ITALIANO - Esame di stato

Tipologia A – Analisi del testo

Analisi e interpretazione dei testi: i testi poetici

di Rosa Castellaro, UCIIM


Tu e io
di David Maria Turoldo

Fino a quando ti aggirerai
per questa selva di pensieri?
Tuo asilo sono i recessi
inesplorati del cuore
Tue strade sono le vene oscure,
tu e io siamo un paese
solo, ancora ignoto.
Signore, che io veda
almeno le ragioni
di una gioia o di un dolore
sempre stranieri.
Potessi scendere alle radici
di erbe che fanno
di me una steppa selvaggia
e liberarmi dall’amara palude.
Fammi dono di essere
uomo libero
consumato nel canto.

da Il sesto angelo, Mondadori, 1976
La raccolta di poesie Il sesto angelo ha come sottotitolo Poesie scelte – prima e dopo il 1968 ed è stata pubblicata nel 1976. E’ suddivisa in cinque sezioni, ognuna delle quali è introdotta da un passo in prosa.

La sezione nella quale si trova la poesia Tu e io è intitolata
Forse è sempre così. La poesia è preceduta da questa considerazione dell’autore:

… No, non è possibile rassegnarsi al quotidiano, né credere al determinismo; l’eterno ci graffia dentro anche se non vogliamo, l’eterno esplode nel centro dei nostri piani, per questo i conti non tornano mai…

David Maria Turoldo (Moderno del Friuli, 1916 - Milano 1992), considerato tra i poeti più insigni del Novecento, fu sacerdote dell’Ordine dei Servi di Maria.

Comprensione del testo



Dopo una prima lettura, rendi esplicito il contenuto informativo del testo.

La poesia si propone come un dialogo tra il poeta e un “Tu” con il quale sembra esistere una consuetudine di discorso, e che viene invocato successivamente come “Signore”.
A questo interlocutore viene posta inizialmente una domanda: fino a quando egli vorrà continuare il suo cammino tortuoso tra i pensieri che oscurano la mente del poeta sino a renderla simile a una foresta inestricabile?
I luoghi dove questo “Tu” si aggira sono i nascondigli più inestricabili del cuore e le vene più profonde del corpo stesso del poeta: la terra dai confini ignoti in cui entrambi abitano è la stessa.
Almeno – chiede il poeta – gli sia concesso di capire le ragioni della felicità e del dolore, per lui sempre incomprensibili nel loro succedersi.
Ancora chiede che diventi possibile per lui scendere nelle zone più oscure del suo animo, là dove crescono erbe selvatiche che lo inaridiscono trasformandolo in un terreno improduttivo: possa in questo modo liberarsi dalla infida palude del male.
Ma se ciò gli è negato, il poeta chiede almeno di poter mantenere sempre la sua dignità di uomo libero e di consumare la sua vita nella poesia.


Formula la tua ipotesi sull’interlocutore del poeta e, partendo da questo indizio, indica in quale ambito poetico può collocarsi il componimento.

L’interlocutore è con evidenza il Signore dell’universo e del cuore umano, Dio onnipotente: è lui che il poeta sente vivere dentro di sé, ed è ancora lui l’unico che possa dare una risposta alle sue domande.
La poesia può quindi essere collocata all’interno del genere religioso.


Individua gli elementi linguistici che fanno riferimento al “Tu” e all’”io” del titolo.

Il componimento contiene continui richiami linguistici ai due termini individuati dal titolo: “ti”, “Tuo”, “Tue”, “tu e io”, “io”, “me”, “liberarmi”, “fammi”.


Spiega il significato dell’espressione “questa selva di pensieri” del v. 2 e indica l’ascendenza letteraria del termine “selva”. Designa poi la figura retorica a cui l’immagine dà luogo.

Avvalendosi della capacità sintetica tipica della lingua poetica, l’espressione “selva di pensieri” riesce a condensare in sé una pluralità di significati: la moltitudine dei pensieri che tormentano l’animo del poeta, numerosi come gli alberi di una foresta; il senso di angoscia che questi pensieri determinano, simile alla situazione di chi si trova sperduto in un bosco; l’idea di oscurità, quindi di mancanza di certezze, collegata allo spessore delle fronde che impediscono il passaggio della luce.
La presenza del dimostrativo “questa” rafforza poi l’immagine, attribuendole l’idea del suo incombere nel presente, nell’attimo stesso in cui viene pronunciata la domanda del poeta, destinata a rimanere senza risposta.
Il termine “selva” rimanda inevitabilmente alla “selva” entro la quale si perde Dante all’inizio del suo viaggio ultraterreno, intrapreso per cercare la luce della salvezza: “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita” (Inf. I, 1-3).
Nell’espressione si può riconoscere la figura retorica della metafora.


Nei vv.6-7 il poeta, a proposito del suo interlocutore, afferma: “tu e io siamo un paese / solo, ancora ignoto”. Chiarisci il significato di questa affermazione.

Il “Signore” invocato dal poeta non è un Dio lontano, immobile nel suo Empireo, ma un compagno di viaggio che conduce per mano alla meta: la terra dalla quale l’uomo si è allontanato, e alla quale vuole ritornare. Il Paese al quale entrambi appartengono è ancora ignoto al poeta, ma è ferma in lui la certezza che quello è il solo luogo nel quale il “Tu” e l’”io” potranno riconoscersi finalmente come una sola cosa.


Spiega il significato dell’invocazione contenuta vv. 8 - 11 e considera il valore che assume in essa la parola “stranieri”.

L’invocazione assume una speciale forza dal suo essere indirizzata non più a un “Tu”, ma al “Signore”: si tratta quindi di una richiesta fondamentale per placare l’inquietudine dell’animo del poeta. E’ questo in realtà il problema centrale che da sempre ha tormentato la coscienza dell’uomo: il perché del bene e del male, della felicità e del dolore, compagni della nostra vita. Le “ragioni” del loro succedersi sfuggono alla nostra comprensione: è come se appartenessero a un paese “straniero” rispetto a quello dove abita l’uomo. La logica umana non può accettare il dolore che colpisce spesso creature innocenti, né sa sempre riconoscere la felicità; il termine “stranieri” che si unisce a “dolore” e “gioia” connota dunque la loro incompatibilità con ciò che riteniamo specifico del pensiero umano, l’adeguatezza dell’effetto rispetto alla causa.
Il poeta, consapevole della stoltezza della sua domanda, chiede di poter “vedere” con occhi diversi rispetto a quelli che la debole natura umana gli ha fornito, per poter almeno accostarsi al mistero del dolore, anche senza comprenderlo pienamente.


Quale immagine dell’animo del poeta si ricava dai vv. 12-15?

I vv. 12-15 completano l’immagine della propria interiorità data dal poeta nei versi iniziali attraverso la metafora “selva di pensieri”. Qui altre due metafore, splendide per la loro capacità evocativa, ma terribili nel loro significato, descrivano il desolato paesaggio di un animo travolto dal dubbio: “steppa selvaggia” e “amara palude”. Questo non è certo il “paese” in cui il poeta vorrebbe incontrare il suo interlocutore, per unirsi per sempre a lui; egli sa bene che a impedirgli l’ingresso in quel luogo felice è il male che ancora intorbida il suo spirito, e che non sa estirpare perché le sue radici sono troppo profonde. Ecco allora la preghiera di poter scendere sino a quelle radici, per poterle strappare e trovare finalmente la pace.


In che modo nei tre versi finali il poeta chiede di potersi riscattare dal suo tormento interiore?

I versi finali della poesia contengono una richiesta diversa dalle precedenti: non più la capacità di capire le ragioni più profonde dell’esistenza umana, ma il coraggio di vivere da uomo libero e di infondere nel “canto” quel desiderio dell’Eterno che lo consuma.
La dignità del vivere viene dunque riconosciuta nell’operare tra gli uomini da uomo libero, e soprattutto nel mantenersi fedele alla sua missione di poeta.


Rileva le forme metrico - foniche della poesia

Il componimento, composto di 18 versi, è diviso in cinque strofe di varia lunghezza: la prima contiene due versi, la seconda cinque, la terza e la quarta quattro, la quinta tre.
I versi sono liberi, ma si riconoscono molti metri tradizionali: novenari (“per – que-sta - sel-va – di – pen-sie-ri”); settenari (“con-su-ma-to – dal - can-to”); quinari (“sem-pre – stra-nie-ri”).
I vv. 16 e 17, se letti insieme, formano un endecasillabo: “Fam-mi - do-no – di es-se-re – uo-mo – li-bero”
Grande rilievo assumono gli enjambements: vv. 1-2; 3-4; 6-7; 8-9; 10-11; 12-13; 13-14; 16-17; 17-18.
La figura dell’allitterazione riguarda in particolare le consonanti “s”, iniziale di Signore (ne sono esempi nel secondo verso “questa selva di pensieri e, nella seconda strofa asilo, recessi, inesplorati, strade,oscure, siamo, solo), e la “t”, presente nel “Tu” del titolo: ti, questa, Tuo, inesplorati, Tue, tu, ignoto,stranieri, Potessi,canto; con frequenza si ripete anche la vocale “u” (pure presente nel “Tu” del titolo): quando, questa, Tuo, cuore,Tue, oscure, tu, un, palude, uomo, consumato.
Alcune rime e assonanze sono disposte liberamente nel componimento: pensieri (v. 2) – stranieri (v. 11); cuore (v. 4) – dolore (v.10); oscure/palude (v. 5- 15); paese/essere (v. 6- 16).


Spiega il significato del titolo

Il titolo mette in evidenza il tema della poesia: un dialogo tra il poeta e un “Tu” misteriosamente lontano e nel tempo stesso presente nell’animo e nel corpo di chi lo invoca. La poesia è volta a costruire il senso della congiunzione “e” che collega i due termini: ad essa non compete la funzione di individuare due cose diverse, staccate l’una dall’altra, ma di riconoscere l’indissolubile unità che le lega: “tu ed io siamo un paese/ solo, ancora ignoto”.


Sulla base dell’analisi condotta, proponi una tua interpretazione complessiva della poesia, tenendo presente anche la considerazione premessa dell’autore e riportata nella nota informativa che segue il testo.

La breve considerazione premessa alla poesia appare quasi la confessione della fatica del poeta in cammino alla ricerca di un Dio inteso non solo come principio teologico astratto, ma come garante dell’autenticità del proprio essere e della propria libertà.
La frase inizia con la dichiarazione, resa ancora più evidente dal “no” introduttivo, dell’impossibilità per ogni creatura dotata di ragione di “rassegnarsi al quotidiano”, cioè di vivere alla giornata, soffocando qualsiasi esigenza metafisica, e di “credere al determinismo”, ovvero a un destino prefissato, del quale si ignorano le cause e la finalità.
Ciò che interessa il poeta, dunque, non è l’effimero trascorrere dei giorni, ma l’eterno. E questo “eterno” non è concepito come un porto di pace, ma come fonte di inquietudine e di tormento: esso “ci graffia”, “esplode nel centro dei nostri piani”, fa in modo che nulla ci appaghi sulla terra: “i conti non tornano mai”.
Per questo la poesia di David Maria Turoldo non è mai una placata effusione del cuore, ma sempre un grido lacerante dello spirito, motivato dalla consapevolezza dell’immensa distanza tra la perfezione luminosa del Creatore e “l’amara palude” del cuore umano, soffocato dalle inestirpabili radici del male.
Ma questa distanza, incolmabile per l’uomo, è poca cosa per l’Onnipotente; se invocato, Egli viene ad abitare il cuore e l’animo dell’uomo, sino a farsi compartecipe delle sue stesse pene.
Si giustifica così il titolo della poesia, “Tu ed io”, che potrebbe apparire ad un lettore ignaro della specificità del discorso poetico di David Maria Turoldo quale avvio di un dialogo amoroso.
In questi versi, invece, l’interlocutore del poeta è il suo stesso Creatore, quel Signore che non solo è vivente nell’universo, ma palpita nell’animo e nelle “vene oscure” di ogni uomo.
Il poeta può così affermare che “tu e io siamo un paese solo”, aggiungendo tuttavia che questo paese è “ignoto”: le vie per l’incontro tra l’uomo e Dio non sono segnate da alcuna mappa, ma devono essere individuate nella “selva” che rende oscuro il pensiero dell’uomo.
A questo Dio che percepisce come presente, anche se ancora nascosto, il poeta può rivolgere la domanda che dall’inizio dei tempi tormenta l’umanità: quali sono le ragioni della felicità e del dolore che giungono ospiti sempre imprevedibili della nostra vita? Ma questa domanda egli sa bene quanto sia inopportuna, come insegnano Giobbe eQ Qohelet; l’unica risposta possibile deve essere cercata dentro di sé, in quel groviglio di male e di orgoglio che fa della mente umana non la palestra del logos, ma una “steppa selvaggia.”
Non la superba conoscenza del bene e del male può appagare il suo spirito – conclude il poeta – ma la conquista della libertà: non pretende di essere un sapiente, ma chiede a Dio di essere semplicemente un “uomo libero”, capace di spendere questa sua libertà a favore di tutti i suoi simili, illuminandoli e consolandoli con la sua poesia. Egli sa bene che quel canto , nato dal dolore per le pene degli uomini, lo logorerà, ma capisce anche che è il compito della sua vita; la sua voce dovrà arrivare a disilludere tutti coloro che, per fuggire alla propria infelicità, pensano
vanamente e colpevolmente di trovare la pace nel nulla, nel vuoto, e non trovano la forza e l’umiltà di andare incontro a Colui che si aggira in quella “selva di pensieri” proprio per incontrarli e donar loro la vera pace.