INVITO ALLA LETTURA DI DORIS LESSING


di prof. Francesco Pettinari


Walter Benjamin, una delle maggiori figure di pensatore della modernità che ci ha lasciato il Novecento, in un saggio dedicato alla figura del narratore, comincia la sua argomentazione dichiarando che “l’arte di narrare si avvia al tramonto” e precisa la propria diagnosi con questa motivazione: “E’ come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze (…) Una causa di questo fenomeno è evidente: le azioni dell’esperienza sono cadute. E si direbbe che continuino a cadere senza fondo”.

Che cosa narrare dopo un evento come la Grande Guerra? Questo era il quesito attorno al quale ruotava la riflessione di Benjamin? E che cosa elevare a materia narrativa oggi?, possiamo chiederci noi spettatori di un mondo globalizzato e di un flusso informatico che vediamo scorrere incessantemente davanti ai nostri occhi, a una rapidità vorticosa. Che cosa fermare in questo continuum? E, soprattutto, siamo ancora in grado, noi, di fermarci? Siamo ancora capaci di scegliere, di selezionare nell’oceano informatico in cui navighiamo i fatti che meritano attenzione, cura, arresto? O è più comodo che a scegliere per noi siano altri, coloro che curano il flusso e in particolare che regolano il monitoraggio della nostra attenzione? E nel nostro quotidiano, in quello che è il nostro spazio di vissuto, quale consapevolezza abbiamo del nostro fare esperienza? Non c’è dubbio che uno dei compiti della narrazione sia quello di guidare il lettore a una maggiore capacità di consapevolezza rispetto al proprio essere nel mondo e, di conseguenza, a sapersi orientare all’interno del proprio bagaglio esperienziale.

Doris Lessing, alla veneranda età di ottantotto anni, ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura 2007. Nonostante il conferimento di questo premio, tra i più prestigiosi, e nonostante quasi mezzo secolo di produzione narrativa, Doris Lessing non è un autore “mediatico”: purtroppo, perché la sua opera non arriva a essere divulgata come meriterebbe; d’altro lato, si può dire per fortuna, in quanto non è un autore assimilabile ai cosiddetti autori di successo, dove il successo sembra essere più una questione di immagine, di marketing e quant’altro, che non un fattore di merito come invece dovrebbe essere. In modo prevedibile, a ridosso della notizia del Nobel, i giornali le hanno dedicato qualche articolo, e, cosa più importante, le case editrici italiane che hanno in catalogo le sue opere – prima fra tutte, Feltrinelli – le hanno ristampate e nelle librerie la presenza dei libri di questa autrice è stata resa maggiormente visibile. Oggi, alla sua età, Doris Lessing, nelle fotografie piuttosto rare che la ritraggono, appare come una signora molto semplice, estranea all’immagine di scrittrice per come la si può intendere secondo i canoni del circuito mediatico; appare come una donna schiva, appartata, che trasmette una resistenza ai dettami dell’epoca dell’immagine, dell’apparire a tutti i costi; piuttosto, appare come una figura familiare, una sorta di nonna dei lettori, una persona dispensatrice di sapienza e di saggezza – la sapienza e la saggezza maturate dalla elaborazione della propria esperienza -, due doti che tutti i migliori narratori dovrebbero possedere.

Tra la sua vasta produzione letteraria, vorremmo sottoporre all’attenzione del lettore che voglia accostarsi a questa autrice un testo del 1983, Il diario di Jane Somers, edito da Feltrinelli. Si tratta di un romanzo che si porta dietro tutta una aneddotica legata alla vicenda editoriale: l’autrice avrebbe inviato il manoscritto agli editori firmandolo col nome della protagonista, Jane Somers per l’appunto; il testo sarebbe stato rifiutato più volte fino alla rivelazione del vero autore, e al grande successo che ne è seguito fino a renderlo un libro di culto. È un romanzo questo che si dipana attorno a una serie di operazioni che lo rendono molto particolare, quasi anomalo si potrebbe dire, in ogni caso un’opera di grande pregio, uno di quei libri che formano il patrimonio culturale del lettore, lo arricchiscono, una lettura che si qualifica a tutti gli effetti come un fare esperienza - uno scambio di esperienza tra autore e lettore nell’accezione che conferiva a questa espressione Walter Benjamin.

Il fattore principale su cui è costruito il romanzo è quello che si intuisce come un lavoro sulla autobiografia, sulla ri-elaborazione del vissuto autobiografico nel passaggio al mezzo espressivo della scrittura narrativa innanzi tutto, ma, in senso allargato, quel processo che ne determina il passaggio rispetto al suo diventare una storia da raccontare agli altri - ai lettori. In questo caso c’è di più: anche se la proiezione dell’io reale di un autore nell’io convenzionale di un narratore altro – vale a dire di un personaggio altro da sé – è un espediente che da sempre si accompagna al gesto del narrare, in questo romanzo, il passaggio di persona da Doris Lessing in Jane Somers, pur realizzandosi in un testo di finzione – come giocoforza è il destino di tutti i testi, anche di quelli scopertamente autobiografici – si manifesta al lettore secondo una dinamica molto sottile, che rende incerti i confini rassicuranti che vorrebbero separare il terreno della realtà da quello della finzione. Ciò che contribuisce a questo effetto rimanda principalmente a due fattori. Da un lato, la scelta di servirsi della tipologia di scrittura più legata all’intimità dell’io esperienziale, quella per eccellenza più vicina all’esternizzazione, all’oggettivazione, dei contenuti autobiografici: la scrittura diaristica. Certo, su un diario, in modo particolare se redatto da uno scrittore, pesa sempre il sospetto di una scrittura intenzionalmente prodotta per essere esibita, pubblicata, slegata quindi dall’indirizzarsi a un destinatario unico, l’io scrivente. Anche da questo punto di vista, anzi, quale vero e proprio elemento di merito, Doris Lessing ha saputo creare in questo romanzo un equilibrio a dir poco perfetto tra la restituzione di un’esperienza personale, individuale, e il racconto della stessa come storia degna di essere estesa, partecipata, a tutti i lettori.

Il secondo fattore è quindi proprio quello per cui elementi mutuati dalla grammatica dello scrivere di sé e per sé diventano in questo romanzo fattori straordinariamente funzionali a creare l’impianto morfologico dell’opera e a caratterizzarla come narrativa nel senso più alto – eticamente alto – del termine, quel senso che permette di qualificare una narrazione come scrittura per gli altri giustappunto, e non per sé; una scrittura che non è esibizione fine a se stessa del proprio vissuto – anche nel caso in cui si fosse rivelata come un percorso felicemente terapeutico per la rielaborazione della propria esperienza, in quanto, anche in un caso simile, non si esce comunque dall’autoreferenzialità -; al contrario, quella di Doris Lessing, è una scrittura che attraverso il proprio manifestarsi rende trasparente la vocazione a qualificarsi come un tessuto narrativo scritto, prima di tutto per gli altri, per trasmettere agli altri – come voleva Benjamin – un’esperienza; e si può ben arrivare a dire, senza timore di spaventare, che lo scambio di esperienza così inteso si arricchisce senza ombra di dubbio di un intento educativo, didascalico, come si rileva in tutta la grande letteratura.

Entriamo nel vivo di questo romanzo. Quale tipo di esperienza Doris Lessing ha voluto tematizzare in questa storia? Se si pensa all’ideologia corrente, al senso comune per come lo si può intendere dal livello espressivo più basso a quello più concettualizzato, Il diario di Jane Somers è un romanzo scomodo, in quanto non si attiene per nulla ai codici della narrativa di consumo, di intrattenimento, di evasione, ma, all’esatto opposto, fonda la possibilità di coinvolgimento del lettore mettendo in campo situazioni narrative e tematiche inerenti a aspetti dell’esistenza che il mondo contemporaneo tende a nascondere, a rimuovere: il rapportarsi alla condizione della vecchiaia, alla malattia, alla morte. Jane Somers è una donna che, alla soglia dei cinquant’anni, si trova a fare un bilancio della propria esistenza: e si trova di fronte una se stessa sdoppiata in due individualità: da un lato, la donna di successo, la self-made woman della nostra contemporaneità, quella che si è fatta da sé e, partendo dal gradino più basso, è arrivata a dirigere, insieme a Joyce, la sua migliore amica, una rivista di moda e di costume, Lilith, rivolta al pubblico femminile, portandola a un notevole successo; dall’altro lato, rispetto alla dimensione interiore, si trova a fare i conti con il proprio egoismo, con il proprio senso di colpa, soprattutto rispetto a due eventi che di recente hanno cambiato la sua vita: la morte della madre e quella del marito Freddie, due eventi che contribuiscono a mettere in crisi la sua esistenza e la portano a intraprendere un percorso di ricerca, di messa in discussione delle proprie certezze e dell’insieme dei codici del perbenismo borghese, e questo processo si materializza, si documenta, si rende oggettivo, attraverso la scelta di scrivere un diario.

Ecco l’incipit:

“Questa prima parte è il riepilogo di circa quattro anni. Non tenevo un diario, allora. Vorrei averlo fatto. Quello che so è che ora vedo quel periodo in maniera diversa da quando lo stavo vivendo”.

In questa prima frase si evidenzia in modo esplicito il particolare rapporto che la scrittura – in primo luogo quella diaristica – stabilisce con il tempo, un rapporto in cui la dimensione temporale crea un piano dialettico tra il tempo del vissuto e il tempo in cui il vissuto si traduce in scrittura, dando luogo a quella possibilità tutta particolare, magica si direbbe, di riavvolgere il nastro e ri-vedersi vivere, potendo offrire un commento, un’analisi in prima persona dei fatti narrati. Il fattore temporale conferisce a questo romanzo un aspetto morfologico molto interessante e molto particolare nello stesso tempo: il lettore che si aspettasse la successione ordinata di una cronaca quotidiana – il senso più scontato e banale legato alla redazione di un diario – resterebbe deluso dalla lettura di questo romanzo, in quanto è proprio la gestione dell’asse temporale a stabilire il ritmo della narrazione, l’alternarsi di pieni e di vuoti – di detto e di non detto -, di parti più distese e di parti più compresse.

“Quello che non riuscivo a smettere di pensare, però, era che avevo deluso Freddie, che avevo deluso mia madre, e che in definitiva ero quel tipo di persona. Se dovesse succedere qualcos’altro, se dovessi affrontare un’altra situazione difficile, come la malattia o la morte, se dovessi dire a me stessa, Ora, cerca di comportarti come un essere umano, non come una bambina – non ci riuscirei, non potrei. Non è questione di volontà, ma di chi si è, di come si è.

Ecco perché decisi di imparare qualcos’altro”.

Ecco come si definisce nella scrittura il piano riflessivo, analitico, rispetto a quello che pertiene alla narrazione oggettiva, quella che mostra semplicemente l’accaduto. Nel corso del testo, il lettore incontra spesso termini e espressioni evidenziati dal corsivo, termini e espressioni che acquistano un rilievo maggiore, e vengono a costituire una sorta di glossario che raccoglie le parole chiave che hanno caratterizzato il percorso della protagonista. La decisione di voler imparare qualcosa di diverso da ciò che costituisce il codice esistenziale inerente all’appartenenza a quel tipo di persona – un’appartenenza che si allarga giocoforza, seppure con gradi differenziati, a tutti i lettori – si manifesta nell’attivare un tipo di sguardo e un conseguente tipo di attenzione che portano Jane a fare la conoscenza della coprotagonista del romanzo, Maudie Fowler, una anziana signora ultranovantenne, la quale offre alla protagonista – e al lettore – la possibilità di confrontarsi con un universo esistenziale che non è sufficiente definire all’insegna della lontananza e della diversità da quello abitato da quel tipo di persona, ma che diventa il terreno nuovo sul quale si rende concreta la possibilità di imparare – di recuperare - qualcosa di radicalmente altro. Ecco allora che due mondi tanto diversi si incontrano e si avvicinano a poco a poco, si fiutano, dovendo superare tutta una serie di diffidenze e di barriere legate alle diverse condizioni esistenziali, e non certo riducibili alla differenza dell’età anagrafica:

“Mrs. Fowler arrivò con una vecchia teiera marrone e un paio di tazze da tè, di porcellana, piuttosto graziose. Fu la cosa più difficile che avessi mai fatto, bere da quella tazza sporca. Non parlammo molto perché non volevo rivolgerle domande dirette, e lei tremava di orgoglio e dignità. Continuava ad accarezzare la gatta – “Bellezza mia, tesoro”, in tono duro ma con una sorta di dolcezza – e disse senza guardarmi, “Quando ero giovane mio padre aveva un negozio, e poi abbiamo avuto una casa in St. John’s Wood, e così lo so come dovrebbero essere le cose”.

Se proprio si volesse dare una dicitura scientifica alla vicenda raccontata in questo romanzo si potrebbe chiamarla: un caso geriatrico: Jane decide di far entrare nella sua vita Maudie, stabilisce un rapporto con lei, un rapporto che chiede, che ri-chiede tempo, per potersi definire e avviare. Come già detto, alla narrazione oggettiva si accompagna, da parte di Jane, l’ascolto della reazione della propria interiorità rispetto a questa esperienza:

“So che ci vorrà molto tempo, prima che la mia ignoranza, la mia mancanza di esperienza, e la sua reticenza, i suoi rancori – perché ora li vedo ribollire, le illuminano gli occhi di quella che da principio vien fatto di scambiare per gaiezza, per comicità, addirittura – molto tempo, prima che il suo essere, la mia rozzezza, permettano che io mi formi un’impressione globale di lei”.

L’occhio della grande scrittrice; la sapienza nel saper cogliere e restituire attraverso la scrittura particolari e dettagli che non sono necessariamente prioritari rispetto alla funzionalità narrativa – per quanto il principio non possa ritenersi valido a livello ortodosso in quest’opera -; ecco allora, comparire, nelle pagine di questo diario, passi come quello che segue, lontani dalla cronaca, lontani dalla riflessione, risultato dell’alchimia che si viene a creare “da certi accordi singolari fra l’anima, l’occhio e la mano di chi è nato per coglierli in sé e per produrli a se stesso”, secondo parole ancora di Walter Benjamin, ancora dal suo saggio folgorante dedicato al narratore. Il gesto di Maudie descritto brevemente da Jane è qualcosa che tutti abbiamo visto almeno una volta nella vita; è un gesto che la scrittura di Doris Lessing eleva a una bellezza universale, poetica:

“Quando andai via mi accompagnò fino alla porta esterna, e fece qualcosa che ho visto solo a teatro, o letto nei romanzi. Indossava un vecchio grembiule a righe, che si era messa per fare il tè, e si mise a pieghettare la stoffa con le mani, poi la lasciò andare, poi ricominciò a pieghettarla”.

L’abitazione di Maudie, come è prevedibile, è il correlativo oggettivo della suo stato esteriore; Jane chiama un elettricista per far sistemare l’impianto elettrico che rischia di essere seriamente pericoloso; Jim, l’elettricista, è un campione dell’umanità che rifiuta di “vedere” le persone come Maudie e le condizioni in cui vivono. Jane gli legge nel pensiero:

Perché non sono in un ricovero? Bisogna toglierli di mezzo, metterli dove la gente giovane e sana non li possa vedere, perché non sia costretta a pensare a loro”.

Ma Jane non esclude se stessa dall’appartenenza a quel tipo di persona; nelle pagine del suo diario è impietosa prima di tutto verso il proprio io – invitando anche il lettore a condividere e sottoporsi le stesse domande:

“A che cosa serve Maudie Fowler? Stando ai criteri che mi sono stati inculcati, a niente”.

E ancora:

“Pensai che quello che io spendevo in un mese per l’acqua calda sarebbe bastato a cambiare la vita di Mrs. Fowler”.

Frasi dove si percepisce la messa a fuoco di un atto di accusa a tutto il sistema di vita occidentale, al progresso, al benessere, alla corsa alla ricchezza materiale, e, per contro, al prezzo da pagare, l’incapacità di attenzione verso tutto ciò che si perde e si trascura, verso tutto ciò che si rimuove partecipando a questo sistema.

Nel progredire dell’avvicinamento che si viene a creare tra Jane e Maudie, emergono gli aspetti delle rispettive personalità, dei rispettivi caratteri: le debolezze, le fragilità, la vulnerabilità; nel caso di Maudie, c’è un elemento del suo carattere che si qualifica come il motore vero e proprio che la anima, che la tiene in vita, e che non la lascerà neppure di fronte all’ineluttabilità della vicinanza alla morte: la rabbia: è nella sua rabbia ostinata e fragile nello stesso tempo il luogo in cui risiede la vitalità di Maudie: scrive Jane:

“Mi sono arrabbiata, là sui gradini, quando lei è entrata in casa senza parlarmi, probabilmente anche lei era arrabbiata, pensava, adesso stiamo esagerando! E seduta in quella stanza, con la gatta, ero furiosa, pensavo, bel modo di ringraziare! Poi l’irritazione se n’è andata per far posto al piacere di stare davanti al fuoco, con la pioggia che cadeva fuori. E ci sono sempre i momenti brutti, come quando devo prendere la tazza unta e bisunta e portarmela alle labbra: quando devo inalare le zaffate di quell’odore dolce e penetrante che emana da lei: quando vedo come mi guarda, a volte, il ribollire di qualche rabbia antica... E’ un’altalena di emozioni, ogni nostro incontro”.

Quello che nella analisi semiologica della narrazione è il conflitto di opposti - il fattore che crea drammaticità, mostrando il conflitto per l’appunto tra due personaggi antagonisti -, in questo romanzo è rappresentato dal confrontarsi di Jane e di Maudie; in un contesto simile, i momenti più forti, quelli che siamo abituati a chiamare colpi di scena, snodi narrativi, e via discorrendo, si configurano sotto una luce molto particolare. Per esempio, Doris Lessing, nelle vesti di Jane Somers, non ha certo voluto evitare o trascurare uno degli aspetti più difficili da trattare rispetto a questa esperienza: la corporeità, il rapporto con il corpo, il fatto che da parte di Jane occuparsi e prendersi cura di Maudie, vincere la sua diffidenza, la sua resistenza al mondo esterno di cui Jane stessa fa parte, significa anche toccare il corpo debilitato, offeso, non più macchina autosufficiente di questa anziana donna. Ecco allora che un vertice davvero alto – per la giusta distanza, per l’assenza di qualunque caduta nella retorica, per il livello di oggettività – lo raggiunge la descrizione di un gesto come questo:

“Poi si è presentato il problema della parte inferiore del corpo. Ho deciso di aspettare istruzioni.

Le ho infilato la maglia “pulita” dalla testa, le ho avvolto il cardigan “pulito” intorno al torace, e ho visto che lei intanto si stava sfilando lo spesso strato di sottane. È stato allora che mi ha colpita diritta in faccia: la puzza. Oh, non serve che non ci pensi, mi è impossibile far finta di nulla. Troppo debole o troppo stanca per muoversi, ha cacato nelle mutande, ha cacato dappertutto.

Mutande, luride… Be’, non ho intenzione di continuare, nemmeno per sfogarmi, mi sento ancora male a pensarci. Ma stavo guardando la maglia e le sottovesti che si era tolta, ed erano gialle e marroni di merda. Comunque. Se ne stava là in piedi, la metà inferiore del corpo completamente nuda. Le ho fatto scivolare dei giornali, uno spesso strato, sotto i piedi. E ho cominciato a lavare e lavare, la parte inferiore del corpo. Lei si teneva al bordo del tavolo con quelle mani forti. Quando sono arrivata al sedere, Maudie l’ha spinto in fuori, come avrebbe fatto una bambina, e io ho lavato anche quello, pieghe e rughe comprese. Poi ho buttato via tutta l’acqua, ho riempito di nuovo la bacinella, ho rimesso in fretta i bollitori sul fuoco. Le ho lavato le parti intime, e per la prima volta ho pensato davvero al significato di quell’espressione: Maudie soffriva orribilmente proprio perché una sconosciuta stava invadendo la sua intimità”.

Il percorso di Jane è reso difficile dal mondo stesso in cui si trova a vivere: dall’ambiente lavorativo, dal quale non le giunge nessuna capacità di comprensione verso la scelta che porta avanti; anzi, le si rimprovera la quantità di tempo che sottrae alla professione; ma è soprattutto il proprio passato che per Jane si costituisce come un muro invalicabile; è dalla voce della sorella Georgie che arriva la sentenza, a indicare che il cambiamento di rotta intrapreso da Jane non serve comunque a redimerla dall’atteggiamento che ha tenuto verso i propri cari:

“Mi dispiace Jane, ma se stai finalmente decidendo di diventare una persona responsabile, forse dovrebbe anche venirti in mente che non è facile vederti arrivare qui con una domandina o due: E la morte della nonna? Com’è stata? Difficile? È stato orribile, Jane. Capisci? Orribile. Io andavo giù quando potevo, incinta all’ultimo stadio o col bambino piccolo, e trovavo la mamma distrutta. La nonna non poteva alzarsi dal letto, alla fine. Non si è alzata per mesi interi. Riesci a immaginarlo? No, scommetto di no. Dottori sempre intorno. Dentro e fuori dall’ospedale. E la mamma sola. Papà non poteva aiutarla molto, era quasi invalido a sua volta…”

Non sono molti, ma sono presenti nel testo alcuni momenti in cui l’io scrivente scrive della propria scrittura, apre parentesi sull’interrogazione e la problematica relative al senso di un’operazione come questa; nello stesso tempo, si esplicita nei confronti del lettore la dichiarazione di onestà rispetto al fatto che quello che sta leggendo è un diario di finzione, vale a dire che è scritto appositamente perché possa essere letto da altri; inoltre, con il passare del tempo e attraverso il suo articolarsi e sedimentarsi nei vuoti e nei pieni della scrittura, l’io scrivente acquista consapevolezza dell’autenticità di questa esperienza, che si configura come “l’unica cosa vera che mi sia successa” – a indicare come la veridicità di un fatto è data non tanto dal suo accadere quanto dall’incidenza che manifesta sulla possibilità di cambiare l’esistenza di chi lo ha vissuto:

“Anche mentre scrivo questo diario, ho ben chiaro in mente l’occhio esterno, l’osservatore. Ciò significa forse che ho intenzione di pubblicare quello che sto scrivendo? Di certo non era questo che avevo in mente quando ho cominciato. È una cosa strana, questo bisogno di scriver giù le cose, come se non avessero un’esistenza propria fino a quando non sono registrate. Presentate”.

E ancora:

“Questo è stato un anno fa. Se avessi avuto il tempo di tenere questo diario con una certa costanza, ora sembrerebbe il cantiere di un edificio in costruzione, frammenti di questo e di quello ammucchiati, sparsi, disordine, cose varie, nessuna più importante dell’altra. Ho dovuto visitarne uno per un articolo la settimana scorsa, e c’era un mucchio di sabbia qua, una pila di vetri là, qualche trave d’acciaio, sparsa, sacchi di cemento, palanchini. Così dev’essere un diario, i frammenti degli avvenimenti, messi insieme disordinatamente. Ma ora, a distanza di un anno, comincio a capire quali cose sono state importanti e quali no”.

Nella seconda parte di questo romanzo sui generis, il lettore trova un incremento del livello di frantumazione: il racconto vive di isole che rivendicano un carattere anche autonomo oltre che integrarsi nel tutto dell’insieme; l’opera acquista un aspetto che si può anche definire sperimentale e che contribuisce a caratterizzarla come un grande esempio di romanzo contemporaneo, oltre che per il contenuto, anche per l’aspetto morfologico. Si tratta di brani in cui Doris Lessing dà voce a Maudie facendole raccontare la propria vita, attraverso la rievocazione di momenti felici e di momenti tragici; oppure, brani in cui una medesima giornata – la stessa unità temporale – viene raccontata in terza persona seguendo i gesti lenti di Maudie e poi in prima persona da Jane stessa fino a che le due temporalità si incontrano; e ancora, Doris Lessing/Jane Somers – in queste parti il confine appare davvero impalpabile - racconta le giornate di altre due anziane, vicine di casa di Maudie, e la giornata di Bridget, una donna che lavora proprio con il ruolo di Aiuto Domestico e che in qualche modo diventa un doppio di Jane. In tutto questo mondo, popolato da anziani malati e vicini alla morte, si apre anche lo spazio per momenti di gioia che, proprio per il contesto in cui sono inseriti, acquistano una straordinaria luminosità. Eccone un esempio, forse il compenso più bello che Jane si è guadagnata grazie al rapporto con Maudie:

“Una meravigliosa giornata calda e serena.

Ho detto a Phyllis, “Pensa tu a tutto,” e sono corsa fuori dall’ufficio, al diavolo il lavoro. Sono andata da Maudie, e quando mi ha aperto, molto lentamente, arrabbiata, le ho detto, “Ti porto a fare una passeggiata al parco.” Lei mi ha guardata, furiosa. “Oh, no,” le ho detto. “Oh, cara Maudie, non arrabbiarti, non arrabbiarti, vieni invece con me.”

“Ma come faccio?” dice lei. “Guardami!”

E alza gli occhi, oltre la mia testa, verso il cielo. È così bello, azzurro, e Maudie dice, “Ma… ma… ma…”

Poi all’improvviso sorride. Si mette quella sua spessa giacca nera da scarafaggio, e il cappello estivo, di paglia nera, e ce andiamo al Rose garden Restaurant. Trovo un tavolo un po’ in disparte, lontano dal passaggio, vicino ad alcuni cespugli di rose, riempio un vassoio di paste alla crema, e restiamo sedute lì tutto il pomeriggio. Lei ha continuato a mangiare ininterrottamente, in quel suo modo lento, struggente, che dice, Questo me lo metto nella pancia finché c’è! – poi è rimasta seduta a guardare, guardare. Sorrideva, felice. Oh, carini, continuava a cantilenare sommessamente, carini… i passeri, le rose, un bambino in carrozzina lì vicino. Ho capito che era fuori di sé per la gioia, una gioia selvaggia, quasi furibonda, quel mondo caldo, assolato, dai colori brillanti, era per lei uno splendido regalo. Perché ormai l’aveva dimenticato, là sotto, in quel suo squallido seminterrato, in quelle orribili strade.

Io mi preoccupavo che fosse troppo per lei dentro quel suo spesso guscio nero, e faceva così caldo, c’era tanto rumore. Ma lei non voleva andarsene. È restata là seduta fino alla chiusura.

E quando l’ho riportata a casa canticchiava con aria sognante tra sé e sé. L’ho accompagnata alla porta, e lei ha detto, “No, vai, vai, voglio sedermi a pensare a questa giornata. Oh, che cose deliziose da pensare.”

La cosa che più mi ha colpita quando l’ho vista là fuori, nella luce forte del sole: il suo colorito giallo. Occhi azzurri brillanti in una faccia che sembra dipinta di giallo”.

Un ricordo indelebile per Jane – e per il lettore -; un’esperienza fatta di poco, sommessa, da passarsi inosservata ai più – quante ne vediamo, quante ne riconosciamo nel nostro quotidiano? – e che diventa materia per una memoria esistenziale, formativa, e dispensatrice di una serenità estranea a tutta la ricerca della felicità impossibile, sempre proiettata verso un’oltranza oltremisura, virtuale, e che fa perdere di vista ciò che si ha sotto gli occhi, e che fa parte – o che dovrebbe fare parte - del percorso naturale dell’esistenza.

Il lettore lo sa, lo avverte tra i non detti di ogni pagina, se lo aspetta di continuo: se si trattasse di una narrazione convenzionale si potrebbe parlare di prevedibilità, in questo caso rientra nell’ordine naturale delle cose: le condizioni di salute di Maudie peggiorano, le viene diagnosticato un cancro allo stomaco, nonostante la sua resistenza dovrà essere ricoverata in ospedale. Si avvicina quindi il momento dell’incontro con la morte, un momento che segna la stretta finale di un rapporto nato per caso e non solo, e che ha cambiato, arricchendole, le esistenze di due persone che – si può dire davvero – provenivano da mondi diversi e lontani, dimostrando che da qualunque prospettiva si arrivi, è possibile ritrovare e riscoprire l’autenticità di una vicinanza, di un dialogo, di uno scambio di esperienza e anche di un valore affettivo nel nome dell’autenticità. Di fronte alla malattia e alla morte, di fronte a una condizione esistenziale che è ormai fatta di poco e di niente, solo limiti e riduzioni, l’atteggiamento dell’anziana non abdica né all’accettazione né alla rassegnazione: “Quello che Maudie vuole è – non morire!”, diventa una sorta di slogan, di motivo ricorrente nelle pagine del diario di Jane; e ancora: “Maudie non è pronta a morire”, si leggerà più oltre.

Se si volesse parlare di aspettative da parte del lettore, la parte conclusiva del romanzo regala brani di scrittura straordinari legati ovviamente al rapporto tra Jane e Maudie, consapevoli entrambe dell’approssimarsi della fine:

“Le prendo sempre la mano, quando siedo lì, accanto a lei, ma lei lascia cadere la sua, inerte, una, due, anche tre o quattro volte, prima di stringere forte la mia. Con la faccia girata dall’altra parte, gli occhi assenti, la bocca semiaperta, perché le medicine le fanno perdere il controllo di sé, una vecchia cupa, furiosa, la sua mano parla nondimeno il linguaggio dell’amicizia”.

Fino alla fine, l’armatura di freddezza e di distacco apparenti di Maudie terrà duro, ma nei momenti in cui Jane le sta vicino, ben al di là dell’apparenza esteriore, si intensifica e si realizza tra le due quel codice di gesti e di comportamenti che ormai si è stabilito tra loro, fatto di piccoli movimenti, di azioni contenute, evitando ogni possibile caduta nel patetico e nel melodrammatico: a emergere allora e a arrivare al lettore è l’emozione più vera, quella non manipolata, quella che scaturisce dalla tenerezza delle ragioni del cuore – quelle di cui parlava Pascal -, che non necessita di alcuna mediazione; e proprio in queste pagine, dove il rischio poteva esserci sulla base della situazione narrativa e delle tematiche, la scrittura di Doris Lessing/Jane Somers mantiene una giustezza di equilibrio e raggiunge un livello di assoluto pregio.

“Siamo salite nell’ambulanza, tutt’e tre, Rosemary con una borsa contenente gli oggetti di Maudie: un pettine, una spugna, il sapone, la borsetta. Nella borsetta ci sono il certificato di matrimonio, una fotografia del “suo uomo”, un bel tipo dall’aria imbronciata, sulla quarantina, elegantemente vestito, e una di un bambino, piccolo, ben curato, che sorride con aria infelice al fotografo”.

Le cose, la poesia delle cose ultime, di quello che rimane, ben poco apparentemente, eppure tanto, tutto per questa persona, per Maudie. Una natura morta, che grida: still life, ancora vita – la dicitura in lingua anglosassone che, curiosamente, rovescia totalmente la portata di senso che veicola invece l’espressione nella nostra lingua -, un monito e un memento mori per tutti noi, tanto impegnati a rimuovere, a nascondere, a eliminare, tutti gli oggetti che ci parlano di cose ultime a meno che non posseggano un valore materiale, esibizionistico.

“Maudie è seduta sul letto, il labbro inferiore pendulo, gocce di saliva che le cadono continuamente dalla bocca, gli occhi torvi. Quando arrivo, comincia subito: “Tirami su, tirami su.” La aiuto a raddrizzarsi sul letto, ma appena ho finito e mi metto a sedere, ricomincia a sussurrare, “Tirami su, tirami su”.

La aiuto di nuovo, mi siedo. La aiuto, mi siedo. Poi mi metto in piedi accanto al capezzale, la tiro su finché si china in avanti, incapace di restar ritta.

“Maudie, sei già su, più su di così non si può!” protesto.

Ma: “Tirami su, tirami su!

Ubbidisco per darle l’illusione di poter ancora esercitare qualche influenza sul mondo in cui si trova a vivere, dove c’è sempre qualcuno che fa le cose al posto suo, dove non può lottare; e poi in questo modo ho una scusa per toccarla, per abbracciarla. Anche se non dice mai, Abbracciami, voglio che mi abbracci; dice invece, Tirami su, tirami su”.

Questo è il momento più intimo, l’apice affettivo che raggiunge il rapporto tra Jane e Maudie: per apprezzarlo, non è sufficiente dire che è commovente, toccante; è necessario arrivarci alla luce di tutto il percorso che ha portato queste due persone a trovarsi a condividere questo momento; solo così si può condividere con maggiore profondità un linguaggio altro da quello usuale, un codice linguistico dove dire Tirami su equivale a dire Abbracciami. E fa male, anche semplicemente leggere.

Maudie se ne va in silenzio, si spegne in un momento in cui Jane non è vicino a lei. Al funerale, Jane ha modo di rivedere i parenti di Maudie, la sorella e la sua famiglia che aveva conosciuto una domenica durante una gita: neppure da loro riceve comprensione, lei è solo stata una persona che si è presa cura di un’anziana prossima alla fine, e che ora dovrà cercarsene un’altra: questo è l’esito del cinismo e dell’indifferenza di quel tipo di persone, coloro che hanno lasciato a casa i bambini, in quanto “di questi tempi si cerca in ogni modo di evitare ai bambini ogni contatto con cose fondamentali quanto la morte e i funerali”. A Jane resta la ricchezza della sua esperienza con Maudie, la quantità di storie che gliela renderanno sempre presente – a lei, e anche al lettore:

“C’è un’altra storia, che mi raccontava sempre, questa: era disoccupata, perché aveva avuto l’influenza e aveva perso un lavoro di domestica. Stava andando a casa, col borsellino completamente vuoto, e mentre camminava, pregava, Dio mio, aiutami, Dio mio, ti prego, aiutami… Guardò per terra, e vide una moneta da mezza corona sul marciapiede. Disse, Dio mio, ti ringrazio. Entrò nel primo negozio, comperò una pasta al ribes, e la mangiò sui due piedi, tant’era affamata. Poi comperò pane, burro e marmellata, e un po’ di latte. Le restavano sei pence. Sulla via del ritorno, entrò in chiesa, infilò i sei pence in una scatola per le offerte, e disse a Dio, Tu mi hai aiutato, e ora io aiuto Te”.

Qualcosa è cambiato nella vita di Jane: si è staccata parecchio dal lavoro, dopo che Joyce è partita per l’America con la famiglia, ma anche perché ha capito che è ora di far posto alle nuove generazioni, a Phyllis che sembra intenzionata a prendere il suo posto per tenere sempre in auge il nome della rivista, e a sua nipote Jill che le è piombata in casa per seguire le orme della zia stravagante e di successo. Jane ha sicuramente modificato il proprio rapporto col tempo: per esempio, ha smesso di passare ore nella vasca da bagno. Nulla di definitivo, di concluso una volta per tutte: del resto, in un romanzo come questo non c’era da smascherare nessun assassino né da sciogliere nessun nodo d’amore; è un finale sospeso, aperto, in corrispondenza col fatto che ha mostrato una tranche de vie, un segmento di esperienza che di sicuro condizionerà il futuro della protagonista. L’ultima immagine ci mostra una Jane nervosa, arrabbiata si direbbe: “Purché tu sappia con chi, sei arrabbiata,” ha detto mia nipote Jill, ed è andata a prepararmi una bella tazza di tè”. Va da sé che con quel chi corsivizzato - un allarme lampeggiante - ciascun lettore ha da fare i propri conti.

La bellezza del romanzo sta tutta nella fascinazione per quella capacità di mettere a fuoco la materia narrativa dalla distanza che si rivela la più giusta, la più esatta, la più congeniale per produrre una narrazione esemplare, ricca, significativa per i lettori. Può essere stimolante a questo punto confrontarsi con uno dei vari testi dichiaratamente autobiografici che arricchiscono il catalogo delle opere di questa autrice, Mia madre, edito da Bollati Boringhieri, nel quale Doris Lessing racconta se stessa come figlia ribelle, durante i primi trent’anni di vita, dal 1919 al 1949, mentre racconta nello stesso tempo le personalità dei genitori e il loro rapporto. E se è difficile catalogare un romanzo come Il diario di Jane Somers, trovargli una collocazione tra i generi romanzeschi che fanno comodo a chi necessita di etichette rassicuranti, anche sul versante della scrittura autobiografica, l’autrice offre al lettore un esempio di eccellenza per la modalità in cui fatti che riguardano la persona reale del narratore vengono esposti con un senso della distanza che ancora una volta ci piace definire di pregevole valore etico, come se parlasse di altre persone, di terzi, con la stessa obiettività; in questo modo, Doris Lessing non costruisce un monumento al proprio io, non scade nell’autocompiacimento, nell’autoreferenzialità; al contrario, pur utilizzando il proprio vissuto in qualità di materia narrativa da offrire in pasto ai lettori, la motivazione del gesto non è quella di soddisfare curiosità da gossip tanto di moda; non è per redigere un blog sempre tanto di moda; non è per fare spettacolo dei fatti personali alterando la verità in una soluzione chimica di finzione al quadrato più finta delle finzioni dichiarate in quanto tali; ma è per scambiare con il lettore un percorso di esperienza nel senso più alto del termine – quello che auspicava Walter Benjamin come obiettivo primario della narrazione.

Questo è l’incipit:

“C’è una fotografia in cui si vede mia madre da giovane: è una ragazzetta robusta, florida, che esprime una sicurezza tutta vittoriana. Ha i capelli legati dietro con un fiocco nero e indossa l’uniforme della scuola, un’ampia camicetta bianca e una lunga gonna scura. Un’altra fotografia, scattata quarantacinque anni dopo, mostra una donna anziana, segaligna, severa, che guarda fieramente da un mondo di delusioni e di frustrazioni. È in piedi, la mano appoggiata alla spalliera della sedia di mio padre. Lui deve stare seduto: come sempre, è malato. Si capisce che è a malapena padrone di sé, ma si è messo un abito adatto all’occasione, certamente perché lei gli ha detto che deve fare questo sforzo. Lei ha un vestito piuttosto elegante e ben fatto, ricavato da uno scampolo acquistato ai saldi.

Della differenza tra queste due fotografie devono parlare queste pagine. È come se mi ci fosse voluta una vita intera per capire i miei genitori, e con continuo stupore”.

Il testo è del 1988, posteriore di cinque anni al Diario di Jane Somers: l’autrice, quasi settantenne, scrive del proprio vissuto, dei propri genitori, trasferendo sulla pagina la propria intimità, avendo ormai conquistato una saggezza e una capacità di distanza a dir poco straordinarie, potendo lasciarsi alle spalle ogni maschera, ogni io convenzionale – anche quello di Jane Somers – con la capacità di evitare tutti i pericoli che si insidiano in questa operazione. Il tono della voce narrante, se si fa astrazione dai possessivi che qualificano il legame personale diretto con il vissuto dell’autore, è lo stesso che si potrebbe trovare se non fosse dichiarata nel testo nessuna implicazione autobiografica: un esito di scrittura - un traguardo - davvero difficile da raggiungere, in quanto richiede la capacità di liberarsi del livello propriamente soggettivo che nella realtà è inevitabilmente connesso al proprio vissuto, quanto meno liberarlo da tutti i condizionamenti derivanti dal fatto che si tratta del proprio io e che vorrebbero entrare nel racconto.

Il riferimento al romanzo di cui si è parlato non è casuale se proprio quello e non altri trova spazio in questo testo per un riferimento esplicito per mano dell’autrice stessa mentre racconta della propria madre:

“Solo recentemente, scrivendo i libri di Jane Somers, mi sono resa conto che i vestiti erano la passione di mia madre (che, se vivesse oggi, assomiglierebbe un po’ a Jane Somers), anche se per gran parte della vita non ebbe né i soldi per comprarli, né l’occasione di metterli”.

Il rapporto difficile, più problematico – come del resto si può evincere tra le righe dell’incipit stesso – Doris Lessing l’ha avuto con la madre, un rapporto fatto da una miscela inscindibile di rabbia, di tenerezza e di pietà. È a partire da questo livello di consapevolezza che si devono accostare passi come quello che segue, dove il tono asciutto, crudo, scarno, non solo non cancella ma, anzi, per contrasto, evidenzia al lettore la portata di senso che si evince dalla lettura:

“Il parto fu difficile. Dovettero intervenire col forcipe che mi lasciò un segno scarlatto sulla guancia. E soprattutto, ero una bambina. Quando volle sapere il mio nome, sentendo che nessuno ci aveva pensato, il dottore si chinò sulla culla e disse conciliante: “Doris?” Raccontando l’episodio mia madre, come suo solito, rendeva con grande efficacia tutta la scena, la stanchezza del dottore dopo la lunga notte di veglia, il larvato rimprovero nel modo sommesso, pieno di tatto, con cui aveva suggerito il nome”.

Per contro, rivivere attraverso la memoria il periodo dell’infanzia trascorsa nell’ex Rodhesia oggi Zimbabwe - dove il padre aveva colto l’opportunità del colonialismo per diventare agricoltore prima e in un secondo tempo per inseguire il sogno della ricerca dell’oro e della scienza della rabdomanzia - apre squarci di grande riconoscenza e positività nei confronti della figura materna, come questo:

“…leggeva ad alta voce per noi, ci raccontava storie: era una maestra meravigliosa. Imparavamo la geografia per mezzo di mucchietti di fango e di sabbia rimasta dalla costruzione della casa: erano continenti e montagne e paesi che si indurivano al sole e si potevano riempire di acqua per farci i fiumi e gli oceani. Semi, uova di galline, pulcini le servivano per insegnarci la matematica. Inventava giochi in cui noi eravamo i pianeti, il Sole, la Luna, per farci capire il sistema solare. Ci faceva notare le stelle, gli uccelli, gli animali”.

Giovanissima, all’età di quattordici anni, Doris Lessing attiva la propria ribellione in nome della rivendicazione di indipendenza e di libertà soprattutto dai codici di perbenismo vittoriano legati alle aspettative della propria madre. L’autrice-narratore, inquadrando la propria figura in campo lungo, a una distanza modulata e misurata come da uno stroboscopio, e questo proprio in relazione al rapporto con la madre, riesce a rendere anche attraverso questo segno stilistico la lontananza che le separava nella vita reale. Si susseguono nel giro di pochi anni, due matrimoni con uomini assai diversi, entrambi lontani da quelli che poteva aspettarsi la madre, entrambi finiti con un divorzio a cui fa seguito la decisione di Doris di partire per la Gran Bretagna e dedicarsi alla scrittura; la narrazione acquista un ritmo accelerato, sembra attenersi al solo livello informativo, senza concessioni a descrizioni, a divagazioni, a dilatazioni che inquinerebbero l’oggettività del narrato, che introdurrebbero troppa fiction in una materia che vuole attenersi, come obiettivo primario, alla restituzione del vissuto, riducendo al minimo l’ingerenza del punto di vista di chi narra, un fatto che acquista una valenza fortissima quando chi narra è la persona reale dell’autore:

“Fino a tre anni addietro era stata una ragazza sgarbata, scontrosa, arrogante, un carattere impossibile. Ora era gentile, e ugualmente impossibile. Sentendo che sua madre sarebbe arrivata l’indomani, avrebbe sicuramente risposto con grande gentilezza che purtroppo non era in casa, o aveva da fare, o chissà che altro”.

“Sembrava che le cose non potessero andar peggio. E invece all’improvviso, sua figlia annunciò che intendeva lasciare il marito e i figli. Questo naturalmente non era possibile: cose simili non si fanno. Ma stava succedendo davvero. Quella ragazza era tremenda, distruttiva, una vera croce. Non andava d’accorso con Frank, diceva, e invece non si erano mai visti segni di disaccordo in quattro anni. Quella vita non la sopportava, la detestava, detestava tutto quanto, diceva”.

“Due anni dopo tornò in Rhodesia. Era stata respinta. Dal clima, perché non ricordava più quanto potesse essere inclemente. E da sua figlia, che non voleva il suo aiuto. Non lo voleva, anche se ne aveva bisogno, lo si vedeva benissimo”.

Passi come questi, letti alla luce della consapevolezza che l’autore sta parlando di sé, del proprio io, sono un esempio straordinario del lavoro compiuto sulla scrittura autobiografica, che si pone in questo modo come evidente correlativo oggettivo di un lavoro svolto prima di tutto sulla propria persona reale, segno di un percorso esistenziale che diventa allora valido in qualità di esempio da proporre al lettore.

Non resta che augurarsi che un numero sempre maggiore di lettori, e in modo particolare i giovani – proprio alla luce di quella che inizialmente può essere percepita come distanza dal proprio universo - presti maggiore attenzione a una scrittrice che tiene alto il senso etico legato al gesto del narrare.

Uno Speciale dedicato a Doris Lessing, ricco di articoli, interviste, video e registrazioni audio, si trova sul sito www.feltrinellieditore.it