Nel giardino in Eden

(Gen. 2, 4b-25)

di Giorgio Brandone


Il giardino in Eden - Athanasius Kircher, Arca Noeë


Adamo ed Eva nel giardino in Eden – Pavimento del duomo di Novara


Il pavimento del presbiterio del Duomo di Novara presenta una raffigurazione a mosaico di Adamo ed Eva nel giardino in Eden. Al centro si vedono le due figure accanto all’albero della conoscenza del bene e del male. La scena è racchiusa in un cerchio bianco a sua volta compreso in un rombo nero. Ogni lato del rombo è interrotto, permettendo il passaggio dalla scena centrale a quattro scene angolari che presentano quattro figure umane mentre versano ciascuna un vaso colmo d’acqua. Sono i quattro fiumi che hanno origine dal paradiso, secondo il racconto del capitolo 2, versett 10-14, del libro della Genesi, indicati dalle didascalie: Pison (Phison), Ghicon (Ghicon), Tigri (Tigris) ed Eufrate (Eufrates). Il mosaico è stato oggetto di uno studio da parte del prof. Willy Beck che si può leggere in questo sito.

Proprio partendo da questa immagine si può proporre una riflessione sull’episodio biblico di Adamo nel giardino in Eden, fonte di una ricchissima tradizione iconografica. Molto spesso, però, questa tradizione si è fermata sul capitolo 3, in cui viene raccontata da caduta del primo uomo, il peccato originale, e la successiva cacciata dal giardino. In questo percorso, invece, ci fermeremo a proporre qualche spunto di analisi sul capitolo 2, la creazione di Adamo e il suo essere collocato da Dio nel giardino.


Adamo ed Eva – Roma, Catacombe dei SS. Marcellino e Pietro


Dopo il racconto dei sette giorni della creazione nel primo capitolo, il libro della Genesi, al capitolo 2, propone un secondo racconto dell’origine del mondo e dell’uomo. Questo capitolo si presta, in modo particolare, per proporre alcune riflessioni sulla lettura della Bibbia come un testo che può insegnare ancora molto all’uomo d’oggi. Proviamo ad analizzarne brevemente gli elementi fondamentali in prospettiva didattica.

In primo luogo ci si può chiedere perché due racconti della creazione, uno di seguito all’altro. La risposta può far riferimento, certo, alle diverse fonti del capitolo 1 (la fonte cosiddetta “sacerdotale”, più astratta e teologica) e del capitolo 2 (la fonte “jahvista”, caratterizzata da uno stile più semplice, popolare), ma può soprattutto far toccare con mano agli studenti che la Bibbia ci parla attraverso immagini che appartengono al mondo in cui si è formata. Le sue pagine non vanno lette in un’ottica “scientifica”, mettendo in luce le incongruenze e gli “errori”, ma cercando di comprendere il messaggio che ci vogliono trasmettere. Il “letteralismo” deve essere abbandonato in favore di un’interpretazione sapienziale e antropologica, altrimenti si corre il rischio di leggere la Bibbia in un’ottica distorta e concludere in favore del contrasto insanabile tra scienza e fede. Già Galileo Galilei, nella lettera a dom Benedetto Castelli, sottolineava la necessità di leggere in modo diverso natura e scrittura, l’una scritta da Dio in “linguaggio matematico”, l’altra attraverso la mediazione dello scrittore sacro che ha necessariamente utilizzato le categorie del pensiero del suo tempo. La Bibbia si rivela così un libro che vuole certo trasmettere un messaggio religioso, ma anche un libro “umano” che ci parla di genti per molti aspetti diverse da noi che si sono poste, secondo i loro modi di pensare, i grandi interrogativi dell’esistenza, quegli stessi che ancora oggi ci poniamo, e che hanno dato ad essi una soluzione che, forse, ha ancora un valore anche per noi.

“Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata – perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare tutto il suolo -: allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.” (Gen. 2, 4b-7)

Il racconto del capitolo 2 del primo libro della Bibbia inizia con l’uso di una formula (“quando... non...”) d’origine orientale che si ritrova nella tradizione accadica (nelle Introduzioni degli Inni d’azione) e nell’Enuma Elish, il poema babilonese della creazione del mondo (“Quando in alto il cielo non era ancora nominato / e in basso la terra non aveva ancora un nome...; / quando i giuncheti non erano ancora fitti / né i canneti visibili...”). La Bibbia utilizza, come abbiamo detto, il linguaggio del suo mondo, il mondo in cui si è formata. Il termine nulla con cui nel mondo occidentale si indica la condizione precedente la creazione (“creazione dal nulla”) è di origine greca e non appartiene al lessico del Pentateuco. Nel mondo orientale si parlava non di nulla (termine astratto), ma di assenza di vita. Il nulla è il deserto, il luogo dove non cresce la vegetazione e dove non ha spazio la vita.


Il deserto


Dio crea, ci dice l’autore, il cielo e la terra, ma la terra è vuota: vuota perché non c’è acqua (elemento fondamentale di vita nel mondo desertico del vicino Oriente) e perché non c’è ancora l’uomo a lavorarla, a plasmarla. L’uomo ha quindi un ruolo fondamentale nella creazione. Compito dell’uomo è costruire canali per irrigare la terra (di nuovo un elemento che ci richiama al mondo mesopotamico, dove l’agricoltura si sviluppa grazie alla costruzione e al mantenimento di complicati sistemi di irrigazione, che richiedono complesse strutture societarie per il loro mantenimento). Il lavoro, compito fondamentale dell’uomo, è garanzia di ordine, di vita: è cosa positiva, non una condanna come, invece, in un’altra prospettiva la Bibbia sembra proporre (cfr. Gen. 3, 19).


I lavori dei campi – da un bassorilievo di Saqqara


Il testo che abbiamo letto, in realtà, sembra proporre una semplificazione. In effetti altre versioni suggeriscono una interpretazione diversa. La Vulgata, ad esempio, dice: “Sed fons ascendebat e terra inrigans universam superficiem terrae” (Gen. 2,6). La stessa traduzione è proposta dalla Bibbia di Gerusalemme nelle versioni francese e spagnola (“Toutefois, un flot montait de la terre et arrosait toute la surface du sol”; “Pero un mantenial brotaba de la tierra, y regaba toda la superficie del suelo”). Da una parte, quindi, si propone un mondo senza pioggia e che non ha ancora conosciuto l’opera dell’uomo; dall’altra si parla di una fonte che irriga la superficie della terra. É chiaro che è difficile, se non impossibile, dare un’interpretazione scientifica, letterale, di questo testo: come può sulla terra esserci l’acqua e non esserci la pioggia. Già Sant’Agostino, nel De Genesi ad litteram, aveva identificato il problema e aveva cercato di risolverlo: prima di tutto sostenendo che il termine fons era da intendersi come nome collettivo (la Scrittura “pro numero plurali posuit singularem”, Augustinus, De Gen., liber V, 10, 26) e poi cercando di spiegare che la vegetazione nasce dalla terra grazie alla pioggia o grazie all’opera dell’uomo e, dal momento che queste due condizioni mancavano, Dio faceva crescere la vegetazione “potentia Verbi sui sine pluvia” (Augustinus, De Gen., liber V, 6, 18). In realtà Agostino si trovava davanti ad una difficoltà ancora maggiore, quella di armonizzare il racconto del capitolo 2 con quanto era stato detto nel capitolo 1: non pensava, infatti, che la Scrittura raccontasse due volte le stesse cose e che, come ha rivelato la critica moderna, la seconda versione fosse addirittura più antica della prima. Dal nostro punto di vista, invece, più che andare alla ricerca delle incongruenze, è bene cogliere la prospettiva in cui si colloca lo scrittore: vuole sottolineare la centralità dell’uomo nel creato. È l’uomo, infatti, che ha il compito di lavorarlo e ordinarlo. Prima della creazione dell’uomo il creato, anche se esiste, non conosce ancora un ordine.

E Dio crea l’uomo, dalla terra. Crea Adamo (‘adam), nome collettivo dal vocabolo ebraico ‘adamah, “terra, terreno”. Il racconto non parla dell’origine di un popolo, il popolo ebraico, ma dell’origine dell’umanità. L’uomo nasce dalla terra, è un essere terreno. L’immagine che sta dietro questa rappresentazione dell’origine dell’uomo è un’immagine concreta, quella del lavoro del vasaio. Dio è come un vasaio che, mediante la terra, plasma l’uomo. Anche questa immagine appartiene al mondo orientale, mesopotamico. Nel Poema di Gilgamesh si dice: “Tu Aruru, hai creato Gilgamesh, / ora riproduci di lui un’immagine.../ Quando Aruru udì ciò, / creò nel suo interno un’immagine di Anu. Aruru si pulì le mani, / prese un po’ di argilla e vi delineò...”

E Dio soffia nelle sue narici un alito di vita, che lo trasforma in un essere vivente. La tradizione occidentale, di origine greca, ha visto nell’azione di Dio il momento della creazione dell’anima, perpetuando la contrapposizione platonica tra anima (l’elemento spirituale, divino) e corpo (l’elemento terreno, corruttibile). In realtà questa contrapposizione è estranea allo spirito ebraico che vede l’uomo come un essere unitario e non scisso in un elemento spirituale e uno materiale. Nel testo si fa riferimento ai tre elementi che la tradizione semitica identifica nell’uomo: il corpo, la personalità e il principio vitale. L’alito di vita (nefesh), è proprio dell’essere animato ed è di origine divina: la vita è dono di Dio. La materia e l’alito di vita fanno dell’uomo un essere vivente. L’alito di vita, in realtà, è comune a tutti gli animali: ogni forma di vita ha origine da Dio. L’uomo, però, si trova in una condizione particolare: deve dominare gli esseri vivente. A lui solo poi si attribuisce il verbo hayah, “vivere”: solo l’uomo vive in senso pieno.

“Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre intorno a tutto il paese di Avìla, dove c’è l’oro e l’oro di quella terra è fine; qui c’è anche la resina odorosa e la pietra d’onice. Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre intorno a tutto il paese d’Etiopia. Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre ad Oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate.” (Gen. 2, 8-14)

La Vulgata, seguendo la versione greca dei Settanta, traduce “Plantaverat autem Dominus Deus paradisum voluptatis”, “Il Signore Dio aveva piantato un paradiso – termine di origine persiana, passato nel greco e poi nel latino - di delizie”: in effetti Eden viene talvolta fatto derivare dalla radice ‘dn (“delizie”). Ma, in realtà, il termine Eden non è da riferirsi al giardino, quanto alla regione in cui il giardino è collocato (“un giardino in Eden, a oriente”, non “il giardino dell’Eden”). Eden è un nome geografico che sfugge ad ogni localizzazione: edinu seru, espressione legata al termine Eden, ha il significato di “pianura, steppa”. La traduzione dovrebbe quindi essere: “Poi il Signore Dio piantò un giardino nella steppa, ad oriente”. Lo scrittore, per preparare il racconto della caduta dell’uomo, il racconto del peccato di Adamo ed Eva (Gen. 3), delinea uno spazio geografico particolare in cui collocare il racconto stesso: un giardino in cui fioriscono alberi di ogni specie, un giardino rigoglioso, irrigato da un fiume che in esso si divide in quattro rami, un giardino lussureggiante che fiorisce in mezzo alla steppa. L’immagine del giardino sembra richiamare i giardini dei racconti orientali, quelli delle Mille e una notte, in cui è piacevole trascorrere le ore della sera tra il profumo degli alberi e la brezza che ristora dopo il calore del giorno. Nella mitologia orientale un giardino lussureggiante circondato dal fuoco è la dimora degli dei: l’autore, quindi, vuole completare il quadro della rappresentazione della felicità dell’uomo collocandolo in questo giardino meraviglioso per sottolineare il rapporto di amicizia, di familiarità con Dio, quel rapporto che si spezzerà con il peccato di Adamo.


Il giardino nel Corano e nelle Mille e una notte - Anonimo,
Il giardino della fedeltà, dipinto dal manoscritto Vaki’at-i Baburi, 1590 ca.


Nel giardino, tra gli altri alberi, Dio ne fa crescere in particolare due: quello della vita e quello della conoscenza del bene e del male. Si tratta evidentemente di alberi dal valore simbolico, alberi che appartengono al mondo orientale in cui si forma la Bibbia: dell’albero della vita, in particolare, si parla nell’epopea di Gilgamesh. In questo testo, in effetti, si parla di due “giardini della felicità” e si parla anche della ricerca, da parte dell’eroe, della “pianta della vita”. Quando, però, Gilgamesh la raggiunge un serpente gliela porta via, a sottolineare che l’uomo è un essere mortale e che l’immortalità è per lui irraggiungibile. Il tema degli alberi “graditi alla vista e buoni da mangiare” fa parte delle descrizioni assiro-babilonesi del “giardino degli dei”. Tutto il passo, quindi, deve essere interpretato in chiave simbolica. Si allontana dal vero chi cerca, o ha cercato nei secoli, di localizzare Eden in un luogo ben preciso; ma erra anche chi vede in Eden un luogo fuori dalla terra. Lo scrittore ha voluto collocare la storia del primo uomo in un luogo che richiama le tradizioni letterarie e culturali della società del suo tempo: la steppa, il giardino nella steppa, i diversi alberi attraenti e buoni, la presenza dell’acqua fonte di vita.

Non molto chiari sono, invece, i riferimenti ai quattro fiumi che hanno origine nel giardino: due sono fiumi reali, il Tigri e l’Eufrate, i fiumi della Mesopotamia; due, al contrario, sono fiumi immaginari, il Pison e il Ghicon, che scorrono, rispettivamente, “intorno al paese di Avìla” e “intorno a tutto il paese d’Etiopia”. Si pensa che la raffigurazione dei quattro fiumi sia frutto di una ripresa, da parte del redattore, di materiali preesistenti: in ogni caso il fiume nell’antico Oriente è il luogo, l’arteria della vita. Le grandi civiltà, quelle mesopotamiche e quella egizia, nascono lungo le rive dei fiumi e sentono profondamente il legame con le piene e i periodi di magra dei fiumi, che segnano il ritmo dei lavori agricoli e permettono la vita. La tradizione ha visto, in questi quattro fiumi, oltre al Tigri e all’Eufrate, il Nilo e il Gange: “Geon quippe ipse est, qui nunc dicitur Nilus; Phison autem ille dicebatur, quem nunc Gangem vicabatur” (Augustinus, De Gen., liber VIII, 7, 13). L’origine dei grandi fiumi, quelli apportatori di vita sulla terra, è quindi da collocarsi nel paradiso, nel giardino in Eden, che diventa così, il centro del mondo (non per nulla la raffigurazione del mosaico del pavimento del Duomo di Novara colloca la scena del peccato di Adamo al centro di un rombo circondato dalla raffigurazione dei fiumi. L’uomo, con il peccato, ha perduto quella centralità che Dio gli aveva attribuito nel creato o meglio, ha macchiato la sua condizione di creatura privilegiata.


Il sacrificio di Abramo (nelle lunette due fiumi dell’Eden), Parma, Battistero


“Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.” (Gen. 2, 15)

Dio trasporta Adamo nel giardino in Eden e gli affida un compito: quello di lavorare e custodire il giardino da Lui creato, quasi a voler significare che l’uomo deve continuare l’azione di Dio creatore, dando vita e ordinando la natura. L’uomo è al centro della creazione.


Dio crea Adamo ed Eva, la caduta e la cacciata
Moutier-Grandval Bible. London, British Library, MS Addit. 10546, f. 5v.


“Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti».” (Gen. 2, 16-17)

Ma il Signore stabilisce anche un limite, quello che Adamo non saprà rispettare: non potrà mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male. L’uomo, quindi, deve rimanere nei limiti voluti da Dio, non deve peccare d’orgoglio, non deve ritenersi padrone di ogni cosa. Le creature sono a lui soggette, ma questo non vuol dire che possa fare un uso distorto del creato a proprio indiscutibile arbitrio: deve invece collaborare al disegno armonico di Dio, coltivare e custodire il giardino.

“Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile.” (Gen. 2, 18-20)

Dio vede la solitudine dell’uomo e, volendo dargli un aiuto, crea le bestie selvatiche e gli uccelli del cielo. L’uomo è destinato a vivere in un creato armonico, non è un essere isolato, ma si completa e si realizza nei rapporti, nelle relazioni con i suoi simili e con tutte le creature che Dio ha voluto per dare a lui un aiuto. E l’uomo dà agli animali il nome, segno del dominio sul mondo delle creature. La tradizione esegetica ha visto in quest’atto di Adamo che dà il nome alle creature d’espressione del dominio dell’uomo sul creato. Nella tradizione animistica conoscere il nome è sinonimo di possesso. In realtà il testo parla di animali creati da Dio per dare all’uomo un aiuto “che gli sia simile”. Gli animali, quindi, non sono semplicemente strumento nelle mani dell’uomo, ma sono molto di più. Sono un aiuto che ha tratti che richiamano l’uomo. Tra gli animali, però, l’uomo non trova un aiuto che sia veramente “simile” a lui. In effetti il testo ebraico parla di “un aiuto che sia la sua controfigura”, che lo completi, che lo faccia felice. È chiaro quindi che gli animali non sono sufficienti per l’uomo: c’è bisogno della donna che, sola, può entrare in comunione con l’uomo.


Adamo in Eden - Les sept ages du monde.
Department of Manuscripts, Royal Library of Belgium, MS 9047, f. 1v,L.M.J.


“Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse:

«Questa volta essa
è carne della mia carne
e osso delle mie ossa.
La si chiamerà donna
perché dall’uomo è stata tolta.»” (Gen. 2, 21-23)

Il Signore Dio fa scendere un “sonno profondo” sull’uomo: il termine ebraico tardemah indica un sonno prodotto da Dio che accompagna un’azione straordinaria di Dio stesso. Possiamo pensare che questo sonno profondo sia un modo mediante cui lo scrittore vuole nascondere l’atto creatore di Dio: l’uomo, risvegliatosi, non ricorderà più che cosa è avvenuto, non potrà spiegare l’origine della donna, potrà solo dire che è come lui, che è carne della sua carne e osso delle sue ossa.


Sonno di Adamo, creazione di Eva - Biblium Pauperum, 14th Century.
Lee, Laurence. Stained Glass. London: Artists House, 1982. P. 26


Con la creazione della donna l’uomo troverà, finalmente, un aiuto che sia simile a lui (il termine “aiuto” indica, nella Bibbia, un sostegno che permette di realizzare il proprio destino: spesso è Dio ad essere definito “aiuto”). E quando l’avrà trovato, eromperà in canti di gioia, si esprimerà in poesia, secondo i caratteri della poesia orientale e biblica, basata sui parallelismi: “Questa volta essa / è carne della mia carne / e osso delle mie ossa...” Il racconto della creazione della donna, che secondo alcune correnti esegetiche appartiene ad una tradizione diversa da quella del giardino in Eden, sviluppa il tema non tanto dell’origine della donna dall’uomo, come ha voluto tanta tradizione misogina, quanto dell’uguaglianza di donna e uomo. In effetti il testo indica l’uomo con il termine ‘ish e la donna (che non si chiama ancora Eva) con il termine ‘ishshah, che non è altro che il femminile di ‘ish. E la Vulgata conserva questo elemento traducendo “Haec vocabitur virago quoniam de viro sumpta est”. Il passo proporrebbe, quindi, una spiegazione eziologica della creazione della donna. Uomo e donna sono uguali nel loro essere formati della stessa carne e delle stesse ossa, degli stessi elementi più fragili e più solidi, nel loro comune essere deboli e forti, nel loro destino comune, quello di darsi vicendevolmente aiuto e compagnia.


Wiligelmo, Creazione di Eva e peccato originale
Facciata del duomo di Modena


Anche l’interpretazione del riferimento alla costola può portare ad una lettura di questo tipo. In effetti il termine sela’ (“costola”) non è di origine ebraica, ma deriva dal sumerico Ti(l) che significa tanto “costola”, quanto “vita”. Si pensa che il duplice significato abbia origine dalla calla limnei, un fiore che cresce nelle paludi, luoghi di morte, e il cui peduncolo ha una forma simile alla costola umana. Dall’indicare il fiore il termine avrebbe quindi assunto il significato di costola e di vita. Del resto nel capitolo 3 l’uomo chiamerà la moglie Eva, una forma della parola ebraica “vita”. È quindi possibile che anche in questo caso il racconto abbia caratteri eziologici e che si sviluppi su un gioco di parole tra “costola” e “vita” che appartiene al mondo mesopotamico.

“Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne. Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna.” (Gen. 2, 24-25)

L’uomo ha finalmente trovato un aiuto a lui simile: gli animali, che Dio aveva creato per lui, non gli sono bastati. La donna, invece, della sua stessa carne appaga il suo bisogno di aiuto, di affetto. Tutta la tradizione ha visto in questi versetti un riferimento al matrimonio, all’unione di uomo e donna, unione fisica e spirituale. Una linea interpretativa, poi, ha visto nell’immagine “i due saranno una sola carne” non tanto un riferimento all’unione sessuale, quanto al frutto dell’unione, il bambino che, in effetti, è un carne sola ed è formato tanto dai cromosomi paterni quanto da quelli materni, partecipa del padre e della madre.


Dio presenta Eva ad Adamo - Cambridge, Fitzwilliam Museum, ms. 251, f. 16.


Dio ha creato l’uomo in una condizione di perfezione, gli ha dato un ruolo centrale nel creato, ma ha stabilito con lui anche un patto. Si pensa che il redattore, nel comporre i capitoli 2 e 3 strutturi il racconto delle origini sul modello del patto stabilito tra Dio e Mosè sul Sinai: “Dio ha preso Israele in Egitto, fuori dalla terra di Canaan e lo ha fatto suo popolo; gli ha dato i comandamenti come clausole dell’Alleanza: se il popolo li osserva sarà benedetto, o meglio ‘vivrà’; se non li osserva verrà maledetto, condotto in esilio, o meglio ‘morrà’”. Allo stesso modo “L’uomo è creato nell’ ‘adamah, nella terra incolta, fuori dal giardino; Yahvè-Elohim trasporta l’uomo nel suo giardino; gli dà un comandamento, la proibizione di mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male. Questa è la condizione perché l’uomo possa vivere, infatti nel giardino c’è l’albero della vita. Ma l’uomo non osserva questo comandamento, deve perciò ‘morire’, cadere sotto la maledizione e lasciare il giardino.” (Mario Cimosa, Genesi 1-11. Alle origini dell’uomo, Brescia, Queriniana, 2001, p. 38)

Il secondo capitolo del libro della Genesi nel linguaggio semplice di una tradizione di origine orientale, di una tradizione popolare dai tratti quasi infantili, che affonda le sue radici nel mondo mesopotamico di un passato lontano, ci pone quindi di fronte ad alcune riflessioni che sono ancora molto attuali. In un linguaggio suggestivo ci parla del rapporto tra uomo e creature viventi (un rapporto di collaborazione, non di dominio), dell’uguaglianza tra uomo e donna, della necessità dell’uomo di realizzarsi in rapporti relazionali, dell’unione tra uomo e donna a formare una famiglia. Ci parla di un giardino ideale che è una forma di società perfetta di cui l’uomo è il custode. Ci parla di un mondo reale, quello mesopotamico, e di un uomo reale, un ‘adam, che vive e lavora nel costruire la società e nell’ordinare il mondo. E ci parla anche, se vogliamo, del continuo interessarsi di Dio nei confronti dell’uomo...

Il percorso, oltre che dalle immagini a mosaico del pavimento del Duomo di Novara, prende spunto da una conferenza di mons. Gianfranco Ravasi nella chiesa di San Fedele a Milano. Ulteriori stimoli sono venuti dalla lettura di Mario Cimosa, Genesi 1-11. Alle origini dell’uomo, Leggere oggi la Bibbia, 1.1, Brescia, Queriniana, 2001; Pauline Viviano, Genesi, La Bibbia per tutti, 2, Brescia, Queriniana, 1994; Emmanuele Testa, Genesi, Nuovissima versione della Bibbia, 1, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1986. Il testo utilizzato per l’analisi del capitolo 2 del libro della Genesi è quello della versione ufficiale della CEI.