovvenzioni dirette pagate dai contribuenti europei.

3- Il protezionismo è ovviamente sostenuto (in modi più o meno mascherati) dai sindacati dei lavoratori e dagli azionisti di quelle industrie occidentali (di ogni dimensione, in ogni settore produttivo e in tutti i Paesi) che sarebbero messe in difficoltà dalla concorrenza dei Pvs se venissero smantellate le barriere doganali che finora hanno loro permesso di sopravvivere.

6-5 - L'opposizione al dumping sociale e ambientale

Il protezionismo non è tuttavia difendibile apertamente, sia perché fa crescere i prezzi a danno dei consumatori, sia perché smentisce gli esibiti atteggiamenti di solidarietà con i Paesi poveri, e quindi i suoi sostenitori cercano di mascherarlo; essi chiedono il blocco delle importazioni dai Paesi emergenti, adducendo il fatto che questi Paesi sfruttano le opportunità offerte dalla globalizzazione soprattutto mediante bassi salari, pensioni ridotte, scarsa tutela della salute, pesanti condizioni di lavoro, impiego di manodopera minorile, scarse misure di protezione ambientale. Contro queste pratiche di dumping sociale e ambientale, nei Paesi industrializzati le forze sindacali, gli amici del Terzo mondo, le organizzazioni umanitarie e ambientaliste, chiedono ai loro governi di esercitare pressioni sui governi dei Pvs -usando la minaccia di ritorsioni commerciali e sospensione degli aiuti, dei prestiti e degli investimenti- affinché adeguino la loro legislazione sociale e ambientale agli standard occidentali. Inoltre promuovono campagne di boicottaggio soprattutto dei prodotti ottenuti sfruttando il lavoro minorile, ottenendo qualche isolato successo (aumento dei salari, riduzione di orario, migliori condizioni di lavoro, esclusione dei minori, migliore protezione dell'ambiente); non sembra tuttavia possibile, per il momento, un cambiamento significativo della situazione, perché nessuno lo vuole veramente. Al cambiamento si oppongono non solo i governi dei Pvs, ma anche gli stessi lavoratori di quei Paesi, mentre i governi dei Paesi industrializzati, al di là delle dichiarazioni diplomatiche e di sporadiche azioni dimostrative, hanno anch'essi concrete motivazioni per non spingere a fondo la lotta al dumping sociale.

6-5.1 - I governi dei Pvs difendono lo sfruttamento

I governi dei Pvs si oppongono sia a consistenti riduzioni dello sfruttamento del lavoro, sia all'imposizione di norme per la tutela dell'ambiente, perché lo sfruttamento degli uomini e della natura è l'unico mezzo a disposizione dei Paesi arretrati per accumulare profitti, e quindi consentire investimenti non più dipendenti dal capitale straniero:

"Nel corso dell'Uruguay Round gli Stati Uniti, fortemente sollecitati dal movimento sindacale, hanno proposto di istituire una commissione per i diritti internazionali del lavoro all'interno del Gatt )si tratta dell'organizzazione mondiale per il commercio, attualmente denominata Wto = World trade organization); il parlamento europeo, da parte sua, ha votato di recente una risoluzione per l'inserimento nel Gatt di normative sul lavoro. Governi del Terzo mondo come il Messico, l'India, Singapore, le Filippine, la Thailandia, l'Indonesia, lo Zaire, Cuba e l'Egitto si sono opposti strenuamente a tali ipotesi. Il rappresentante del Pakistan ha dichiarato che era "più importante avere dei lavoratori occupati che interessarsi del fatto che essi guadagnino un dollaro o venti l'ora". Il portavoce della Corea del Sud si è opposto strenuamente alla creazione di una commissione che controllasse "il rispetto dei diritti dei lavoratori come la libertà di associazione, che andrebbero lasciati alla discrezionalità dei governi di ciascun Paese". (...) Anche se queste posizioni possono essere ovviamente ignorate in quanto provenienti da governi antidemocratici che cercano di perpetuare lo sfruttamento dei propri lavoratori, è più difficile respingere la critica che viene dalle organizzazioni non governative del Terzo mondo. Un documento scritto da Martin Khor, direttore del Third World Network, ad esempio, ha condannato energicamente l'inclusione dei diritti del lavoro nel Gatt/Wto. (...) 'Il tentativo degli Stati Uniti e degli altri Paesi industriali, (...) di inserire gli 'standard lavorativi' e i 'diritti dei lavoratori' come una delle questioni di fondo di cui il Wto dovrebbe occuparsi, è indotto abbastanza chiaramente non tanto da sentimenti di generosità verso i lavoratori del Terzo mondo, bensì da tentativi protezionistici per evitare il trasferimento di posti di lavoro dal Nord al Sud'. Quei Paesi che violassero gli standard del Wto, proseguiva Kohr, potrebbero essere accusati di dumping sociale, e dovrebbero far fronte a tariffe studiate per tenere i loro prodotti fuori dai mercati del Nord; se i Paesi del Sud aumentassero i loro salari, d'altra parte, verrebbero egualmente esclusi dai mercati del Nord= (J.Brecher, T.Costello, Contro il capitale globale, Feltrinelli, Milano, 1966, pp. 163-165).

La pesante accusa è rafforzata da un'elementare considerazione: da sempre è noto che nei Paesi poveri l'economia (agricola e non) si regge sull'intenso sfruttamento della manodopera e sul lavoro minorile, tuttavia delle condizioni di vita di questi lavoratori si interessavano soltanto piccole organizzazioni di amici del Terzo mondo, perlopiù di orientamento religioso, senza echi sui media e con scarsi risultati. Ciò fino a quando quei Paesi si limitavano ad esportare materie prime e manufatti grezzi: l'interessamento umanitario e le conseguenti pressioni sui governi sono esplose soltanto quando è iniziata la concorrenza con le produzioni dei Paesi ricchi.

6-5.2 - Anche i lavoratori dei Pvs difendono lo sfruttamento

Le precedenti considerazioni mostrano il secondo e più significativo ostacolo al miglioramento delle condizioni di lavoro nei Paesi emergenti: sono le stesse organizzazioni dei lavoratori di questi Paesi a rifiutare le imposizioni internazionali in materia di diritto del lavoro, consapevoli che esse provocherebbero, invece del miglioramento delle loro condizioni di vita, l'esclusione delle loro produzioni dal mercato mondiale e il ritorno a quelle condizioni di indigenza dalle quali, grazie alla globalizzazione, stanno iniziando a liberarsi.

L'ipocrisia dell'opposizione al dumping sociale e ambientale è stata ulteriormente messa in risalto da un documento redatto nell'agosto 2000 da un gruppo di studio dell'Onu: riferendosi alle richieste rivolte alla Wto di inserire obbligatoriamente nei trattati commerciali clausole di tutela del lavoro minorile e di difesa dell'ambiente, il documento afferma che il risultato sarebbe l'eliminazione della concorrenza dei Pvs. Questo documento è stato redatto da giuristi dell'Uganda e dello Sri Lanka che conoscono a fondo la situazione del Terzo mondo, e sanno bene (ma in realtà lo sanno tutti) che imporre ai Paesi poveri gli standard occidentali di tutela dei lavoratori e dell'ambiente significa semplicemente provocare la chiusura delle imprese, impedendo a quei Paesi di liberarsi dalla miseria.

6-5.3 - I governi dei Paesi industrializzati non si oppongono allo sfruttamento

I limiti del boicottaggio da parte dei consumatori


Il terzo ostacolo ad una lotta efficace contro il dumping sociale è costituito dai reali interessi dei governi dei Paesi industrializzati (al di là delle dichiarazioni ufficiali); difficilmente questi governi effettuerebbero azioni incisive contro i Pvs, che sono mercati di sbocco per le loro produzioni e che potrebbero, come ritorsione, rivolgersi ad altri Paesi per le loro importazioni.

Negli ultimi anni in alcuni Paesi, ma soprattutto negli Stati Uniti, si sono intensificate le azioni di boicottaggio dei prodotti delle multinazionali che sfruttano i lavoratori (soprattutto i bambini) nel Terzo mondo; organizzazioni solidaristiche e umanitarie effettuano ispezioni senza preavviso mediante controllori indipendenti, e promuovono campagne informative invitando i consumatori a non acquistare i prodotti delle imprese responsabili dello sfruttamento. Analoghe campagne in alcuni casi sono state promosse contro le imprese responsabili di un eccessivo sfruttamento dell'ambiente. Alcune di queste azioni hanno avuto successo, grazie anche ai collegamenti internazionali facilitati da Internet, ottenendo limitazioni nel ricorso al lavoro minorile, riduzioni degli orari di lavoro, miglioramenti salariali, tutela delle foreste, di specie animali, di altre risorse ambientali. Ad esempio in Brasile, quando comandavano i militari, gli ambientalisti non riuscivano a far sentire la loro voce:

"Poi sono arrivati la globalizzazione e Internet, e il governo brasiliano ha incoraggiato le grandi multinazionali a investire. Questo ha creato una dinamica completamente nuova. Il potere che determina lo sviluppo è passato nelle mani di istituzioni e società globali che, per definizione, hanno attività in tutto il mondo e che, di conseguenza, devono preoccuparsi della propria reputazione a livello internazionale. Se, attraverso Internet, gli ambientalisti brasiliani informano i colleghi americani ed europei del fatto che una certa società multinazionale sta distruggendo l'ambiente in Brasile, questi ultimi si attivano nei propri Paesi e presto la multinazionale si trova a dover fare i conti con una campagna globale che mette in discussione il suo buon nome e le sue attività non solo in Brasile ma in tutto il mondo" (G. Prickett, citato da T. Friedman in: Le radici del futuro, Mondadori, Milano, 2000, p. 297).

C. Holliday Jr., presidente della Du Pont, ha spiegato in una intervista che

"una volta, se costruivamo un impianto chimico in una zona, pensavamo solo a ottenere il permesso di chi viveva nei paraggi. Ora non basta più. Con Internet e tutto il resto, adesso è come se ogni zona avesse sei miliardi di abitanti da mettere d'accordo...Ottenere le autorizzazioni dai governi non è difficile, ma bisogna riuscire a raccogliere un più ampio consenso pubblico" (Citato in: T. Friedman: Le radici del futuro, Mondadori, Milano, 2000, p. 298).

Cresce insomma la coscienza del fatto che

"il successo a lungo termine di un'impresa è legato a una chiara politica di 'cittadinanza'. Il business deve accogliere e incorporare le crescenti aspettative etiche, ambientali e sociali dei consumatori. La multinazionale virtuosa avrà un vantaggio strategico fondamentale nella nuova economia" (L. Spinola, I collaborazionisti: quando Ong e business scoprono di amarsi, "Limes", n. 3-2001, p. 186)

Le Ong, oltre a promuovere boicottaggi da parte dei consumatori, esercitano un'azione di monitoraggio del comportamento delle multinazionali, e in alcuni casi collaborano con esse stabilendo in comune dei codici di comportamento che le imprese si impegnano a rispettare, sotto la costante sorveglianza delle Ong.

Sono tutti fatti molto positivi, che tuttavia non arrivano ad incidere significativamente nella sostanza del problema, che è la concorrenza scatenata dal mercato globale: tutelare i bambini, i lavoratori, l'ambiente, implica dei costi, e poiché non esiste un'autorità sovranazionale in grado di imporre questi costi indistintamente a tutte le imprese di tutti i Paesi, è evidente che finirebbero fuori mercato quelle imprese che si preoccupassero eccessivamente di questa tutela.

1. Le contraddizioni dell'Italia. Relativamente all'Italia, qualcuno ha osservato che è abbastanza curioso che proprio nel nostro Paese vi siano persone e organizzazioni

"pronte a chiedere misure di protezione contro le importazioni provenienti dai Paesi asiatici che fanno dumping sociale sfruttando il lavoro minorile. È curioso perché l'Italia, fra tutti i Paesi industrializzati, è quello maggiormente afflitto dalla piaga del lavoro minorile. Secondo uno studio della Cgil, i bambini illegalmente sfruttati in Italia sono 300 mila; l'Ufficio internazionale del lavoro si spinge fino a una stima di 500 mila minori. Immaginiamo quali conseguenze avrebbe patito la nostra economia se la Germania e la Francia avessero preso a pretesto questo dramma per imporre dazi doganali e barriere protezionistiche contro il dumping del made in Italy" (F. Rampini, ib., p. 250).

6-5.4 - Lo sfruttamento del lavoro è sempre stato, in ogni Paese, l'indispensabile avvio

per l'accumulazione dei capitali da investire nello sviluppo economico


Nessun Paese è mai passato dalla povertà al benessere più modesto senza avere prima attraversato lunghi periodi di sfruttamento del lavoro. La dura fatica anche dei bambini e delle donne è sempre stato la regola, ovunque. Per liberarsi dalla miseria occorre accumulare capitali da investire in nuove produzioni, e nessuno è mai riuscito a farlo senza spremere i lavoratori. Sembra quindi evidente che soltanto lo sviluppo economico potrà gradualmente ridurre lo sfruttamento, come negli ultimi due secoli è accaduto in tutti i Paesi attualmente industrializzati, e come già sta accadendo in alcuni tra i Pvs emergenti.

E' significativo il giudizio di Pranab Bardhan, che attualmente è professore di economia dello sviluppo all'Università di Berkeley, ha insegnato in tutte le più prestigiose università del mondo, ed è uno dei massimi esperti di questo problema:

"Basarsi soprattutto su leggi e regolamenti restrittivi (come la messa al bando del lavoro minorile o il boicottaggio dei prodotti ottenuti con tale lavoro) per raggiungere un obiettivo sociale lodevole è chiaramente il modo sbagliato per affrontare il problema. (...) spesso non ottiene l'effetto di mandare i bambini a scuola, bensì di indirizzarli verso lavori peggiori, in settori che producono beni non commerciabili internazionalmente. In India, per esempio, si stima che il 95 per cento del lavoro minorile è presente nel settore dei beni non commerciabili" (P. Bardan, "Il Sole 24 Ore", 8-6-2003)

Concludiamo con alcuni commenti recenti, tutti dettati dalle proteste dei manifestanti di Seattle:

"Proprio ora che la manodopera del Terzo mondo è competitiva, di colpo i Paesi industrializzati si preoccupano dei diritti dei nostri lavoratori?" (Boutros-Ghali, ex Segretario dell'Onu, citato da F. Rampini in: Dall'euforia al crollo, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 111).

"E' una triste ironia quella per cui la sinistra americana, da lungo addormentata, si sia risvegliata per negare opportunità ai lavoratori del Terzo mondo (P. Krugman, "La Stampa", 4-1-00).

"Scrive Krugman: la globalizzazione 'guidata dal profitto e non da spinte umanitarie, ha fatto molto più bene a molta più gente che tutti gli aiuti internazionali e i prestiti a basso interesse' elargiti per decenni dalla cattiva coscienza dell'Occidente. (...) I poveri più poveri abitano laddove la globalizzazione non è arrivata" A. Polito, "La Repubblica", 28-1-00. Corsivo aggiunto)

"Il mondo si trova davanti a scelte tragiche: meglio un bimbo con un mitra in mano o uno che viene messo a lavorare a sei anni? Per noi sono entrambe due opzioni orribili. Ma in buona parte del pianeta una domanda del genere riflette una realtà esistente" (G. Amato, "La Repubblica", 6-12-99).

"Oggi nei Paesi poveri, i bambini lavorano perché i genitori non hanno da dar loro da mangiare. Questa la situazione. Pensiamo che sia meglio lasciarli morire di fame o offrire loro un lavoro per potersi mantenere e crescere? (...) A San Paolo in Brasile ci sono decine di migliaia di meninos da rua, bambini e bambine che non hanno famiglia, vivono letteralmente sulla strada, dormono dove possono, fanno lavoretti qua e là, chiedono l'elemosina, rubano: le loro famiglie non possono mantenerli. E' meglio che vivano così sbandati, e a volte picchiati e anche ammazzati sulla strada, oppure avere la fortuna di svolgere un qualsiasi lavoro che permetta loro di sopravvivere?" (P. Gheddo, R. Beretta, Davide e Golia. I cattolici e la sfida della globalizzazione, Ed. S. Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p. 91).

Vale a dire che un'economia che prospera sullo sfruttamento dei lavoratori, anche dei bambini, è comunque meno peggio di un'economia in crisi che produce miseria per tutti, e la miseria è quasi sempre all'origine delle guerre tra poveri. Inoltre non si può fingere di ignorare che in quei Paesi il bambino sottratto allo sfruttamento, anche se non imbraccerà il mitra, difficilmente andrà a scuola: per sopravvivere gli toccherà una sorte non certo migliore: microcriminalità, spaccio di droga, prostituzione.

6-6 -Il movimento no global esiste soltanto in Occidente. Il Terzo mondo

chiede più globalizzazione


Il fatto che il movimento no-global sia in realtà finalizzato a difendere gli interessi protezionistici dei Paesi occidentali -e non i diritti del Terzo mondo, come in buona fede credono la maggior parte dei manifestanti- riceve una significativa conferma da un suo aspetto, apparentemente inspiegabile: i no-global appartengono quasi tutti ai Paesi occidentali. I pochi cittadini dei Pvs che fanno parte del movimento chiedono soltanto la riduzione delle barriere doganali.

"Questo spiega perché la protesta che ha incendiato le strade vada in scena solo sui palcoscenici dell'uomo bianco (da Seattle a Goteborg, da Salisburgo a Genova) e non sembri per ora sfiorare le metropoli e le campagne degli altri continenti, da dove, se mai, arrivano richieste di più globalizzazione" (M. Pirani, "La Repubblica", 30-8-01. Corsivo aggiunto).

Sono in molti ad avere notato questa stranezza: ad esempio Alain Minc su "Le Monde" ha affermato che la lotta contro la globalizzazione non rappresenta gli autentici interessi dei Paesi del Terzo mondo, che infatti in nessun modo l'appoggiano. Esaminando gli effetti concreti dell'apertura dei mercati, egli parte dal fatto che, se in India e in Cina non si muore più di fame e l'economia si sviluppa,

"questi progressi hanno origine dalla liberalizzazione dei sistemi agricoli, dal ritorno progressivo del mercato e dalla riabilitazione dell'arricchimento. (...) I contestatori della globalizzazione stanno in Occidente, mentre i suoi difensori sono in tutto il resto del mondo" (A. Minc, citato da "Il Foglio", 18-8-01. Editoriale non firmato. Corsivo aggiunto).

Anche su questo fatto il movimento no global dovrebbe riflettere.

7 - IL PROBLEMA DEL DEBITO ESTERO DEI PAESI POVERI

La questione del debito estero del Terzo mondo (pagamento degli interessi e restituzione dei capitali) e quella appena esaminata del protezionismo, costituiscono i due problemi centrali del sottosviluppo. Relativamente al debito si devono distinguere tre aspetti: ciò che è giusto fare (livello etico), ciò che è possibile fare (livello politico), e quali sarebbero le conseguenze della cancellazione del debito.

7-1 - Il debito morale dei Paesi ricchi verso il Terzo mondo

Abitualmente si parla soltanto del debito dei Paesi poveri per i prestiti ricevuti dai Paesi sviluppati, ma se si assumesse il punto di vista della giustizia si sarebbe costretti a constatare che i prestiti e le donazioni, per quanto ingenti, non potranno mai compensare che in piccola parte i vantaggi che i Paesi industrializzati hanno tratto dal Terzo mondo, grazie allo sfruttamento della manodopera a basso prezzo e al flusso costante di materie prime, agricole e minerarie, rapinate durante il dominio coloniale o acquistate a basso prezzo grazie alla concorrenza tra i produttori, tutti egualmente poveri e bisognosi di vendere. Sarebbe quindi doveroso che tutti i prestiti erogati venissero condonati, e che ulteriori ingenti finanziamenti a fondo perduto consentissero di affrontare finalmente in modo concreto il drammatico problema della povertà nel Terzo mondo.

Ma si tratta di un dovere morale, mentre lo stanziamento di fondi per condonare il debito è operazione politica, e quando dai discorsi di solidarietà che non costano nulla si passa ai provvedimenti concreti, i governi sono costretti a mettere da parte la sensibilità morale perché, come già si è detto, nei Paesi industrializzati non esiste ancora tra i cittadini la disponibilità ad aiutare seriamente i Pvs a liberarsi dalla povertà, dato che il farlo implicherebbe pagare più tasse oppure accettare una riduzione della spesa pubblica o un aumento del prelievo fiscale, tutti provvedimenti che ridurrebbero il tenore di vita dei cittadini. Una conferma di questa indisponibilità dei governi è venuta dal Fondo monetario e dalla Banca mondiale, che pochi giorni prima dell'inizio del vertice del G8 a Genova (luglio 2001), hanno comunicato la decisione di respingere l'ipotesi di azzeramento del debito dei Pvs verso queste due istituzioni. A Genova il vertice ha invece deciso la cancellazione totale del debito dei Pvs verso ogni singolo Stato creditore, ma si tratta di una frazione del debito complessivo, che è costituito soprattutto da prestiti delle banche private e delle due istituzioni internazionali.

7-2 - Come si è formato il debito del Terzo mondo

Tra il 1973 e il 1974 i Paesi produttori di petrolio ne quadruplicarono il prezzo , ma le loro classi politiche, anziché utilizzare l'enorme flusso di dollari che entrava nelle loro casse per avviare la modernizzazione dei sistemi economici, e per dotare finalmente i loro Paesi delle infrastrutture civili di cui ancora erano privi, preferirono depositare i ricavi nelle banche europee e nordamericane. Il perché di questa scelta, apparentemente incomprensibile, diventa chiaro se si rammenta che si trattava -e ancora oggi si tratta- di regimi dittatoriali, consapevoli che lo sviluppo dell'economia e le conseguenti trasformazioni della società farebbero sorgere movimenti politici capaci di spazzare via il loro potere. Di conseguenza le banche occidentali si trovarono a dover gestire un eccesso di liquidità proprio quando la crisi economica, provocata dall'aumento del costo del petrolio, aveva ridotto la domanda di prestiti da parte delle imprese. Pur di trovare qualcuno cui prestare il denaro, le banche si adattarono ad accettare tassi di interesse molto bassi, mentre contemporaneamente lo shock petrolifero aveva spinto in alto tutti i prezzi; l'accoppiata inflazione-bassi tassi di interesse rese particolarmente conveniente prendere denaro a prestito. Vi fu una generale corsa all'indebitamento da parte delle imprese e dei governi, e anche molti Paesi poveri si indebitarono, formalmente per promuovere lo sviluppo, mentre in realtà in moltissimi casi i prestiti vennero utilizzati per l'acquisto di armi e per arricchire i politici e i burocrati.

Nel 1979 vi fu un ulteriore balzo del prezzo del petrolio e dell'inflazione, ed a quel punto i governi dei Paesi industrializzati furono costretti a intervenire. Robusti aumenti dei tassi di interesse servirono ad attrarre capitali verso l'acquisto di titoli a reddito fisso e verso i depositi bancari, sottraendoli al finanziamento di acquisti e investimenti nel mercato reale dei beni e dei servizi, e in tal modo l'inflazione venne domata. Per tutti i debitori, imprese e governi, fu un duro colpo:

"Chi si era indebitato a tassi medi del 5 per cento si ritrovò di colpo a dover servire il debito a oltre il 20 per cento. Per i debitori meno affidabili, e i governi del Sud del mondo rientravano in questa categoria, i tassi raggiunsero e superarono anche il 30 per cento. Si immagini quale fu l'impatto su questi Paesi. I programmi di rimborso calcolati con tassi di interesse del 5 per cento ovviamente non potevano più funzionare nella nuova situazione" (R. Moro, Un mondo di strozzini, in: No global, Zelig, Milano, 2001, p. 281).

La situazione si aggravò ulteriormente a causa del forte apprezzamento del dollaro rispetto a tutte le altre valute: il dollaro costituisce infatti la valuta di riferimento per le transazioni internazionali, e i governi indebitati si trovarono a dover fare fronte non solo all'aumento dei tassi di interesse ma anche a quello del dollaro, che rendeva molto più costosa la restituzione dei prestiti, tutti denominati in dollari. Nel 1984 il governo messicano dichiarò la propria insolvenza, presto seguito dagli altri principali Paesi debitori. Per evitare l'altrimenti sicuro fallimento delle loro banche -che avevano prestato enormi somme ai Paesi insolventi- i governi occidentali si riunirono a Parigi e convocarono i singoli Paesi debitori, offrendo loro denaro (denaro pubblico) affinché potessero saldare il debito con le banche private, evitandone il fallimento; le banche occidentali furono insomma salvate a spese dei cittadini dei rispettivi Paesi. I nuovi finanziamenti vennero però concessi a patto che i Paesi beneficiari accettassero di sottoporre la politica economica al monitoraggio del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. E' soprattutto da questo momento che sono nate le critiche degli avversari del capitalismo a queste due istituzioni, al Gatt e agli altri organi internazionali, e queste critiche i no global le hanno fatte proprie. L'argomento è di estrema importanza per valutare i problemi del sottosviluppo e della povertà.

7-3 - Le decisioni dei governi rispecchiano l'indifferenza dei cittadini

Sta di fatto che il pagamento degli interessi sui debiti contratti, e il rimborso dei capitali, sottraggono allo sviluppo una parte rilevante delle risorse che dovrebbero promuoverlo, e la soluzione del problema, secondo i no global, sarebbe quella suggerita non dalla generosità ma dalla giustizia: oltre alla totale remissione dei debiti in atto dovrebbe consistere nel continuare a concedere prestiti senza interesse, o ad un interesse molto inferiore al tasso minimo di mercato, per sconfiggere la miseria e promuovere lo sviluppo. In effetti, come si è visto, una parte del debito dei Paesi più poveri viene periodicamente cancellata, tuttavia è evidente che non può essere questa la soluzione del problema, per almeno due motivi. Anzitutto la cancellazione non potrà mai diventare sistematica perché avrebbe l'effetto di demotivare ulteriormente i governanti dei Paesi debitori a fare un uso oculato dei prestiti, e inoltre suonerebbe come una beffa per i Paesi che invece, a prezzo di duri sacrifici, i prestiti li restituiscono:

"Se un governo ha perseguito politiche economiche sbagliate, i suoi componenti hanno intascato i soldi destinati allo sviluppo o li hanno investiti in armi o in progetti megalomani e ora non sono più in grado di ripagare i debiti, condonandoglieli li si incoraggerà a perseguire comportamenti non virtuosi. (...) (Il significato del condono) è devastante soprattutto per i governi che a costo di grandi sacrifici della popolazione hanno seguito le misure imposte dal Fondo monetario internazionale (in sé spesso imperfette, ma comunque migliori di quel che si faceva prima). Cosa dirà ai propri cittadini il governo della Bolivia, che ha in modo abbastanza disciplinato ingoiato l'amara medicine dell'Fmi, in presenza di un perdono generalizzato anche per chi questa medicina l'ha buttata nel lavandino?" (A. De Nicola, Invece che abolire il debito, in: No global, Zelig, Milano, 2001, p. 324-325).

Ma, soprattutto, il condono sistematico dei debiti significherebbe trasformare i prestiti in doni a carico dei Paesi finanziatori e quindi dei loro cittadini, e ciò può essere fatto soltanto in misura assai limitata, perché, come già si è ricordato, l'opinione pubblica dei Paesi sviluppati non è disposta ad accettare i sacrifici che il condono sistematico comporterebbe. Inoltre quasi tutti avvertono come impossibile l'obiettivo di sconfiggere la povertà in Paesi la cui popolazione continua a crescere.

Le critiche al Fondo monetario, alla Banca mondiale, alla Wto e al G8, vanno quindi esaminate senza dimenticare che queste istituzioni sono emanazioni dei governi, eletti dai cittadini con il primario compito di tutelare ciascuno gli interessi del proprio Paese, o, più precisamente, quegli interessi che risultano comprensibili alla maggioranza degli elettori. Non sono quindi nemmeno liberi, i politici, di perseguire quegli interessi nazionali -economici e politici- che malgrado la loro rilevanza per il futuro del proprio Paese sfuggono alla comprensione degli elettori, generalmente perché si tratta di interessi a lungo termine e quindi di non immediata evidenza per chi è digiuno di economia politica. Tanto meno i politici sono liberi di agire ispirandosi a princìpi di giustizia e di solidarietà internazionale, quando il farlo richiederebbe sacrifici non irrilevanti; ciò è dimostrato, ad esempio, dalle percentuali assolutamente irrisorie del proprio Pil che i Paesi ricchi destinano agli aiuti al Terzo mondo, incuranti di mancare alle promesse fatte in solenni incontri internazionali:

"E' ora di fare un accorato appello ai capi di Stato dei principali Paesi donatori perché sia chiaro, una volta per tutte, che gli aiuti allo sviluppo non sono un'elemosina, bensì un investimento per la pace e la sicurezza globale. Dobbiamo rammentare loro che l'attuale livello delle sovvenzioni, circa lo 0,24% del Pil annuale, è ben al di sotto del target dello 0,7% che avevano promesso di raggiungere. In termini finanziari, la differenza tra queste due percentuali equivale a circa cento miliardi di dollari all'anno, ma per milioni di bambini equivale alla differenza tra la vita e la morte" J. Wolfesohn, "La Repubblica", 19-7-01. Corsivi aggiunti).

Sono parole del presidente della Banca mondiale, rivolte ai capi del G8 in occasione dell'incontro di Genova; ma in realtà l'appello deve essere indirizzato ai popoli anziché ai capi di Stato, se si vuole evitare di compiere lo stesso errore dei no global; i governanti non sono liberi di adottare incisive misure di aiuto, perché la protesta dei cittadini provocherebbe la crescita elettorale dei partiti nazionalisti e xenofobi, ben presenti in tutti i maggiori Paesi industrializzati, che farebbero leva sulla disinformazione e sull'indifferenza impedendo comunque l'aumento degli aiuti. Sono considerazioni basate su dati di fatto indiscussi e noti a tutti, e tuttavia i no global ostinatamente non ne tengono conto. Riccardo Moro, economista e consulente della Conferenza episcopale italiana per il debito internazionale, riferendosi al nostro Paese ha scritto che

"Prendendo come esempio l'Italia, l'ammontare dei crediti vantati complessivamente supera di non molto i 30 mila miliardi di lire, poco più di quanto lo Stato ha incassato per concedere la licenza ai gestori dei telefonini (...) Si pensi che 30 mila miliardi sono circa l'1 per cento del Pil dei 60 milioni di italiani, ma corrispondono al 200 per cento del Pil dei 30 milioni di Tanzaniani. Vi è una sproporzione assurda fra la trascurabilità delle cifre per i creditori e la drammaticità della loro pesantezza per i debitori" (R. Moro, Un mondo di strozzini, in No global, Zelig, Milano, 2001, p. 278).

E' vero, la sproporzione è assurda, e un condono, forse, si può fare. Tuttavia il ragionamento di Moro trascura troppe cose importanti. Anzitutto condonare i debiti non incide sulle situazioni che li hanno generati, mentre produce le conseguenze negative appena esaminate. Inoltre non ha senso l'accostamento del condono con l'incasso per le licenze dei telefonini, come non l'avrebbe con qualsiasi altro incasso, ordinario o straordinario: semplicemente togliere 30 mila miliardi dall'attivo del bilancio dello Stato significa 30 mila miliardi in più di tasse per gli italiani, o 30 mila miliardi di spesa sociale in meno. Moro vive in Italia, e quindi sa benissimo che si tratta di una cifra pari al sacrificio imposto agli italiani da una legge finanziaria pesante: i parlamentari si scontrano in aula per spostare due o cinque mila miliardi da una posta all'altra del bilancio, e vi sono partiti che cercano i voti di quei milioni di elettori che dicono "prima di aiutare i poveri dell'Africa pensiamo a quelli di casa nostra, pensiamo ai nostri ospedali, ecc". Minimizzare i 30 mila miliardi è indice insieme di generosità e di cecità politica.

Un'altra prova della subordinazione della solidarietà agli immediati interessi nazionali è costituita dall'andamento degli investimenti e degli aiuti allo sviluppo del Terzo mondo erogati dai Paesi ricchi prima e dopo la caduta del comunismo. Nel 1990 gli investimenti diretti nei Pvs (investimenti dai quali ci si attende un profitto) ammontavano complessivamente a 20 miliardi di dollari, e gli aiuti a titolo gratuito erano di 60 miliardi di dollari. Nel 1997, tramontato il pericolo comunista, i profittevoli investimenti superavano i 160 miliardi, mentre gli aiuti scendevano a 40 miliardi:

"Non esisteva più la motivazione politica che era all'origine degli aiuti: durante la guerra fredda molti Paesi in via di sviluppo occupavano una posizione strategica, e gli aiuti erano diventati la valuta con cui si compravano fedeltà e acquiescenza. Una volta sparita la minaccia comunista, diminuirono bruscamente anche gli aiuti ai 'Paesi amic"i

(N. Hertz, La conquista silenziosa, Carocci, Roma, 2001. Corsivo aggiunto).

7-4 - A chi giova condonare il debito?

Il problema degli aiuti al Terzo mondo e del condono del debito presenta un ulteriore importante aspetto. L'indisponibilità dell'opinione pubblica occidentale a sopportare sacrifici consistenti, viene rafforzata dal fatto, noto e documentato (si vedano i par. 12 e 12-1), che le somme condonate servono in moltissimi casi ad acquistare armi, impinguare i conti dei politici e dei burocrati nelle banche estere, consentire spese inutili, mentre soltanto una piccola parte di queste somme viene effettivamente utilizzata per migliorare le condizioni di vita della popolazione e promuovere lo sviluppo. Particolarmente significative sono le testimonianze di numerosi missionari che conoscono bene il Terzo mondo: ad esempio Piero Gheddo, missionario in Africa per molti anni e che attualmente dirige l'Ufficio storico del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME), così scrive:

"Sul debito estero dei Paesi africani, ho sentito numerosi missionari in Africa pronunziarsi contro l'estinzione del debito: perché, dicono, favorisce solo i capi che già si arricchiscono sugli aiuti dall'estero e ostacola la revisione delle politiche interne dei Paesi africani che sono all'origine del debito (esempio, meno soldi ai militari e più a scuole e sanità)" (P. Gheddo, R. Beretta, Davide e Golia. I cattolici e la sfida della globalizzazione, Ed. S. Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p. 152).

Anche il grande economista Milton Friedman, uno dei massimi esperti del problema degli aiuti ai Paesi poveri, afferma che

"il Terzo mondo ha ricevuto in passato e continua a ricevere molti aiuti: ma non esiste un solo esempio di politica di aiuti che si può dire abbia avuto successo. Il motivo è che questi aiuti inviati dal Nord al Sud del mondo non sono arrivati alla gente né alla società, ma sono stati consegnati nelle mani dei governi: hanno così rafforzato regimi e dittatori che li hanno gestiti per fini propri, non davvero per favorire lo sviluppo" (M. Friedman, "La Stampa", 13-7-01. Corsivo aggiunto. Citato in: P. Gheddo, R. Beretta, Davide e Golia. I cattolici e la sfida della globalizzazione, Ed. S. Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p. 155).

1. Povertà assoluta e povertà relativa. I cittadini dei Paesi industrializzati che nascondono la loro indifferenza per la povertà del Terzo mondo dietro l'affermazione che bisogna prima aiutare i poveri del proprio Paese, possono farlo soltanto ignorando la fondamentale distinzione tra povertà assoluta e povertà relativa. La prima significa l'impossibilità di soddisfare i bisogni di base e di ricevere un minimo di istruzione e di assistenza sanitaria, ed è questa la condizione di gran parte della popolazione dei Pvs. La povertà relativa consiste invece, convenzionalmente, nel disporre di un reddito inferiore alla metà del reddito medio pro capite del proprio Paese, perciò nei Paesi che godono di un buon livello di reddito vi è comunque una povertà relativa più o meno estesa, in quasi totale assenza di povertà assoluta. Trattandosi di un dato medio, la povertà relativa è per definizione ineliminabile, perché il limite che serve a definirla si innalza al crescere del reddito del Paese. (Ciò non accadrebbe in Paesi caratterizzati da un egualitarismo molto spinto, in realtà mai praticato nemmeno nei Paesi comunisti). Ridurre la povertà relativa significa quindi ridurre le disuguaglianze all'interno di un Paese, ma ciò non ha nulla a che vedere con l'esigenza di combattere la povertà assoluta nel Terzo mondo.

2. Solidarietà e tassazione dei ceti medio-bassi. Vi sono altri tre argomenti che i cittadini dei Paesi ricchi utilizzano per giustificare la loro indifferenza alla condizione dei Pvs:

1) aiutiamoli, essi dicono, ma i soldi devono venir fuori dagli utili delle imprese e dai veri ricchi. Sembra un ragionamento equo, ma non è realistico: la globalizzazione impone in tutti i Paesi la riduzione del carico fiscale sulle imprese, che altrimenti non reggerebbero la concorrenza internazionale. Va bene invece tassare i ricchi, ma sono troppo poco numerosi, e quindi, per una solidarietà effettiva, dovrebbero essere chiamati a contribuire anche i ceti con redditi medi e medio-bassi, vale a dire la grande massa dei lavoratori dipendenti e dei lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, professionisti), che già si sentono vittime del fisco, e quindi di solidarietà con il Terzo mondo a loro spese non vogliono sentir parlare.

2) I soldi per gli aiuti si devono ottenere combattendo l'evasione fiscale.

3) I soldi per gli aiuti si devono ottenere combattendo la corruzione (che grava sui costi delle imprese); si devono eliminare gli sprechi della pubblica amministrazione.

Combattere l'evasione fiscale e la corruzione, ed eliminare gli sprechi, è sempre stato doveroso, ma con la globalizzazione più che un dovere è diventato una necessità impellente, per poter alleggerire il carico fiscale su chi le tasse le ha sempre pagate, e ridurre i costi delle imprese e il deficit pubblico. Perciò la solidarietà verso i Paesi poveri non potrà attingere nulla da queste pur indispensabili lotte. Si deve inoltre ricordare che i Paesi industrializzati, se vorranno difendere i loro attuali livelli di benessere, dovranno sempre più investire nella ricerca scientifica e nella scuola, utilizzando a questo fine anche i proventi della lotta all'evasione, alla corruzione e agli sprechi che non si ritenesse di dover impiegare per accrescere la concorrenzialità delle imprese nazionali.

7-5 - Perché è urgente affrontare il problema della povertà del Terzo mondo

I motivi che dovrebbero indurre i Paesi ricchi a praticare una solidarietà lungimirante si fanno sempre più pressanti. Vale la pena di ricordarli:

1) se alle popolazioni dei Paesi sottosviluppati non saranno garantite condizioni di vita tollerabili, i flussi migratori verso i Paesi industrializzati (arrestabili con difficoltà date le crescenti dimensioni del fenomeno) potrebbero avere effetti sconvolgenti sul tessuto economico, sociale e politico dei Paesi ospiti, oppure costringerli a drastiche misure di difesa.

2) Inoltre, se non verranno stipulati accordi di sostegno allo sviluppo del turismo e alla tutela dell'ambiente (come alternative ad una estesa industrializzazione), le esigenze dello sviluppo imporranno a questi Paesi sia l'utilizzo di fonti energetiche a basso costo e molto inquinanti, sia un ipersfruttamento delle risorse naturali; le conseguenze per l'ecosistema del pianeta sarebbero molto gravi.

3) Infine la miseria del Terzo mondo, pur non essendo la causa del terrorismo, lo rende popolare tra le masse, e quindi indirettamente lo favorisce.

8 - LE CRITICHE ALLA WTO

Lo scopo principale della Wto è quello di promuovere accordi fra i Paesi partecipanti per ridurre o eliminare gli ostacoli, diretti e indiretti, allo sviluppo del commercio internazionale. Gli ostacoli diretti sono di due tipi: barriere tariffarie, che proteggono le imprese nazionali dai prodotti importati, e sovvenzioni alle imprese nazionali (erogate in diverse forme: facilitazioni fiscali, prestiti a tasso agevolato, sussidi o crediti alle esportazioni). Gli ostacoli indiretti sono costituiti da particolari normative di singoli Paesi, aventi la funzione di barriere doganali mascherate (vengono infatti denominate "barriere non tariffarie"); molto spesso il loro scopo non è quello dichiarato di proteggere la salute o la sicurezza dei cittadini, ma di impedire l'importazione di prodotti stranieri per sostenere le imprese nazionali. La Wto si propone inoltre di liberalizzare i mercati dei servizi (banche, assicurazioni, telecomunicazioni, trasporti aerei e marittimi, sanità, istruzione), eliminando i divieti che impediscono alle imprese di un Paese di operare all'estero. Periodicamente i rappresentanti dei Paesi aderenti si riuniscono per cicli di trattative che durano diversi anni, e così sarà anche per il ciclo che ha avuto inizio a Seattle nel novembre 1999, denominato Millennium Round.

Il successo della Wto nel promuovere l'incremento della produzione mediante l'abbattimento delle barriere doganali è testimoniato da alcune cifre eloquenti: nel campo dei prodotti industriali, dove gli accordi attuati nell'ambito della Wto hanno ridotto il livello medio dei dazi dal 40 o 50 per cento dell'inizio anni Cinquanta all'attuale 4 per cento circa, il volume degli scambi è aumentato di quarantacinque volte. Nell'agricoltura invece, dove il livello medio dei dazi è rimasto pressoché invariato, l'interscambio si è soltanto sestuplicato.

A Seattle si doveva soprattutto mettere a punto, a grandi linee, l'agenda del ciclo, individuando i temi sui quali discutere nei successivi incontri per giungere ad accordi operativi, ma già da tempo era stata prevista l'impossibilità di pervenire a conclusioni soddisfacenti, perché nulla di importante si poteva decidere senza l'accordo degli Stati Uniti, e poiché il presidente Clinton non poteva essere rieletto, i rappresentanti del governo americano non erano in grado di assumere impegni significativi prima dell'entrata in carica del nuovo presidente. Tuttavia, indipendentemente da questo ostacolo contingente, ciò che a Seattle ha portato alla rottura, e che ancora per molti anni, forse per decenni, continuerà ad essere al centro delle trattative commerciali, è l'eterna questione del protezionismo. A proposito di questa rottura, nel par. 48 riferiremo alcuni fatti e alcune dichiarazioni di importanti uomini politici -precedenti la conferenza di Seattle e il cui significato non è stato messo in rilievo dai media- che mostrano come effettivamente la conferenza sia fallita non a causa delle dimostrazioni dei no global, ma perché le imprese minacciate dalla esportazioni dei Pvs, e naturalmente i sindacati, d'accordo con i politici e grazie alla connivenza dei media, sono riusciti ad utilizzare i dimostranti per difendere il protezionismo dei Paesi ricchi a danno dei popoli del Terzo mondo.

Abbiamo suddiviso le critiche alla Wto in quattro gruppi: obblighi e divieti, errori e ingiustizie, questioni legate ai brevetti, disinteresse per i problemi del lavoro e dell'ambiente.

8-1 - Obblighi e divieti

1- La Wto stabilisce le caratteristiche che i beni devono possedere per tutelare la salute e la sicurezza dei consumatori e degli utenti. Ad esempio, può stabilire i limiti di tolleranza per gli ormoni contenuti nelle carni, i limiti per ogni tipo di additivi o di residui nocivi contenuti in ciascun tipo di alimenti, e può indicare determinati requisiti tecnici che certi prodotti devono possedere per non costituire un pericolo per chi li usa, e così via. Naturalmente qualsiasi Paese è libero di decidere una maggiore o minore tutela della salute e della sicurezza dei propri cittadini, riducendo o aumentando ulteriormente, ad esempio, la quantità di ormoni tollerata rispetto ai limiti fissati dai regolamenti della Wto, tuttavia le normative particolari possono essere applicate soltanto alle produzioni nazionali, ma non possono valere per impedire le importazioni di prodotti che a queste normative non si adeguino (purché naturalmente rispettino quelle stabilite dalla Wto). Se il Paese, dopo essere stato richiamato, rifiuta di abolire i divieti di importazione, diventa oggetto di ritorsioni, consistenti soprattutto in blocchi parziali o totali delle sue esportazioni verso i Paesi danneggiati dai suoi divieti. Questo fatto solleva fondate proteste, perché l'obbligo di rispettare gli accordi della Wto, rendendo molto onerosa per un Paese la decisione di accrescere ulteriormente la tutela della salute e della sicurezza dei propri cittadini oltre i limiti stabiliti dagli accordi stessi, si traduce in una effettiva cessione di sovranità in materie molto delicate. Naturalmente il Paese che persegue una maggiore sicurezza può cercare di dimostrare, ad esempio, che la presenza di una certa sostanza negli alimenti, nella quantità tollerata dagli accordi Wto, provoca danni alla salute, ma l'acquisizione di prove oggettive generalmente richiede lunghe e costose ricerche, e nel frattempo i divieti di importazione continuano ad essere sanzionati. In sintesi, scopo della Wto è lo sviluppo del commercio, e la tutela della salute e della sicurezza deve sottostare ai compromessi negoziati negli accordi, per evitare che venga utilizzata come barriera protezionistica.

2- Questi accordi suscitano critiche anche perché, allo scopo di promuovere l'efficienza stimolando la concorrenza, vietano a tutti i Paesi aderenti ogni forma di sussidio, diretto o indiretto (crediti agevolati, facilitazioni fiscali) a determinati settori economici (ad esempio l'olivicoltura), a specifiche aree territoriali (ad esempio il Meridione d'Italia), o a particolari tipologie di imprese (ad esempio le piccole e piccolissime imprese). In tal modo si impedisce ai governi di utilizzare il credito e il fisco per agevolare la nascita di nuove imprese, o per evitare la chiusura di quelle esistenti, e in alcuni casi si favorisce indirettamente l'espansione dei grandi gruppi nazionali e delle multinazionali.

3- Tra gli aspetti negativi degli accordi vi è il divieto, per i Paesi ricchi, di concedere particolari facilitazioni commerciali ai Paesi più poveri; infatti, in base al "principio della nazione più favorita", un Paese membro dalla Wto deve trattare tutti gli altri con gli stessi criteri, e le facilitazioni concesse a qualcuno devono essere estese a tutti. Una applicazione di questo principio di cui si è molto parlato si è avuta nel 1999: gli Stati Uniti sono stati autorizzati ad accrescere i dazi sull'importazione di una serie di prodotti dai Paesi dell'Unione europea, per compensare i sistematici acquisti a prezzi di favore di banane africane e caraibiche da parte dell'Unione, acquisti che naturalmente danneggiano gli esportatori americani.

4- E' oggetto di critiche anche il divieto, per i Paesi aderenti agli accordi della Wto, di imporre alle imprese straniere alcuni obblighi e divieti valutari e commerciali, utili per l'economia del Paese in cui esse operano, ma che renderebbero meno profittevoli gli investimenti stranieri. Questo divieto, secondo i critici, danneggerebbe soprattutto i Pvs, ai quali, ad esempio, gioverebbe impedire alle imprese straniere di esportare i profitti realizzati, obbligandole invece a reinvestirli nel Paese in cui sono stati realizzati; ed egualmente gioverebbe impedire a queste imprese di rifornirsi all'estero di merci prodotte anche nel Paese in cui operano. Tuttavia il divieto della Wto di imporre questi obblighi agli investitori stranieri, solo apparentemente danneggia i Pvs: in realtà si tratta di un divieto superfluo, perché nessun Paese povero può sperare di liberarsi dalla sua condizione senza un consistente e continuativo afflusso di capitali dall'estero, e vi è quindi tra i Pvs una esplicita gara a chi offre agli investitori le migliori condizioni di redditività, gara che progressivamente si va estendendo ai Paesi industrializzati, bisognosi anch'essi, per ridurre la disoccupazione, di ricevere investimenti stranieri.

5- Va sottolineato che la rigidità con la quale gli obblighi e i divieti di ogni genere vengono imposti è inevitabile: senza questa rigidità priva di deroghe ciascun governo potrebbe favorire in molti modi le imprese nazionali, impedendo in parte le esportazioni degli altri Paesi; naturalmente ciò indurrebbe gli altri governi a fare altrettanto, e il risultato sarebbe un generale ripristino del protezionismo, praticato surrettiziamente, anche senza ricorrere alle tariffe doganali.

8-1.1 - I pericoli del protezionismo

L'aumento delle tariffe sulle importazioni e i sussidi alle imprese nazionali (in cui il protezionismo consiste) farebbe aumentare la produzione interna a scapito dei prodotti esteri, incrementando l'occupazione, ma i Paesi danneggiati chiuderebbero a loro volta le porte alle esportazioni del Paese protezionista, e i danni supererebbero i vantaggi. Il protezionismo è causa di inefficienze produttive, inevitabili dove manca la concorrenza: sprechi, mancanza di stimoli all'innovazione, prezzi elevati; è un dato di fatto che i Pvs che hanno maggiormente ricuperato il divario da quelli economicamente più avanzati sono quelli che hanno accettato la sfida della concorrenza internazionale. Il protezionismo è una misura che non conviene più adottare negli odierni sistemi economici complessi, che assicurano prosperità soltanto se non vi sono barriere all'interscambio. Più in generale, quando i governi -per proteggere i mercati interni e quindi l'occupazione nei periodi di crisi economica- hanno scelto la via facile del protezionismo, la situazione si è sempre aggravata, determinando in numerosi Paesi recessioni a catena e guerre commerciali, che hanno sensibilmente ridotto il commercio internazionale e quindi la produzione e l'occupazione; l'esempio più rilevante è costituito dal precipitare della grande crisi negli anni '30, provocato dalle misure protezionistiche adottate ovunque per tutelare le economie nazionali.

Inoltre il protezionismo non significa soltanto impoverimento, nel tempo, del Paese che lo pratica: per poter funzionare esige minuziosi controlli, diffonde un clima di sospetto, richiede un forte aumento del potere burocratico, stimola il contrabbando e la corruzione, e conduce inevitabilmente a una limitazione delle libertà democratiche. La libertà e la democrazia sono nate insieme alla libertà economica; il protezionismo, per ridurre quest'ultima, è costretto a comprimere le altre due.

8-2 - Errori e ingiustizie

Il secondo gruppo di critiche riguarda le decisioni delle commissioni di esperti nominati dalla Wto, che hanno il compito di dirimere le numerose questioni che continuamente sorgono tra i diversi Paesi relativamente all'applicazione degli accordi. Alcune volte queste decisioni si rivelano errate, oppure, più o meno scopertamente, sono ingiuste e sbilanciate a favore degli interessi dei Paesi maggiori e delle multinazionali che in essi hanno sede. Questo accade sia perché ai Paesi poveri spesso mancano le risorse tecniche e finanziarie necessarie per difendere con successo le politiche contestate presso il tribunale della Wto a Ginevra, sia perché è poco realistico (anche se sarebbe giusto) pretendere da queste commissioni l'infallibilità ed una assoluta autonomia di giudizio. Gli errori della Wto, come quelli del Fondo monetario, della Banca mondiale, e delle altre istituzioni economiche e politiche internazionali, sono inevitabili, ed è altrettanto inevitabile che i Paesi che hanno maggior peso economico ne approfittino facendo valere i loro interessi e quelli delle loro imprese. Proprio per questo è indispensabile che la critica politica, come quella che continua a svolgere il movimento no global, metta in risalto gli errori, i cedimenti e le ingiustizie di tutte le istituzioni internazionali; non sarà mai abbastanza sottolineata l'importanza del controllo su chi esercita una qualsiasi forma di potere. Tuttavia il criterio di giudizio sulla Wto, sul Fondo monetario e sulle altre istituzioni, non deve basarsi soltanto su questi inevitabili aspetti negativi: ci si deve invece domandare se, complessivamente, i loro interventi giovino ai Paesi che ne sono oggetto, e se contribuiscano in modo efficace alla crescita dell'economia mondiale e del benessere per un numero crescente di persone. Stando ai dati citati nel par. 4, che nessuno contesta, la risposta non può che essere positiva. Del resto gli stessi problemi sorgono anche all'interno di qualsiasi Paese: nemmeno le istituzioni o gli uomini politici più stimati vanno esenti da errori e cedimenti a interessi non dichiarabili (salvo naturalmente rare eccezioni). Anche in questi casi si deve dare una valutazione complessiva della loro attività, ed egualmente la denuncia e la critica hanno un ruolo importantissimo nel ridurre la frequenza dei comportamenti negativi. E' in questa possibilità di denunciare pubblicamente le violazioni della legge (o del naturale senso di giustizia, anche quando nessuna legge viene infranta) che la democrazia mostra la sua superiorità su tutte le altre forme di governo.

Va segnalato che nel dicembre 2003 il governo americano ha revocato i dazi imposti sull'acciaio venti mesi prima; il fatto è stato generalmente interpretato come un successo della Wto, che aveva condannato i dazi senza piegarsi all'interesse del Paese più forte. Autorizzata da quella condanna, la Commissione europea stava per varare a sua volta dazi punitivi contro il "made in Usa": la minacciata ritorsione avrebbe costretto gli Stati Uniti a fare marcia indietro. Vi è tuttavia chi, più maliziosamente, ritiene che la revoca sia stata determinata soprattutto dalle proteste delle industrie americane consumatrici di acciaio, che a causa dei dazi sugli acciai importati subivano consistenti aumenti dei costi.

Si deve anche respingere un'argomentazione avversa alla Wto fondata sull'esempio della Cina, la cui economia continua a crescere a ritmi sostenuti; secondo alcuni questa crescita sarebbe dovuto al fatto che, finora, la Cina non faceva parte della Wto (il suo ingresso è stato deciso nel novembre 2001), e quindi il suo governo era libero di controllare gli investimenti e i flussi finanziari, e poteva regolare l'importazione di molti prodotti agricoli e industriali, garantendo un'ampia protezione all'economia nazionale. L'argomento è errato per almeno due ragioni: anzitutto l'economia cinese cresce velocemente anche perché la Cina ha decisamente frenato l'incremento demografico, e può quindi destinare interamente allo sviluppo le nuove risorse; inoltre la Cina ha premuto a lungo per entrare a far parte della Wto, dimostrando in tal modo l'assurdità delle tesi dei no global, secondo i quali il mercato globale, e la Wto che ne promuove l'estensione, sarebbero gli strumenti del grande capitale del quale accrescerebbero i profitti impoverendo il Terzo mondo. Va notato che la Cina ha fatto la sua scelta pur sapendo che la graduale riduzione delle tariffe doganali che dovrà praticare metterà fuori mercato 15 milioni di piccole imprese agricole e industriali cinesi, creando decine di milioni di nuovi disoccupati che andranno ad aggiungersi ai 150 milioni attuali.

8-3 - La questione dei brevetti

Il terzo gruppo di critiche è relativo alla questione dei brevetti. La Wto, oltre che dell'incremento dei commerci, si occupa della tutela della proprietà intellettuale: gli Ipr (Intellectual property rights) regolano i diritti sulla proprietà e la tutela legale delle scoperte scientifiche, delle innovazioni tecnologiche e produttive, degli strumenti di mercato (logo e marchi d'impresa), delle creazioni artistiche (romanzi, musiche, film). Scopo della brevettabilità delle opere dell'ingegno è quello di promuovere le innovazioni in campo scientifico, tecnologico, industriale, commerciale e artistico: ciò richiede la remunerazione di chi, individuo o impresa, ha creato qualcosa di nuovo, a volte dedicandovi anni di ricerche o investendovi grandi capitali e correndo il rischio di non produrre nulla di vendibile sul mercato. Gli accordi su questi temi istituiscono i diritti di proprietà applicabili a livello mondiale, e impongono ai 144 Paesi membri della Wto di emanare normative giuridiche nazionali che facciano rispettare questi diritti. La critica dei no-global è relativa soprattutto alla brevettabilità dei farmaci degli organismi viventi (animali e vegetali) ottenuti mediante modificazioni genetiche; quest'ultima critica si fonda sulla considerazione che i geni sono prodotti della natura e non dell'uomo, e quindi tutto ciò che da essi si ottiene deve restare gratuitamente a disposizione di tutti. Si dimentica che anche l'acqua è un prodotto della natura, ma se non si ha la fonte sotto casa è necessario pagare i costi dell'acquedotto, oppure dell'imbottigliamento e del trasporto a domicilio. Quando si è individuato una pianta o un animale con un carattere che si vorrebbe conferire a un'altra specie, e non si è raggiunto lo scopo con le tradizionali tecniche di ibridazione o di incrocio, le nuove tecnologie biologiche cercano di scoprire il gene responsabile di quel carattere, isolandolo nell'enorme complessità del genoma, e in seguito tentano di prelevarlo e trasferirlo. Tutto ciò può richiedere ricerche che durano anni e grandi investimenti, sempre con il rischio di non approdare a nulla. La non brevettabilità potrebbe essere invocata per i prodotti della ricerca finanziata con fondi pubblici, nazionali o internazionali, ma è evidente che la sua estensione ai risultati della ricerca delle imprese private significherebbe semplicemente la fine di questa ricerca, e i traguardi delle biotecnologie verrebbero raggiunti con anni di ritardo, a causa di un fatto che non viene quasi mai ricordato. Uno dei fenomeni che maggiormente caratterizzano la nostra epoca rispetto a tutte le età precedenti è l'enorme espansione della ricerca scientifica in tutti i settori, dall'astronomia alla fisica delle particelle. In alcuni settori la ricerca è necessariamente pubblica, a causa del confronto tra la grandezza del rischio e dei capitali da investire con le probabilità di ottenere profitti adeguati. Ma i fondi pubblici, anche nei Paesi più ricchi, hanno limiti insuperabili, tanto che attualmente meno del 20 per cento della ricerca biotecnologica mondiale è finanziata dai governi; è perciò indispensabile incoraggiare con i brevetti la ricerca privata in quei settori nei quali la prospettiva di ricavare un profitto appare più realistica. Tra questi, due dei più promettenti sono proprio quello farmacologico e quello biotecnologico, nei quali sono nate (e continuano a nascere in tutto il mondo ma soprattutto negli Stati Uniti) centinaia di imprese di ogni dimensione, ognuna delle quali effettua ricerca pura o ricerca applicativa esplorando a fondo qualcuna delle infinite possibilità che continuamente si aprono nell'orizzonte di queste scienze. Quando una di queste imprese scopre un filone promettente, cerca investitori disposti a rischiare, e se non li trova cede la sua scoperta a qualcuna delle imprese giganti. Eliminando la brevettabilità dei risultati questo enorme lavoro non verrebbe effettuato da nessuno, perciò l'opposizione ai brevetti non solo è insensata, ma, se mai dovesse ottenere successo, nel corso degli anni condannerebbe alla sofferenza, e in molti casi alla morte, centinaia di milioni di persone che invece l'accelerazione della ricerca potrebbe salvare.

Vi sono però altre questioni relativamente alla quali le critiche alla Wto sono pienamente giustificate. Succede che venga brevettato un seme che è il risultato non degli studi e delle tecniche di qualche impresa, ma di ibridazioni praticate, a volte da tempo immemorabile, da qualche popolazione contadina, e del quale un'impresa multinazionale si è appropriata (eventualmente introducendovi irrilevanti modifiche). In questo caso è intollerabile che l'impresa tragga profitto dalla commercializzazione del seme senza alcun compenso per la popolazione e per il Paese che ne erano i custodi. La stessa cosa accade per la brevettazione di farmaci la cui formula è stata "rubata" da qualche grande impresa farmaceutica alla popolazione che la custodiva. Le popolazioni depositarie di questi saperi tradizionali dovrebbero essere loro ad ottenere i brevetti, ma ciò comporterebbe spese e pratiche burocratiche che dissuadono le collettività e i governi dotati di scarsi mezzi economici e privi di organizzazione. Qui non è in gioco l'incentivazione della ricerca privata, e quindi si tratta di uno dei casi in cui ingiustamente prevalgono gli interessi delle multinazionali. Per sanare queste ingiustizie la Convenzione di Rio sulla diversità biologica (1992) ha stabilito l'obbligo di compensare i "proprietari di biodiversità", ma le modalità di questo compenso non sono state ancora chiaramente definite. E' preciso dovere dei governi e della Wto porre fine a quelle che i contestatori definiscono con ragione vere e proprie rapine.

Vi è inoltre il problema dell'eccessivo sfruttamento delle posizioni di monopolio o di oligopolio realizzato dalle imprese titolari di brevetti, sfruttamento finora non ostacolato dalla Wto; ad esempio

"negli Stati Uniti, Monsanto, Dupont, Novartis e Stoneville controllano il 65 per cento delle sementidi granoturco e l'84 per cento di quelle del cotone. Gli autori dell'azione antitrust sostengono che queste sementi di fatto non vengono vendute ma letteralmente affittate ai produttori, che possono adoperarle soltanto per il periodo convenuto; gli ispettori delle società effettuano controlli e comminano multe ai trasgressori. Alcuni di questi semi producono piante sterili, i cui semi, quindi, non recano frutto" (M. Deaglio, Un capitalismo bello e pericoloso, Guerini e Associati, Milano, 2000, pp. 74-75).

Nel brano citato vanno distinte due diverse questioni. Nel caso delle sementi sterili, queste andavano ricomprate ogni anno: si trattava di un insopportabile abuso che aveva sollevato forti proteste anche da parte dei governi; inoltre esisteva la possibilità che il polline di queste varietà potesse infettare e rendere sterili i semi di altre piantagioni. La Monsanto, detentrice del brevetto, ha infine cessato la produzione di queste sementi. Quando invece un'impresa crea, grazie alle sue ricerche, un nuovo tipo di seme dotato di caratteri positivi (tale che gli agricoltori lo preferiscono agli altri semi disponibili), in qualche modo il rischio sostenuto e i capitali investiti devono essere rimunerati, e il cosiddetto affitto non è affatto una pratica scandalosa. Ad esempio, relativamente alla coltivazione di soia transgenica che permette l'uso di un efficace erbicida (prodotto dalla stessa impresa che produce il seme),

"il sistema di commercializzazione consiste nel fatto che l'agricoltore paga separatamente le sementi e l'innovazione tecnologica, quest'ultima sotto forma di un canone di licenza. Approssimativamente il controllo delle infestanti nelle coltivazioni della soia con metodi tradizionali ha un costo di 60 $/ha, mentre, pagando un canone di 15$/ha per l'utilizzo del seme transgenico resistente all'erbicida, il costo del controllo può essere ridotto a 30 $/ha" (F. Olmedo, La terza rivoluzione verde, Il Sole 24 Ore, Milano, 2000, p. 144).

I no-global denunciano queste pratiche come monopoliste, ma in realtà nulla vieta che qualche altra impresa produca sementi ed erbicidi altrettanto efficaci e a minor prezzo.

Resta comunque il fatto che in numerose situazioni si ravvisano abusi, e, come sostengono i critici, è dovere della Wto e dei governi intervenire, a tutela degli agricoltori e dei consumatori, bilanciando il necessario stimolo alla ricerca con l'esigenza della massima socializzazione dei vantaggi di ogni nuova scoperta, in qualsiasi campo.

8-3.1 - I brevetti sui farmaci

Il problema della brevettabilità dei farmaci ha sempre sollevato vivaci discussioni. Anche in questo caso i costi delle ricerche sono altissimi, e soltanto una piccola parte di esse dà origine a qualcosa di vendibile sul mercato; valgono quindi anche per i farmaci le considerazioni precedenti. Le discussioni si sono riaperte nel 2001 per il processo intentato dalle multinazionali farmaceutiche al governo del Sudafrica, il quale intendeva scavalcare i brevetti importando da una impresa "pirata" indiana, o producendo in proprio, i costosissimi farmaci anti-Aids. Di fronte alle dimensioni apocalittiche della diffusione dell'Aids in Africa -diffusione che costituisce una grave minaccia per tutto il mondo- sono giunte da ogni parte dichiarazioni di solidarietà con il governo sudafricano. La questione presenta diversi aspetti:

1- il prezzo di ogni nuovo farmaco viene calcolato dall'impresa che lo produce tenendo conto del bacino di utenti nel quale presumibilmente il farmaco verrà commercializzato. Il prezzo dei farmaci anti-Aids non era ovviamente stato calcolato prevedendo la sua diffusione nei Paesi poveri del Terzo mondo. Se l'utenza si allarga, è doveroso che in quei Paesi venga distribuito a prezzo di costo. Ed infatti le multinazionali hanno ritirato la contestazione, e nella riunione della Wto a Doha, nel novembre 2001, pur confermando la brevettabilità dei farmaci sono state previste eccezioni per i casi di "emergenza sanitaria", come appunto è quello dell'Africa, determinati da Aids, tubercolosi, malaria e altre malattie epidemiche. E' stata autorizzata la creazione di un mercato parallelo dei farmaci, ceduti a prezzo di costo dalle imprese titolari dei brevetti o da imprese del Terzo mondo autorizzare a produrli. Resta tuttavia il problema di evitare le speculazioni rese possibili dal forte divario tra i due prezzi: ad esempio in Senegal il responsabile dell'importazione dei farmaci anti-Aids a prezzo di costo ne riesportava in Francia il sessanta per cento, naturalmente ai prezzi europei (M. Colombo, medico che da anni opera in Angola e Mozambico, intervistato da M. Pirani, "La Repubblica", 30-7-01).

2- Anche la riduzione al prezzo di costo sarebbe comunque insufficiente a rendere accessibile i farmaci alle decine di milioni di ammalati poveri, cittadini di Paesi egualmente poveri. L'unica soluzione sensata è quella adottata dal contestato vertice del G8 a Genova: un contributo dei Paesi ricchi per rendere il farmaco disponibile a tutti. Tuttavia il finanziamento deciso è assolutamente inadeguato alle dimensioni del problema: la richiesta del segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan era di almeno 7 miliardi di dollari all'anno, mentre ne sono stati stanziati soltanto 1,2 miliardi e per una sola volta. (L'ammontare è salito a 2 miliardi con il contributo di altri Paesi industrializzati). Abbiamo già esaminato il motivo di questa insufficienza: qualsiasi aiuto gratuito al Terzo mondo non può superare i limiti, per il momento molto ristretti, dettati dalla sostanziale indifferenza di una forte maggioranza di cittadini dei Paesi ricchi.

3- La richiesta dei no-global di abolire i brevetti su tutti i farmaci (essi parlano della "sporca guerra tra profitti e salute"), se venisse adottata cancellerebbe di colpo tutta la ricerca privata, e le conseguenze si ritorcerebbero contro la salute dell'intera umanità

4- Il problema dell'Aids in Africa e nei Paesi poveri presenta un ulteriore aspetto, che i media, colpevolmente, non hanno sufficientemente messo in evidenza, e che è molto più difficile da superare di quello del costo dei farmaci:

"Pensare di poter gestire l'applicazione dei nuovi farmaci antiretrovirali, oggi è assolutamente irreale. La somministrazione di questi farmaci va personalizzata con analisi e monitoraggi permanenti e continuativi per tutta la vita del paziente. Per farlo occorre un sistema terapeutico sofisticatissimo, una rete di laboratori di diagnostica molecolare e immunologica tecnologicamente all'avanguardia di cui allo stato attuale non vi è traccia, e migliaia di tecnici ancora da formare" .

Nei Paesi poveri manca tutto ciò che serve per condurre una vita tollerabile, e crearlo richiederebbe, oltre a stanziamenti adeguati, una radicale trasformazione del sistema sanitario, dell'istruzione, dell'intera vita civile. Tutte cose la cui realizzazione appare ancora molto lontana.

8-4 - Il disinteresse per i problemi del lavoro e dell'ambiente

Infine la Wto viene criticata perché si disinteressa di problemi dei quali in realtà non può e non deve occuparsi. I suoi compiti istituzionali non riguardano i salari, le condizioni di lavoro, lo sfruttamento della manodopera e la tutela dell'ambiente. Questo disinteresse viene interpretato dai critici della Wto come prova definitiva del suo asservimento alle multinazionali dei Paesi occidentali, ma in realtà la Wto non può disciplinare queste materie perché lo sfruttamento della forza lavoro e delle risorse ambientali sono le uniche possibilità di cui il Terzo mondo dispone per liberarsi dalla miseria. Si tratta di un fatto evidente, doloroso ma inevitabile: anche nei Paesi oggi industrializzati (in tutti, nessuno escluso), l'originaria accumulazione di capitale che ha dato avvio allo sviluppo è avvenuta grazie all'estremo sfruttamento delle risorse naturali e degli operai, dei contadini, dei bambini e delle donne. I sindacati, gli intellettuali critici, le organizzazioni umanitarie, gli amici del Terzo mondo, il movimento no global, sostengono invece che la Wto e i governi occidentali dovrebbero costringere i Pvs a mutare le loro leggi, pur sapendo benissimo che se davvero dovessero adeguarsi alle normative occidentali, l'aumento dei costi di produzione farebbe cessare la convenienza degli investimenti, e quindi si arresterebbe quel flusso di capitali esteri in assenza del quale nessun Paese povero è in grado di avviare il decollo economico. Queste critiche alla Wto non soltanto sono prive di fondamento, ma vengono apertamente denunciate come ipocrite, sia dai governanti che dai lavoratori dei Pvs, che si oppongono fermamente all'inclusione negli accordi della Wto di qualsiasi norma relativa ai salari, alle condizioni di lavoro e all'ambiente.

8-5 - Conclusioni sulla Wto

In sintesi, far parte della Wto significa accettare gravi limitazioni alle politiche nazionali. Il raggiungimento di obiettivi importanti, quali la salute dei cittadini, la tutela dei lavoratori, la salvaguardia dell'ambiente, lo sviluppo di particolari iniziative economiche nazionali, viene a volte impedito dagli accordi della Wto, e quindi molte delle critiche dei no-global sono pienamente giustificate. Tuttavia l'adesione a questi accordi non è ovviamente obbligatoria, e ogni Paese valuta i vantaggi e i costi: il vantaggio di poter esportare in tutti i Paesi facenti parte dell'Organizzazione subendo tariffe doganali ridotte è talmente consistente da non avere finora indotto alcun Paese a ritirare la propria adesione, perché ciò significherebbe autoescludersi dal mercato mondiale, ridurre le esportazioni, e quindi impoverirsi. Un secondo vantaggio è costituito dall'aumento degli investimenti esteri che si verifica quando gli investitori sanno di non dover temere sorprese dalla legislazione interna, che è sottoposta ai vincoli di un accordo internazionale garantito dalle sanzioni commerciali che la Wto può imporre ai Paesi che non lo rispettano.

Che le cose stiano in questi termini è dimostrato dal fatto che tutti i Paesi non ancora facenti parte della Wto cercano di adeguarsi rapidamente ai parametri economici e finanziari che è necessario rispettare per esservi ammessi, mentre non ne escono nemmeno i Paesi maggiormente danneggiati da qualche ingiusta decisione delle commissioni.

Nella riunione della Wto a Doha (novembre 2001) si era riaffermata la necessità dei brevetti, prevedendo però eccezioni per casi come quello dell'Africa; la Cina aveva fatto il suo ingresso nella Wto e si era prospettata la futura adesione anche della Russia; ma soprattutto era stato deciso un nuovo ciclo di negoziati della durata prevista di tre anni, con inizio nel 2002, ed i Paesi ricchi si erano impegnati ad una progressiva riduzione dei sussidi all'agricoltura, che sono una delle principali cause dell'impoverimento dei Pvs; ma il primo incontro plenario tenutosi a Cancun nel settembre 2003 si è concluso con un fallimento. Europa e Stati Uniti intendono subordinare la riduzione del protezionismo agricolo ad una maggiore apertura agli investimenti occidentali nei Pvs, i quali invece, guidati dai giganti Cina, India e Brasile,

"vogliono aprirsi con gradualità, smantellando le barriere solo dopo aver aiutato l'industria nazionale a irrobustirsi per competere con noi. E' una visione asimmetrica della liberalizzazione, in cui loro vogliono mantenere qualche forma di protezionismo più a lungo di noi. Piaccia o no, storicamente questo fu il metodo seguito dai Paesi che hanno avuto una industrializzazione tardiva: la Germania dell'Ottocento quando volle emulare un'Inghilterra più forte, l'Italia fra le due guerre, il Giappone negli anni Cinquanta, la Corea negli anni Settanta, tutti hanno usato forme di protezionismo per inseguire e raggiungere chi era più avanti di loro" (F. Rampini, "La Repubblica", 16-9-03).

Sono stati soprattutto gli europei ad irrigidirsi sull'apertura dei Pvs agli investimenti, ed è molto probabile che lo abbiano fatto perché, al di là degli scopi ufficiali, non avevano alcuna intenzione di ridurre significativamente il protezionismo agricolo, che richiederebbe una completa revisione della politica agricola dell'Unione europea, già negoziata e decisa tra i quindici Paesi che ne fanno parte in vista del prossimo allargamento a venticinque.

Si tratta dell'ennesima dimostrazione del fatto che nei rapporti internazionali non esiste solidarietà: ogni Paese segue una linea dettata dal calcolo dei propri interessi. Naturalmente anche i governi possono sbagliare se non tengono sufficientemente conto dei calcoli degli altri Paesi e della loro forza (economica, finanziaria, diplomatica, militare). Secondo Ernesto Zedillo, direttore del Centro di studio della globalizzazione dell'università di Yale,

"i Paesi in via di sviluppo hanno giustamente resistito alla combutta tra Europa e Stati Uniti, ma questa resterà una vittoria di Pirro se questi Paesi continueranno a vedere il round di negoziati solo come un'occasione per ottenere più concessioni possibile senza doversi ulteriormente aprire agli scambi internazionali. Danneggeranno gravemente le proprie prospettive di sviluppo se continueranno a cercare di ottenere esenzioni dagli obblighi della Wto invece di garantire un accesso più libero a tutti i mercati internazionali" (E. Zedillo, "La Stampa", 27-12-03).

La Wto ha finora complessivamente ottenuto risultati di grandissima importanza; il fallimento di Cancun ha però segnalato che un'ulteriore riduzione del protezionismo sta incontrando gravi difficoltà, e non si può nemmeno escludere un suo rinnovato intensificarsi.