Un percorso didattico per le arti nel territorio:

La pittura quattrocentesca nel Piemonte sud-occidentale

di Stefano Manavella


Dipartimento di Discipline Artistiche Musicali e dello Spettacolo Università di Torino

Il Piemonte si può considerare, per gran parte della sua storia, una regione periferica rispetto ad altre zone del territorio italiano. Non possedette centri elaboratori di cultura paragonabili a Firenze, Milano o Venezia, anche perché fu privo, almeno fino al Seicento, di grandi città importanti a livello economico e politico. Ancora nel Quattrocento, il periodo preso in considerazione da questa indagine, Chieri grazie ai suoi commerci era più popolosa di Torino. Tuttavia la collocazione periferica rispetto ai grandi centri di cultura italiani ed europei non impedì al Piemonte di partecipare con manifestazioni originali e significative ai movimenti artistici sorti nel corso del XV secolo. La sua posizione nell'area alpina ne fece anzi un luogo d'incontro, di scambio e di fruttuose contaminazioni tra diverse correnti artistiche, legate in particolare alla Francia, alla Liguria, alla Lombardia e all'area padana. In questo contesto il territorio del Piemonte sud-occidentale, corrispondente all'attuale provincia di Cuneo, che si vuole qui analizzare, costituisce un caso esemplare, perché grazie alla sua ubicazione geografica si qualificò come punto di convergenza d'influenze provenienti dal Piemonte centrale (specie dall'area Pinerolo-Torino), dalla Francia meridionale, dalla Liguria e dall'ambito lombardo (includendo in questo termine anche l'Alessandrino e l'Astigiano, sensibili ad influssi di tale provenienza). Costante è stato in particolare il dialogo con la Liguria, specie di Ponente, a sua volta mediatrice di componenti culturali composite, di matrice francese, lombarda o toscana. Può essere utile, nel considerare la situazione culturale del Piemonte sud-occidentale nel Quattrocento, ricordarne l'articolazione in diverse entità politiche ed ecclesiastiche, che contribuirono a differenziare le aree artistiche. Le realtà più importanti erano il Marchesato di Saluzzo (comprendente la pianura e le vallate circostanti, confinando verso oriente all'incirca col corso del fiume Maira); Alba e il suo circondario, legati al Monferrato; il Capitanato di Ceva, dominato nel primo quarto del secolo dagli Orléans, che si estendeva nell'angolo sud-orientale della regione, ai confini con la Liguria; infine i territori controllati dai Savoia-Acaja, che includevano la fascia pianeggiante inserita tra il marchesato saluzzese e i territori albesi e cebani (in cui spiccavano i comuni di Savigliano, Bra, Fossano, Cuneo e Mondovì), attraversata dalle vie che portavano al mare, in particolare al Nizzardo (entrato nell'orbita savoiarda dal 1388), passando per le valli Stura, Gesso o Vermenagna. In ambito ecclesiastico, il territorio era amministrato dalle diocesi di Torino nella parte occidentale e da quelle di Alba e Asti in quella orientale, cui si era aggiunta da poco, nel 1388, il vescovato di Mondovì. I centri di potere civile o religioso non mancarono d'influenzare lo sviluppo delle committenze artistiche. Ad esempio a Centallo, dove i feudatari Bolleris erano ostili ai Savoia e alleati invece dei Saluzzo, lavorarono dei pittori legati al vicino marchesato saluzzese, Pietro Pocapaglia e Hans Clemer. In campo religioso si può invece citare il caso di Giovanni Mazzucco, che intervenne più volte in cantieri domenicani del Monregalese, segno forse di un particolare apprezzamento per la sua maniera da parte di quell'ordine, mentre i fratelli Biazaci sembrano aver intrattenuto dei rapporti privilegiati con i Francescani, operando in alcune loro fondazioni piemontesi e liguri.
Nella fascia meridionale della provincia, in cui si distinsero i centri di Mondovì, Ceva e Cuneo, si conservano importanti testimonianze sin dal tardo Trecento. A Cuneo sono da ricordare nel convento del S. Francesco una Madonna in trono tra Santi e un S. Cristoforo, mentre a Mondovì le presenze aumentano verso la fine del secolo, con la Madonna della sacrestia del duomo (d'incerta provenienza, al cui autore è attribuita anche una tavola in collezione privata astigiana), le Storie di S. Antonio nel Palazzo Vescovile e l'Annunciazione di Vicoforte Fiamenga. Nel Cebano invece si segnalano lo splendido ciclo della cappella del castello di Saliceto e la decorazione della controfacciata del S. Martino di Ormea. Le opere monregalesi e cebane citate, tutte databili attorno al 1390, rivelano degli influssi liguri, legati a maestri come Barnaba da Modena, Francesco d'Oberto e Taddeo di Bartolo. Ad Ormea siamo anzi di fronte al primo caso accertato di un pittore attivo su entrambi i versanti delle Alpi Marittime: alla stessa bottega sono infatti assegnabili degli affreschi a Bastia d'Albenga (il ciclo più importante, che gli ha guadagnato l'appellativo di "Maestro di Bastia d'Albenga") e a Pieve di Teco.
Su questo fertile humus ligure-piemontese cresce l'esperienza di Rufino "de Alexa" (d'Alessandria), noto per documenti a Mondovì nel 1413-1414 e per il polittico firmato del municipio di Marsaglia (proveniente dalla chiesa della Consolata). A Rufino, figura dominante del panorama culturale monregalese nel primo quarto del Quattrocento, sono attribuiti anche alcuni affreschi: la Madonna in trono col Bambino e S. Antonio Abate della facciata della parrocchiale di Mondovì Breolungi, la raffinata lunetta dell'ex-chiesa di S. Francesco a Ceva e il notevole ciclo dell'antica parrocchiale di S. Caterina a Villanova Mondovì, recentemente ricuperato. Queste opere evidenziano i suoi legami con la cultura tardogotica ligure (da Barnaba da Modena al "Maestro di Incisa Scapaccino") e lombarda (di cui si colgono gli echi a Villanova). Simili componenti si ritrovano, con esiti però differenti, in altri affreschi del Cebano, databili al primo quarto del XV secolo: una Madonna col Bambino, un Santo cavaliere e un S. Bartolomeo nel S. Nazario di Lesegno, di delicata fattura, con fondo a racemi stilizzati già presente in Rufino e che si ritrova anche in due dipinti nella cappella di S. Antonio a S. Michele Mondovì, un S. Bartolomeo e un Santo diacono, di poco successivi rispetto alla Madonna col Bambino tra S. Giovanni Battista, S. Michele e altri santi della lunetta soprastante al S. Bartolomeo. Quest'ultima opera, di qualità eccezionale, rimanda ad una cultura tardogotica ligure-lombarda, in particolare ai modelli di Andrea de Aste (si vedano le Madonne di Portovenere e di Quarto), del "Maestro di S. Albano" e del "Maestro del Polittico di Lavagnola" di cui si parlerà fra breve.
Nel Saluzzese invece non si annoverano opere di particolare rilievo nella seconda metà del Trecento, tali almeno da chiarire le origini e lo sviluppo rigoglioso che la cultura del Gotico cortese ebbe poi a cominciare dai primi decenni del XV secolo. A modelli ancora tardo-trecenteschi rimanda però il finto trittico affrescato nella prima cappella a destra del S. Giovanni di Saluzzo, con la Madonna col Bambino in trono, fra i SS. Bartolomeo e Giacomo. Anche qui i prototipi di riferimento paiono d'origine ligure, fra Barnaba da Modena, Taddeo di Bartolo, Giovanni da Pisa e Nicolò da Voltri. L'alta qualità dell'opera e la mancanza di stilemi di Gotico Internazionale fanno propendere per una datazione compresa entro il primo ventennio del Quattrocento, prima cioè della diffusione dei modelli cortesi elaborati dal "Maestro della Manta" e dal "Maestro di S. Albano". Dunque si può respingere la proposta di Vacchetta di un'attribuzione al Domenico Pocapaglia attivo nel 1467 a Savigliano, basata sulla presenza al di sotto dell'affresco dello stemma della famiglia Pocapaglia. Semmai si potrebbe pensare al suo omonimo (detto "di Savigliano") testimoniato a S. Albano Stura nel 1390 e nel Monregalese tra il 1396 e il 1398 per l'esecuzione di stemmi sulle porte cittadine, ipotesi che si adeguerebbe meglio ai caratteri stilistici del dipinto, accostabili, per le ascendenze liguri e la simile datazione, ai già citati Madonna col Bambino e S. Bartolomeo affrescati nel S. Nazario di Lesegno.
Il S. Giacomo dell'affresco saluzzese sembra d'altro canto anticipare, per il tipo del volto, gli Apostoli della Dormitio della Vergine nell'absidiola destra del S. Peyre di Stroppo, in alta val Maira, parte di un ciclo con Storie della Vergine databile al secondo decennio del Quattrocento e anch'esso incluso in un circuito di cultura ligure-piemontese. Questi dipinti deliziosi sono una delle più precoci tappe della fortuna nel Saluzzese del gusto gotico internazionale, del quale presentano alcuni caratteri peculiari, come l'unione fra l'attenzione al singolo dettaglio realistico e di costume (ad esempio nel pastore con la cornamusa), l'eleganza delle pose e la leggiadria delle espressioni (specie negli angeli), l'allungamento innaturale delle figure e la loro inconsistenza corporea. L'autore di questi affreschi dovette conoscere la corrente più aperta in direzione cortese della cultura ligure d'inizio Quattrocento, incarnata dal "Maestro d'Incisa Scapaccino" e successivamente da Andrea de Aste, forse identificabili con una medesima personalità (secondo l'ipotesi di Andrea De Marchi), specie se tra il polittico astigiano e le Madonne liguri di Andrea s'inseriscono opere come l'Adorazione dei Magi già in collezione Imperiale a Genova, accostabile per alcuni aspetti agli affreschi di Stroppo.
Simili richiami culturali valgono anche per il gruppo di dipinti riuniti da Giovanna Galante Garrone attorno al nome convenzionale di "Maestro di S. Albano", dal ciclo di affreschi della cappella del castello di S. Albano Stura, collocabile nel secondo decennio del Quattrocento (post 1412, per la presenza dello stemma dei saviglianesi Beggiamo, che vennero infeudati a S. Albano da Ludovico d'Acaja in quell'anno). Agli affreschi di S. Albano, ancora in parte coperti da scialbo, si possono avvicinare i SS. Costanzo e Sebastiano di un sottarco nella navata destra del S. Francesco di Cuneo, tre dipinti sulla facciata dell'antica parrocchiale di Verzuolo (una Madonna col Bambino tra i SS. Filippo e Giacomo nella lunetta e i vicini riquadri con S. Cristoforo e S. Barbara), un Cristo in mandorla tra angeli nel sottotetto del S. Bernardo di Saluzzo e l'importante ciclo con Storie della Passione ricuperato nella cappella dei SS. Crispino e Crispiniano nel S. Giovanni di Saluzzo. Anche un frammento di miniatura ritrovato nella chiesa di S. Margherita a Chiappera, frazione di Acceglio (in alta val Maira), con una scena di Giudizio di una santa, forse Margherita, è stato accostato a questo filone, che si contraddistingue per un marcato gusto ornamentale e lineare, per la delicatezza degli incarnati e la sinuosità delle posture e dei panneggi, per la ricercatezza dei particolari (si veda l'eleganza del Cristoforo verzuolese o di molti personaggi, specie femminili, degli affreschi saluzzesi), nonché, limitatamente alle Storie della Passione, per una singolare fantasia nell'utilizzare architetture fiabesche al fine d'unificare la composizione. L'origine di queste squisite preziosità cortesi è nuovamente da ricercare nel contesto ligure d'inizio secolo, nell'ambito Maestro d'Incisa - Andrea de Aste (si confronti in particolare la Madonna di Verzuolo con le tavole di Andrea a Quarto e Portovenere), con una combinazione di elementi di matrice lombarda con altri di tradizione ligure-toscana, come la tipologia degli angeli della volta saluzzese, non lontana da quelli di Stroppo. Ma i riscontri sono ancora più puntuali con l'autore del polittico con la Madonna tra Santi già nel S. Dalmazio di Lavagnola, presso Savona; si accosti in particolare il S. Dalmazio della tavola ligure con i due Santi guerrieri di Cuneo. L'anonimo di Lavagnola evidenzia del resto anch'egli palesi debiti verso i modelli di Andrea de Aste, che interpreta con uno spirito più pungente che fa pensare alla sensibilità dei pittori monregalesi (è da questo punto di vista significativa, seppur non condivisibile, l'attribuzione proposta alcuni anni fa ad Antonio da Monteregale).
In un simile ordine di problemi rientra, oltre alla già ricordata Madonna tra Santi nel S. Antonio di S. Michele Mondovì, anche il ciclo con Storie della Vergine nel santuario della Madonna del Castello a Caraglio (già cappella del castello), che un'iscrizione letta all'inizio dell'Ottocento, al momento della sua riscoperta, datava al 1410. Questi affreschi, che uniscono sinuosità di panneggi corposi, colori delicati, gusto decorativo e irrazionalità prospettica (ma che non sono privi, talora, anche di certe brutalità popolareggianti), sono stati letti in una più accentuata direzione lombarda, notando affinità con la miniatura della fine del Trecento e spiegando tali componenti tramite la committenza di Bartolomeo Solaro, feudatario di Caraglio dal 1393, proveniente da Asti, che al tempo era nell'orbita dei Visconti. Anche se non si accetta tale ipotesi, è interessante sottolineare il ruolo di crocevia culturale tra Lombardia, Piemonte e Liguria che Asti può aver esercitato ad inizio Quattrocento ed è in tal senso indicativa la verosimile origine astigiana del pittore Andrea "de Aste".
Accanto a questa corrente ligure-lombarda, un'altra feconda stagione tardogotica presenta nel Saluzzese caratteri jaqueriani, o meglio, affinità col Pinerolese, a cominciare dalla celebre Sala Baronale nel castello di Manta. Questi affreschi straordinari, uno dei massimi capolavori del Gotico Internazionale a livello europeo, sono singolari sia per l'iconografia che per lo stile. Il ciclo venne commissionato da Valerano detto il "Burdo", figlio naturale del marchese Tommaso III, che ereditò dal padre il feudo di Manta e resse lo stato durante la minore età di Ludovico I, tra il 1416 e il 1426, anni entro cui si può collocare la ristrutturazione del castello mantese e la sua decorazione. Le tematiche profane, che si configurano come un unicum nel panorama pittorico quattrocentesco del nostro territorio, s'ispirano a soggetti ampiamente diffusi nella cultura medievale, specie in Francia (sia in letteratura che nelle arti figurative, ad esempio nella miniatura e negli arazzi), ovvero la sfilata dei Prodi e delle Eroine e la Fontana della Giovinezza. Più in particolare, l'origine della parete con gli Eroi è da riconoscere in un romanzo scritto dallo stesso Tommaso III alla fine del Trecento, lo Chevalier Errant, per cui la scelta di Valerano sembra delinearsi quasi come un omaggio al padre defunto, mentre nella nostalgia che pervade il tema, ravvisabile anche nella Fontana della Giovinezza (che interpreta con incantevole verve la leggenda della sorgente miracolosa le cui acque avevano il potere di ringiovanire) si potrebbe cogliere una riflessione di Valerano sulla mutevolezza della fortuna, stimolata dalla transitorietà del suo potere, che venuto il tempo opportuno trasferì al legittimo erede senza colpi di mano, con un'onestà da vero "cavaliere d'altri tempi". Tali temi, come anche l'eccentrica foggia dei costumi e delle acconciature (elemento prezioso per la datazione, che non può oltrepassare di molto il 1420) e le stesse componenti formali, rimandano con insistenza alla cultura francese e in particolare all'ambiente della corte di Carlo VI con il quale Tommaso III e Valerano ebbero ripetuti contatti. Dalla testimonianza del cronista Gioffredo della Chiesa sappiamo del resto che Tommaso riportò a Saluzzo da Parigi nel 1405 "molte belle cosse e gentilezze", tra cui oggetti d'oreficeria (un orologio e un mappamondo), manufatti lignei (un gruppo di figure componenti un Santo Sepolcro e un corodestinato alla chiesa di S. Domenico, l'antico S. Giovanni) e codici "in francioso" miniati, un riflesso dei quali ci è conservato nelle due copie dello Chevalier Errant decorate nel primo decennio del Quattrocento da due rilevanti atelier parigini, fra cui una attribuita al "Maestro del Cité des Dames" e custodita ora alla Biblioteca Nazionale di Parigi, che contiene due miniature coi Prodi e le Eroine che si pongono come un precedente iconografico per i nostri affreschi. La superba qualità di questi ultimi ha sollecitato gli studiosi alla ricerca di adeguati confronti stilistici che potessero supportare un'attribuzione, prendendo in considerazione alcuni fra i più importanti artisti attivi nei primi decenni del Quattrocento tra il Piemonte centrale e la Provenza. Sono infatti stati richiamati, a diverso titolo, i nomi di Jacques Iverny, Giacomo Jaquerio, Jean Bapteur, Dux Aymo e Guglielmetto Fantini, senza per ora giungere ad un risultato definitivo. Fra questi si possono senz'altro escludere i riferimenti ad Iverny e a Bapteur, mentre sono significativi i punti di contatto con la maniera di Jaquerio (specie per certe asprezze visibili nella nicchia con la Crocifissione fra due Santi sulla parete di fondo e nella Fontana di Giovinezza, in genere ritenuta opera della bottega del Maestro dei Prodi, per i caratteri più popolareschi) e con quella del Duce, come emerge da certi dettagli dei suoi affreschi firmati a Villafranca Sabauda, databili attorno al 1430 (affinità forse spiegabili a causa di un'influenza dell'anonimo mantese su Aimone). E' bene ricordare che proprio al tempo in cui Valerano saliva al potere erano documentati al servizio della corte degli Acaja a Pinerolo sia Jaquerio che il Duce, in coincidenza fra l'altro con l'invio (1417) del busto-reliquiario con S. Giovenale, commissionato da Ludovico d'Acaja e opera dell'orafo pinerolese Serafino, all'omonima collegiata di Fossano, anch'esso sorto in una temperie jaqueriana e accostabile agli affreschi mantesi per la capigliatura a corta zazzera e per l'indagine psicologica.
Ad un confronto con l'ambito pinerolese rimandano anche tre cicli di affreschi databili attorno al 1430, situati nella cappella del castello di Manta (con Storie della Passione), in S. Maria del Monastero, sempre a Manta (con un Giudizio Universale, un'Annunciazione, una Deposizione e diverse figure di Santi) e nella cappella della SS. Trinità a Scarnafigi. I dipinti del Monastero sono più delicati, mentre quelli di S. Maria del Castello e di Scarnafigi si segnalano per un disegno veloce e sinuoso, talora trasandato ma percorso da una vitalità quasi frenetica, in cui risaltano fisionomie incisive e deformazioni espressive. Riscontri precisi, ad esempio tra la Deposizione di Manta e l'analogo soggetto della calotta absidale di Scarnafigi, permettono di assegnare tali cicli ad una stessa bottega, che rivela strette affinità con gli affreschi della parrocchiale di Roletto, vicino a Pinerolo e più blande, seppur significative, analogie con i dipinti della Sala Baronale, specie con la parete della Fontana, alla quale si è supposto che tali maestranzeabbiano collaborato. Giovanna Galante Garrone ha proposto di collegare queste opere, unitamente al corpus del "Maestro di S. Albano", con le notizie documentarie relative alla dinastia di artisti Pocapaglia. Già si è ricordato il Domenico "di Savigliano" attivo a S. Albano e nel Monregalese alla fine del Trecento, a cui seguono le testimonianze su Antonio Pocapaglia, detto invece "saluzzese", operante a Savigliano nel 1415, intento tra il 1428 e il 1430 ad eseguire (a Saluzzo) un'ancona per l'altare maggiore della collegiata di Fossano, con un "Crocefisso di rilievo fregiato di bellissimi ornamenti" (per le cui dorature fu necessario ricorrere a Genova) e impegnato nel 1437 alla decorazione di uno dei due chiostri del S. Francesco di Fossano (dove realizzò forse una "balada", ovvero verosimilmente una Danza macabra). Dal 1438 iniziano le informazioni su Pietro Pocapaglia da Saluzzo, proprio in concomitanza con l'apparente sparizione di Antonio, cosa che ha fatto ipotizzare una sua sostituzione a capo dell'atelier prima guidato dal presunto parente. Nel 1467 un altro pittore Domenico Pocapaglia partecipa alla preparazione degli apparati per la venuta a Savigliano di Amedeo IX, mentre al terzo quarto del Quattrocento risalgono diverse testimonianze su un Pietro Pocapaglia "de Saviglano", "aurifice" a Mondovì, dove in due atti del 1454 appare anche un suo fratello di nome Giovanni. I Pocapaglia risultano dunque attivi per un lungo arco di tempo nei centri più importanti della provincia (Saluzzo, Savigliano, Fossano, Mondovì e anche Cuneo) e sebbene non sia chiaro se i due rami della famiglia (quello saviglianese e quello saluzzese, sempre che tale distinzione sia realmente esistita) fossero in contatto, si può ritenere che abbiano costituito, con la loro mobilità, un elemento di dialogo tra le diverse realtà culturali. Purtroppo conosciamo solo la fisionomia stilistica di Pietro, mentre ci sfuggono tutti gli altri componenti. Per Antonio Pocapaglia si sono avanzate molteplici congetture; la rilevanza delle commissioni, che lo fa appare figura di primissimo piano, ha fatto supporre da parte di Giuseppe Dardanello nel 1993 una sua identificazione col Maestro della Manta, l'artista più importante attivo nel Saluzzese all'incirca negli stessi anni. Questa tesi sembrava aver trovato un ulteriore conferma nell'individuazione a Fossano, su un muro superstite dell'antico S. Francesco, accanto alla cosiddetta "Piazza delle Uova", di un lacerto di affresco con dei volti frammentari contro uno sfondo di architetture urbane, parte di una scena narrativa (forse una Visitazione), nel quale si erano scorti dei rapporti con i dipinti di Manta, avvicinando un volto femminile di tre quarti con quello dell'eroina Teuca. In verità questo legame, che non sussiste a livello stilistico, è pure arduo da sostenere dal punto di vista iconografico, tanto è vero che anche la responsabile di tale accostamento, Chiara Vergano, ha successivamente rivisto la sua proposta, inserendo tale affresco nel corpus del "Maestro di S. Bernardo", un pittore di cultura monregalese assai prossimo ad Antonio da Monteregale, che dovette essere attivo a Fossano attorno al 1440. A questo artista si possono assegnare una Madonna col Bambino in trono nel S. Bernardo di Fossano (da cui ha preso il nome), un Santo guerriero (forse Maurizio) e un S. Giovanni Battista anch'essi provenienti dal S. Francesco di Fossano (e ora nella sede della Cassa di Risparmio locale) e un frammentario S. Sebastiano nella chiesa della frazione omonima; inoltre sono vicini alla sua maniera una S. Caterina ferita dagli strumenti del lavoro festivo nel sottotetto dell'antica parrocchiale di Villanova Mondovì e una Madonna col Bambino e angeli nella cappella dell'Annunziata a Mondovì Borgato. Visto che Antonio Pocapaglia è testimoniato nel S. Francesco di Fossano all'incirca in questi anni, la Vergano ha accennato alla possibilità di riconoscerlo nel Maestro di S. Bernardo. Le due affascinanti ipotesi riguardo all'identificazione di Antonio Pocapaglia sono accomunate in verità dalla difficoltà di essere conciliate con la personalità di Pietro Pocapaglia, anche lui saluzzese, che ci è ben nota; bisognerebbe infatti supporre che Pietro avesse tenuto in poco conto l'esempio di Antonio. Non è sufficiente infatti il confronto tra uno dei profili (peraltro quasi interamente perduto) della cosiddetta Visitazione di Fossano e quello della Vergine nell'abside di S. Maria del Belvedere a Vignolo (parte di un ciclo attribuibile a Pietro), proposto recentemente da Elisa Cartei, per poter individuare una linea di continuità tra Antonio (nel caso in cui si accetti una sua equivalenza con il Maestro di S. Bernardo) e Pietro. Da questo punto di vista sarebbe perciò assai più convincente identificare Antonio Pocapaglia, o un altro membro della famiglia all'incirca a lui contemporaneo, con il Maestro di S. Albano, poiché quest'ultimo evidenzia al contrario strettissime affinità stilistiche con Pietro, tanto da costituire un precedente fondamentale della sua maniera. Un legame tra il Maestro di S. Albano e i Pocapaglia può essere inoltre suggerito, come ha notato la Galante Garrone, dalla presenza nella cappella che fronteggia le Storie della Passione nel S. Giovanni di Saluzzo, dell'affresco di cui si è già parlato, con lo stemma dei Pocapaglia ed è inoltre interessante che Domenico Pocapaglia senior sia testimoniato proprio a S. Albano, sebbene una ventina d'anni prima rispetto alla presumibile datazione del ciclo del castello. Dagli archivi è peraltro emersa un'altra figura finora sconosciuta, Sebastiano "de Fontanis", di cui si parla in un documento del 1437, che nel 1443 era detto pittore di Saluzzo e delle cui figlie e eredi nel 1455 Pietro Pocapaglia venne nominato amministratore, cosa che può far pensare all'esistenza di stretti rapporti tra i due artisti. Viste le date, Sebastiano risulta attivo nella prima metà del Quattrocento e andrà dunque tenuto presente anche il suo nome nella rosa di candidati da avvicinare agli anonimi attivi nel Saluzzese in quell'epoca, ovvero il Maestro di Manta, il Maestro di S. Albano e la bottega del gruppo S. Maria del Monastero - S. Maria del Castello - Scarnafigi.
Venendo dunque a Pietro Pocapaglia da Saluzzo, bisogna ricordare che la ricostruzione della sua personalità fu avviata da Mario Perotti negli anni Sessanta, costruendo un corpus di opere omogenee attorno al nome di "Maestro del Villar", dal ciclo più cospicuo, sito nella cappella di S. Giorgio della parrocchiale di Villar S. Costanzo. Proprio il rinvenimento nel 1977 di un'iscrizione a firma degli affreschi di Villar ("Petrus... Salucis", dove nello spazio vuoto doveva inserirsi il cognome) ha permesso di identificare questo artista con il Pietro Pocapaglia di cui si possedevano notizie d'archivio a Fossano e Cuneo. La fisionomia dell'artista è ormai sufficientemente delineata, ma permangono ancora dei dubbi nella cronologia. Elementi fermi sono i cicli di Villar S. Costanzo, firmato e datato al 1469 e le Storie della Passione nel S. Francesco di Cuneo, di cui rimane il contratto di allogazione del 1472. Non firmati, ma attribuibili con certezza a Pietro sono gli affreschi datati di Centallo (1438), Monterosso Grana (1468) e di Castelmagno (collocabile, in base all'iscrizione dedicatoria, tra il 1475, venticinquesimo anniversario di apostolato del committente Enrico Allemandi e il 1480, data delle sue dimissioni dall'incarico). Più dubbi oppure inaffidabili sono i riferimenti cronologici che si sono indicati per altri dipinti. La carriera di Pietro fu assai longeva, prolungandosi dagli anni Trenta agli anni Settanta del Quattrocento e molto prolifica, svolgendosi in vari paesi del marchesato e in altri centri del Cuneese, dove la committenza mostrò di apprezzare il suo linguaggio ornato ed elegante, fedele agli stilemi tardogotici. Punto di partenza è il ciclo frammentario col Transito della Vergine in S. Maria ad Nives a Centallo, datato al 1438, in cui già riscontriamo dei panneggi ricchi di svolazzi e arricci, ma anche abbastanza corposi, nonché una mescolanza fra dolcezze d'ascendenza lombarda e profili più aspri ed espressivi, forse suggeriti dalla tradizione jaqueriana, che s'incontreranno in altre opere precoci, come la decorazione della prima cappella a sinistra e della seconda a destra della parrocchiale verzuolese, gli affreschi dell'abside di S. Maria del Belvedere a Vignolo e quelli della cappella della SS. Trinità a Scarnafigi. Vicini a questo gruppo sono inoltre la Crocifissione e Santi nel S. Agostino di Carmagnola, presenza spiegabile coi legami di questa città con il marchesato saluzzese. Perduti sono invece i Dottori della Chiesa ele Storie di S. Giovenale nella chiesa omonima di Fossano (1445) e la decorazione della facciata della confraternita del Crocifisso nella stessa città (1453), interventi significativi per il loro prestigio e perché si riallacciano all'attività di Antonio Pocapaglia a Fossano alcuni anni prima. Per gli affreschi di Verzuolo si sono proposti due diversi post quem, 1453 e 1459, relativi al rinforzo delle murature e al tamponamento delle finestre poste in precedenza nelle cappelle, ma i documenti assai generici dell'archivio comunale citati dal Boero non consentono affatto di interpretare i lavori svolti in quel periodo nella chiesa in modo preciso. Come ha ben visto la Galante Garrone, questi dipinti si pongono come anello di congiunzione fra il Maestro di S. Albano e l'opera di Pietro, ovvero rivelano delle precise affinità con le Storie della Passione nel S. Giovanni di Saluzzo, databili agli anni Venti del XV secolo. I riscontri tra questo ciclo (e gli altri affreschi assegnabili al Maestro di S. Albano, in particolare i due Santi guerrieri di Cuneo) e la maniera del Pocapaglia sono talmente puntuali da rendere altamente probabile una sua formazione nell'atelier di tale artista, con cui forse collaborò nell'esecuzione degli affreschi saluzzesi e dal quale dovette assorbire le cadenze filo-lombarde che caratterizzano il suo stile. Da ridimensionare è invece, a questo proposito, la portata del suo incontro con gli affreschi, ora perduti, dell'alessandrino Giacomo Pitterio, risalenti al 1404, che secondo le fonti si trovavano nel coro della sopra citata chiesa di Centallo. Pitterio infatti, nel polittico frammentario della Sabauda, proveniente dalla Sacra di S. Michele e negli affreschi a lui attribuiti (ad esempio quelli in S. Antonio di Ranverso), si rivela artista mediocre e attardato, che poco avrebbe avuto da insegnare a Pietro. Ritornando dunque ai dipinti di Verzuolo, l'alta qualità di brani come il Cristo di Pietà o il Martirio di S. Sebastiano e il loro disegno delicato farebbero propendere per una datazione alta, forse ancora inclusa nella prima metà del Quattrocento, anche se non è inverosimile il post quem del 1453. In alcuni di questi personaggi (gli aguzzini del Martirio di S. Sebastiano e gli apostoli dell'Ascensione) si avvertono fisionomie caricate, dai nasi prominenti, che possono riportare ai modelli jaqueriani, che Pietro dovette assimilare in particolare tramite la bottega operosa nelle chiese mantesi e a Scarnafigi, per la quale la Galante Garrone ha d'altronde supposto un collegamento coi Pocapaglia. E' in questo senso significativa la presenza di Pietro nella cappella della Trinità di Scarnafigi, dove completò il ciclo decorativo con una teoria di Apostoli nell'abside e altre figurazioni sulle pareti della navata, tra cui una Trinità (del tipo "orizzontale", che s'incontra tra Quattro e Cinquecento nel Cuneese a Melle, Valgrana, Carrù e Venasca) e una Predica di S. Vincenzo Ferreri, dove la definizione di "beato" posta sul suo pulpito permette di proporre una datazione compresa tra il 1455, anno della beatificazione e il 1458, anno della canonizzazione di Vincenzo.
Per quanto riguarda gli anni Sessanta la maniera di Pietro ci è nota grazie ai cicli datati di Monterosso Grana e di Villar S. Costanzo. A Monterosso è riemersa coi recenti restauri un'iscrizione che indica la data 15 maggio 1468 e che concorda con quello che già si era supposto in passato, ovvero che questi affreschi fossero di poco precedenti a quelli di Villar. I dipinti della cappella di S. Sebastiano a Monterosso sono uno dei risultati migliori della sua produzione, per la raffinatezza del disegno e la felice vena decorativa e narrativa, che risalta specie nella Madonna in trono, nelle Storie di S. Sebastiano e negli Evangelisti della volta. Una simile immersione nel clima favolistico del Gotico Internazionale si nota nel S. Giorgio con la Principessa nella cappella di S. Ponzio a Castellar, forse collocabile anch'esso nel settimo decennio, unitamente al ciclo dell'abside di prevalente esecuzione di bottega. Nello stesso torno di anni è da situare anche l'Annunciazione nel S. Giovanni vecchio di Savigliano, per la quale è inaccettabile l'ante quem del 1454 stabilito in modo del tutto arbitrario da Turletti. Una datazione alla seconda metà degli anni Sessanta si adatta invece perfettamente allo stile dell'affresco saviglianese (si confronti in particolare la sorprendente affinità tra l'Annunciata e la Vergine di Monterosso) e anche al soprastante dipinto attribuito ai Biazaci, di cui si parlerà in seguito.
Si giunge dunque al ciclo del Villar (1469), che si presenta come ideale summa della sua maniera affabile e ricca di orpelli cortesi, anticipando nel contempo alcuni caratteri che si ritroveranno nelle sue opere successive, in particolare a Valgrana, a Piasco e a Castelmagno. Nel primo centro Pietro lavorò attorno al 1470-1475 nella parrocchiale di S. Martino e nella cappella di S. Bernardo, lasciando nella seconda la più significativa manifestazione del suo stile tardo, che continua a prediligere i modelli tardogotici, ma con un disegno più largo, raggiungendo effetti più monumentali rispetto alle opere precedenti, specie nella Madonna tra Santi dell'abside. Tale discorso è proseguito a Castelmagno, senza varianti sostanziali, concludendo così un percorso formale di esemplare unitarietà ed espressione di una cultura ormai ampiamente attardata, che non impedì a Pietro di intervenire in centri più importanti come Cuneo (1472) e Saluzzo, dove le Storie di S. Antonio recuperate nella prima cappella a destra della chiesa di S. Giovanni si possono attribuire alla sua mano. E' interessante rilevare che questo ciclo si era sovrapposto ad un precedente, di medesimo soggetto ma più difficile da analizzare a livello stilistico. Tale cappella è la stessa della Madonna tra Santi con lo stemma dei Pocapaglia e che fronteggia quella con le Storie della Passione del Maestro di S. Albano; si può perciò supporre che in questa parte dell'edificio si sia esercitato per più generazioni quasi un monopolio da parte dei Pocapaglia.
Accanto alla corrente filo-lombarda incarnata da Pietro Pocapaglia, anche nel terzo quarto del Quattrocento si delinearono nel Saluzzese delle esperienze prossime alla cultura pinerolese d'impronta jaqueriana. Si può cominciare con gli affreschi nell'abside del S. Salvatore di Macra, cappella che conserva anche importanti dipinti romanici. Il pittore che verso la metà del secolo rappresentò gli Apostoli, il Cristo in mandorla tra gli Evangelisti, l'Annunciazione e due Santi mostra infatti delle affinità con il Maestro di Lusernetta, noto per il ciclo della cappella di S. Bernardino a Lusernetta (in Val Pellice) e per quello nel S. Erige di Auron, presso Saint-Etienne-de-Tinée, nell'entroterra nizzardo, datato al 1451. Si tratta di una personalità singolare, che unisce stilemi tardogotici, come i panneggi sovrabbondanti e le decorazioni a stampino di alcune vesti, ad eccentriche notazioni caratteriali (ad esempio nel S. Mattia) o inediti tentativi di resa monumentale delle figure, nei SS. Andrea e Pietro che giganteggiano avvolti in ampi mantelli. Vicino a questo artista, ma più debole, è l'autore dei riquadri col S. Giorgio e la Principessa e i SS. Margherita e Leonardo in S. Maria della Valle a Valgrana (si accosti in particolare Margherita con la S. Caterina d'Alessandria di Macra), anch'egli sensibile ai modelli elaborati dal Maestro di Lusernetta.
Di maggior rilievo è la figura di Giorgio Turcotto di Cavallermaggiore, noto per il ciclo firmato nel 1467 già nel S. Giovanni di Sommariva Perno, parzialmente conservato alla Galleria Sabauda di Torino dopo la distruzione della chiesa e per due opere firmate e datate al 1473 nel S. Domenico di Alba, citate da fonti settecentesche e finora non rintracciate, ovvero una tavola e un'immagine, forse ad affresco, del Beato Bartolomeo da Cervere. Partendo da questi dati si sono assegnati a Giorgio anche una Madonna col Bambino in trono nel santuario di S. Maria a Lagnasco, una Madonna tra Santi nell'abside di S. Pietro a Cavallermaggiore (e forse una S. Lucia nello stesso edificio), la decorazione del pilone del santuario degli Orti a Murello e un Abbraccio tra i SS. Domenico e Francesco staccato dal S. Domenico di Alba. Più dubbia è l'attribuzione di alcune figure nella cascina di S. Bartolomeo di Cavallermaggiore. Turcotto dimostra in queste opere di essersi formato su dati di cultura pinerolese e saluzzese dei primi decenni del Quattrocento, tra Jaquerio, Aimone Duce e il Maestro di Manta; in questo senso il risultato più significativo è la Vergine di Lagnasco, di ottima qualità e di datazione precoce (attorno alla metà del secolo), assai prossima alla Madonna tra Santi commissionata da Bianchina Actis nel S. Antonio di Ranverso poco oltre la metà del Quattrocento. Gli affreschi di Sommariva mostrano una fase successiva, in cui il pittore combina gli elementi stilistici precedenti con alcune notazioni più aggiornate (specie nella figura del Battista).
A confronti con la realtà artistica pinerolese sembrano condurre anche gli affreschi della cappella alla base della cella campanaria nel S. Andrea di Brossasco, dove certi elementi grotteschi, ad esempio nella Strage degli Innocenti, hanno suggerito un richiamo alla maniera dei pinerolesi Bartolomeo e Sebastiano Serra. In loco le analogie più immediate si trovano nel pittore della volta della parrocchiale di Elva il quale, dotato di una particolare verve espressiva, fa sfoggio nel motivo dei putti che sostengono delle campane vegetali di un moderato aggiornamento su modelli di stampo quasi "umanistico". Del resto questo artista, nonostante la sua cultura affondi nel terzo quarto del secolo, dovette lavorare ad Elva nei decenni successivi, visto che parte della volta fu poi completata da Hans Clemer a cavallo tra Quattro e Cinquecento ed è più logico pensare perciò che non ci sia stata una lunga interruzione tra le due campagne decorative. Caratteri per certi aspetti simili presentano anche i dipinti dell'abside della parrocchiale di Rossana, con due episodi dell'Infanzia di Cristo e un S. Bernardino da Siena (che presuppone una datazione post 1450, data della sua beatificazione) dal volto rinsecchito; alcuni elementi iconografici e decorativi trovano riscontro però anche nella produzione dei fratelli Biazaci, ai quali è attribuita l'Assunzione della ghimberga della facciata della medesima chiesa.
Se a Brossasco le affinità con i Serra rimangono abbastanza generiche, esse sono invece evidenti nel bel ciclo con Storie della Passione e Santi nella cappella del Palazzo Malingri in frazione Villar di Bagnolo Piemonte, ricco d'umori nordici, nei panneggi franti e nelle fisionomie doloranti. Si notano dei rapporti in particolare con il gruppo del "Maestro di Ramat" (autore degli affreschi nel S. Andrea di Ramat, in Val di Susa), per il disegno talora veloce e sintetico e per l'attenzione concentrata sui volti, spesso crudeli e deformi, in cui ricorrono singoli tipi (si pensi a Caifa o a Pilato, che ricordano tutta una serie di tiranni di ambito serriano, da Ramat a Villard-Saint-Pancrace). Non mancano anche echi della maniera di Antoine de Lonhy, testimoniato in Piemonte (ad Avigliana) sin dal 1462; ad esempio il gruppo della Madonna svenuta sostenuta da S. Giovanni e da una Pia Donna nella Crocifissione bagnolese rimanda alle analoghe figure nell'affresco del Compianto nella cattedrale di Saint-Jean-de-Maurienne, opera assai consunta ma che sembra riconducibile ad Antoine o ad un suo stretto collaboratore (non al Maestro di Bagnolo, come pensa Santenera). Inoltre i colori vivaci dei dipinti di Bagnolo ricordano la produzione dei Serra ma anche quella di Lonhy (per l'adozione di certi arancioni o verdi acidi). La datazione più probabile s'aggira attorno al 1470, anche per la presenza del Beato Bernardo del Baden, privo di aureola, che morì a Moncalieri nel 1458 e fu beatificato nel 1481. Una cultura di simile matrice s'incontra nella più tarda Annunciazione sotto il portico di una casa vicina al palazzo, a riconferma dei legami di Bagnolo col Pinerolese (in sintonia con la situazione politica), già comprovati da un affresco della prima metà del Quattrocento con una Dama reggistemmi sopra l'ingresso del castello medievale dei Malingri, vicino ai modelli di Aimone Duce (il cui ciclo di Villafranca si trova d'altronde a pochi chilometri da Bagnolo) e del Maestro della Manta, sebbene assai più gracile (lo si confronti ad esempio con le eroine Delfile e Teuca). Vista la presenza degli stemmi dei Savoia, degli Acaja e dei Malingri, si potrebbe pensare addirittura ad una datazione compresa tra il 1412 (anno della concessione del feudo di Bagnolo ad Aimé Malingres de Saint Genix, nobile savoiardo, da parte del principe d'Acaja, confermata dall'imperatore Sigismondo nel 1415, che lo aveva nominato inoltre eques auratus) e il 1419, quando Aimé morì a Bagnolo, data che si potrebbe circoscrivere entro il 1418, anno dell'estinzione degli Acaja;si tratta per l'appunto degli anni in cui il Duce è testimoniato alla corte degli Acaja e della più plausibile datazione degli affreschi mantesi (1415-1420). E' bene ricordare che Aimé era un personaggio di rilievo a livello politico e culturale; già scudiero del Conte Verde, divenne poi maestro di palazzo e ambasciatore, oltre ad essere poeta in lingua occitana. Svolse una delle sue missioni diplomatiche presso la corte di Carlo VI, la stessa a cui erano legati i marchesi di Saluzzo e a cui rimanda la pettinatura "a corna" della Dama bagnolese.
Dunque la tradizione tardogotica si espresse nel Saluzzese in svariate manifestazioni, fino agli ultimi decenni del secolo e ancora molto è da indagare nella capitale stessa del marchesato, dove nei mesi scorsi sono emersi nuovi affreschi nella chiesa di S. Bernardo e nell'ex-cappella di S. Sebastiano, presso l'antico episcopio (questi ultimi ancora in fase di scoprimento), che attendono ancora di essere studiati. Altrettanto complessa e variegata è la situazione del Monregalese, forse anzi ancora più ricca di testimonianze, soprattutto ad affresco. Ci si limiterà perciò in questa sede a delineare le principali correnti figurative o personalità che si sono avvicendate nel corso del Quattrocento. Avevamo lasciato questo territorio ai primi decenni del secolo, con le ottime prove di Rufino d'Alessandria e dell'anonimo della lunetta di S. Michele Mondovì. Il secondo quarto del Quattrocento è invece dominato dalla personalità di Antonio da Monteregale, che firma nel 1435 un ciclo di affreschi in S. Maria della Montà a Molini di Triora, nell'entroterra imperiese e che già nel 1426-1428 aveva lavorato a Porto Maurizio, lasciando un dipinto all'esterno dell'oratorio dell'Annunziata, ora perduto. Questi dati concordano con il suo stile, che rivela un'attenzione per la cultura ligure di matrice toscana diffusa tra Genova e il Ponente tra la fine del Trecento e il primo ventennio del Quattrocento, specie per Nicolò da Voltri e per Giovanni da Pisa (si confronti ad esempio il S. Giovanni Battista di Antonio con quello di Nicolò nel polittico dei Musei Vaticani, del 1401, oppure la sua Madonna con quella al centro del trittico di Giovanni ora a San Simeon, Hearst Castle, del 1423). Ad Antonio è attribuito anche un polittico frammentario, ora al Museo Civico di Torino, di sicura provenienza francescana (per la preminenza di santi di quell'ordine) e databile poco oltre il 1435, per le notevoli affinità con il finto retablo dipinto a Molini. Il linguaggio di Antonio è semplice e diretto, talora brusco ma non privo di un primitivo fascino; i contorni sono marcati, i colori molto vivaci, le espressioni, in genere sorridenti, divengono brutali e doloranti nelle scene drammatiche come la Crocifissione della chiesa ligure. Le aperture di Antonio verso le ricercatezze cortesi, visibili in alcune figure del ciclo di Molini, come la S. Caterina, divengono molto più esplicite nell'elegante pittore che realizzò nella cappella di S. Bernardo delle Forche a Mondovì Ferrone attorno al 1430 (come giustamente argomentato da Massimo Bartoletti) il lunettone absidale e la S. Anna Metterza con S. Caterina sulla parete sinistra. Tale maestro si distingue per un disegno assai sorvegliato e minuzioso (si veda in particolare il Cristo Crocifisso, con il perizoma animato da sottilissime pieghe, che ricorda l'analogo dettaglio del Battesimo di Rufino a Villanova), rielaborando con sensibilità ben maggiore rispetto ad Antonio i modelli liguri-toscani dell'inizio del secolo, specie di Taddeo di Bartolo. Gli affreschi di Mondovì Ferrone sono da accostare al ciclo ligure del S. Nicolò di Bardineto, di poco più tardo, anch'esso caratterizzato da un gusto decorativo e calligrafico, ma con fisionomie più pungenti ed entrambi anticipano inoltre soluzioni adottate nel Giudizio Finale dell'abside del S. Giorgio di Campochiesa (presso Albenga), datato al 1446 e probabile opera di un pittore monregalese, in cui certe semplificazioni formali ricordano anche Antonio da Monteregale e precorrono la maniera di alcune opere avvicinabili alla giovinezza di Segurano Cigna, come la Madonna di Misericordia di Montanera. Gli anni Quaranta segnano il momento di massima espansione del linguaggio monregalese in Liguria che giunse, oltre che nel vicino Finale (si pensi ai bei pilastrini con sei Santi provenienti dal S. Eusebio di Perti, ora a Finalborgo, che riflettono uno stile affine ad Antonio ma memore, si direbbe, anche delle raffinatezze del Maestro di Lavagnola), anche a Genova, dove nel 1444 è attestato il pittore Raimondo di Mondovì (di cui non si conoscono opere) e addirittura nel Levante, come dimostra la lunetta con la Madonna tra Santi del S. Andrea di Levanto. Anche la Madonna della Colonna nel duomo di Savona e un'altra Madonna col Bambino frammentaria nel chiostro del medesimo complesso richiamano i modelli discesi da Antonio monregalese, tanto che si è evocato a loro proposito il nome di Lodisio d'Embruno da Mondovì, noto per documenti savonesi come pittore di stemmi tra il 1457 e il 1465. Gli scambi tra i due versanti delle Alpi Marittime era dunque fitti e continui, tanto da poter parlare dell'esistenza di una vera e propria koinè ligure-monregalese, non priva anche d'ascendenze lombarde, come rivelano problematicamente le affinità di molte opere di questo territorio (come il ciclo di Campochiesa o alcune soluzioni di Antonio "de Montisregalis" e di Segurano Cigna) con gli affreschi dell'arcone d'accesso e della volta della Cappella di Teodolinda nel duomo di Monza (databili prima del 1444).
Un esempio caratteristico di tale comunanza di modelli sono le analogie iconografiche e in parte anche formali tra tre redazioni del tema, squisitamente cortese, del Combattimento di S. Giorgio col drago alla presenza della Principessa, presenti a Bardineto, nel S. Giorgio di Cigliè e nel S. Giorgio di Peveragno, non lontane, in quanto a sensibilità, dalla tela realizzata da Luchino da Milano nel 1444 per il Banco di S. Giorgio a Genova. Nei primi due casi in particolare (il terzo è stato purtroppo mutilato da un furto) vi sono somiglianze sorprendenti, ma non identità di mano; l'esemplare di Cigliè è di ottima fattura, specie nella delicatezza del volto della Principessa. Questi dipinti dimostrano come nel secondo quarto del Quattrocento la facile vulgata di Antonio monregalese, per quanto egemone, non fosse tuttavia esclusiva e altre personalità, più sensibili alle eleganze tardogotiche, riuscissero comunque ad inserirsi nel mercato locale, specie nel Marchesato di Ceva e nell'area di S. Michele Mondovì. L'autore del finto trittico nella S. Elena di Torre Mondovì, con la Madonna in trono tra i SS. Elena e Giovanni Battista, rivela ad esempio una freschezza ben maggiore rispetto ad Antonio nell'accostarsi ai prototipi liguri-toscani del primo quarto del secolo, specie a Giovanni da Pisa, forse anche grazie alla mediazione del pittore della Madonna e dei SS. Bartolomeo e Eleazario nel S. Nazario di Lesegno già citato. Lo stesso Frater Henricus, che firma il ciclo del S. Bernardo di Piozzo nel 1451 (e a cui si può attribuire anche la decorazione del S. Nicola di Farigliano, per evidenti affinità, ad esempio nella scena del Martirio di S. Sebastiano) è un interprete piuttosto autonomo della cultura di Antonio, dal quale si distingue per una maggiore insistenza grafica e lineare e per la ricerca luministica del trono della Vergine di Piozzo.
Più diretta è invece la dipendenza di Segurano Cigna dall'esempio di Antonio da Monteregale, tanto è vero che un'opera tradizionalmente collegata ad Antonio, gli affreschi del S. Maurizio di Castelnuovo Ceva, datati al 1459, sono stati in tempi recenti convincentemente avvicinati alla giovinezza di Segurano, in base ai riscontri con le Storie della Passione già nella chiesa di S. Maria Maddalena a Cerisola (ora nel municipio di Garessio), delle quali è noto il contratto del 1461 che obbligava il maestro a "pingere bene, legaliter et suficienter de azuro fino de alemagna et cinapro fino...". Il Cigna, anch'egli di Mondovì (dov'è documentato tra il 1454 e il 1464 e nuovamente nel 1478, per affreschi in S. Francesco e nel 1480 per un'ancona, entrambi perduti) era del resto già attivo nel 1454, quando firmava due tavole (attualmente irreperibili) nel S. Biagio di Pamparato e nella parrocchiale di Roburent e lo ritroviamo nel 1478 a Prunetto, ai confini delle Langhe, nella navata sinistra della Madonna del Carmine (dove la Crocifissione s'apparenta strettamente a quella di Castelnuovo) e nel 1482 nel S. Bernardo di Pamparato, dove decora l'abside ed esegue Storie di S. Bernardo (segnate da "tituli" in lingua volgare). La Madonna tra Santi di Pamparato trova dei precedenti nel finto trittico della parrocchiale di Vicoforte Fiamenga e in quello al centro della cappella con Storie di S. Sebastiano nell'antica parrocchiale di Villanova Mondovì (datate al 1469) ed è inoltre assai prossima alla delicata Madonna allattante con S. Maurizio nel S. Maurizio di Roccaforte Mondovì (datata al 1486). Segurano era dunque attivo in un'area abbastanza ampia, che comprendeva anche Fossano, dove dipinse nel 1471 un Beato Oddino Barotto nella chiesa di S. Giorgio (ora perduto) e non è forse un caso che la S. Chiara del medesimo edificio riveli palesi caratteri monregalesi, prossimi soprattutto alla sua maniera. La ripetuta documentazione di Segurano quale autore di pale d'altare richiama alla mente un Polittico con Santi Francescani d'ubicazione ignota, attribuito dalla Rossetti Brezzi ad Antonio da Monteregale, databile dopo il 1450 per la presenza di S. Bernardino da Siena e in cui si colgono echi del linguaggio del Cigna e di Frater Henricus.
Il ciclo di Castelnuovo Ceva (non privo, a dispetto dell'esecuzione un po' corsiva, di modelli abbastanza aggiornati negli Evangelisti e Dottori della Chiesa sulla volta) è stato accostato dal Bartoletti, oltre che ai dipinti di Cerisola, anche alla decorazione più antica della chiesa della Madonna Lunga a Montanera, nei pressi di Cuneo, con una Madonna di Misericordia, una teoria di Apostoli e un Cristo Giudice tra Santi intercessori (ora nel sottotetto), rilevando una comune derivazione di questo gruppo dal maestro della cappella di S. Croce a Mondovì Piazza. Questo ciclo è la più importante manifestazione dello stile monregalese attorno alla metà del Quattrocento, con ricordi di Antonio ma una fattura più raffinata e aperta a suggestioni provenzali e "mediterranee" per la gamma cromatica luminosa e lo studio delle ombre portate. L'importanza di questi affreschi è accentuata dalla loro singolarità iconografica, specie per l'allegoria della Croce brachiale che incorona la Chiesa e pugnala la Sinagoga (soggetto noto per la versione di Giovanni da Modena nel duomo di Bologna).
L'altro protagonista del secondo Quattrocento nel Monregalese, accanto a Segurano Cigna, è Giovanni Mazzucco, anch'egli epigono della corrente popolaresca inaugurata da "Anthonius de Montisregalis". Ma mentre Segurano dà una lettura piana e serena del linguaggio di Antonio, Giovanni ne accentua la componente più espressionista. Mazzucco è noto con certezza a partire dal 1475, quando già era in età da mandare il figlio Domenico a bottega dal pittore Roux ad Aix-en-Provence (notizia d'ovvio interesse anche perché apre uno spiraglio sui rapporti tra il Monregalese e la Provenza) il che vuol dire che doveva avere almeno una quarantina d'anni ed essersi formato dunque attorno alla metà del Quattrocento, come conferma peraltro il suo linguaggio (e ciò indipendentemente dalla sua eventuale identificazione col Giovanni Mazzucco che funge da teste nel 1452 in un contratto stipulato dall'enigmatico Ottobono "de Xorano", pittore di cui si ritiene plausibile una provenienza dalla Maremma toscana). Le opere sicure di Giovanni si scalano però solo tra il 1481, quando firma il ciclo dell'oratorio del S. Sepolcro di Piozzo (al quale è assai prossima la Madonna col Bambino tra S. Antonio Abate e il Battista nel S. Antonio di S. Michele Mondovì) e il 1491, in cui sigla la decorazione del santuario della Madonna del Brichetto a Morozzo. In mezzo si pongono la Madonna tra i SS. Pietro e Antonio Abate nella cappella di S. Pietro in Roncaglia a Bene Vagienna (1485, non firmata), gli affreschi dell'antica cappella dell'ex convento di Domenicani di Peveragno (1487, in cui è ancora leggibile la firma "Mazuchi"), accostabili per iconografia (gustose scene di vita agreste a margine di temi religiosi) a quelli dell'ex convento domenicano della frazione Bertini di Roccaforte Mondovì e infine il ciclo del S. Bernardo di Castelletto Stura, del 1488, dov'è forse prevalente un'esecuzione di bottega. Il suo stile è però già percepibile in una serie di affreschi anteriori, di più alta qualità e compresi entro l'ottavo decennio del secolo, in cui forse è da individuare la sua attività giovanile, ovvero la Madonna nel santuario del Pasco a Villanova Mondovì e alcune opere nel territorio di S. Michele Mondovì, la Vergine col Bambino della Madonna di Guarene, una teoria di Santi sotto archetti nel S. Bernardino, gli affreschi della Madonna della Neve a Pian della Gatta e infine quelli della navata e della controfacciata del S. Fiorenzo di Bastia Mondovì e la Crocifissione nell'antica sacrestia della parrocchiale di Niella Tanaro.
Riguardo agli ultimi tre cicli, le osservazioni più pertinenti rimangono quelle della Galante Garrone che riconosce nella corrente Niella - Pian della Gatta - Bastia l'inizio delle "fisionomie bonarie e innocenti di Giovanni Mazzucco". E' sorprendente in particolare l'affinità fra le tre versioni della Crocifissione di Niella, S. Michele Mondovì e della navata di Bastia, ancora memori, per l'insistenza sulle deformazioni espressive volutamente anti-graziose, dell'esempio del Calvario di Antonio a Molini. E' inoltre palese l'analogia tra le rappresentazioni dell'Inferno e del Paradiso di S. Michele Mondovì e di Bastia e numerosi sono i confronti possibili con le opere certe di Mazzucco. Nella navata di Bastia sono peraltro evidenti degli scarti stilistici e qualitativi, che sconsigliano di parlare in toto di un'autografia mazzucchesca. Tali affreschi, databili attorno al settimo decennio del secolo (tenendo presente il punto fermo del 1472 che riguarda con sicurezza solo le Storie di S. Antonio della parete sinistra) sono inoltre da distinguere da quelli dell'abside, più antichi e opera di due artisti diversi, uno prossimo al "Maestro di S. Quintino" (un pittore vicino a Frater Henricus che lavorò nel S. Quintino di Mondovì, a cui appartiene anche un riquadro con tre Santi nella navata sinistra della parrocchiale di Mondovì Breolungi), a cui spettano le figurazioni dell'arco trionfale, della volta e della parete di fondo, tranne la Crocifissione che si deve invece ad un maestro affine a Segurano Cigna. Il ciclo di Bastia si conferma dunque come un'espressione emblematica e riassuntiva della cultura monregalese del terzo quarto del secolo, anche grazie alla sua eccezionale estensione.
Un'altra personalità di rilievo nel panorama monregalese del secondo Quattrocento è il "Maestro di S. Agostino a Saliceto", a cui fa capo una serie di affreschi a Saliceto (nell'ex confraternita di S. Agostino e nella cappella dei SS. Gervasio e Protasio) e a Ceva (nella cappella della Guardia), affini anche ad altri di Carrù (una Madonna col Bambino nella cascina Marchesa e la decorazione di un salone al secondo piano del castello dei Costa, con volti femminili e maschili entro corone vegetali, compresi in un fregio con girali fitomorfi, raro esempio d'arte profana sopravvissuto nel Cuneese) e a un riquadro con i SS. Fabiano, Sebastiano e Rocco nel S. Giorgio di Campochiesa, presso Albenga (datato al 1478). Prossimo ai modi di questo pittore è anche un affresco con la Madonna col Bambino e il Cristo di Pietà staccato da un edificio di Millesimo e ora conservato in S. Maria extra muros. Al Maestro di Saliceto è stato attribuito anche un polittico con il Martirio di S. Sebastiano tra i SS. Giovanni Battista e Bernardino del Museo di Belle Arti di Budapest, che rivela una fattura più raffinata ed è forse più antico (1475 c.) rispetto agli affreschi noti. Il Maestro di Saliceto è pienamente inserito nella tradizione suscitata da Antonio monregalese e trova affinità con Segurano Cigna e anche col Mazzucco, ma soprattutto col Maestro di Lignera (autore di un ciclo d'affreschi nel S. Martino di Lignera, frazione di Saliceto, confrontabile coi SS. Rocco, Anastasia e Romeo nella cappella di S. Anastasia a Sale S. Giovanni, datati al 1493), attivo ormai sullo scadere del secolo, che era forse un suo collaboratore o discepolo. Prossimo al Maestro di Saliceto è anche il Maestro di Roccaverano, attivo specie lungo le valli della Bormida di Millesimo e della Bormida di Spigno, a Murialdo, Calizzano, Roccaverano (post 1481), Millesimo e a S. Dalmazzo di Monticello, presso Finalborgo. Si tratta di una personalità singolare, che unisce elementi di tradizione monregalese ad altri affini ai pittori attivi nel Ponente come Baleison, Canavesio e i Biazaci e si distingue per un insistito grafismo, specie nel ciclo di Roccaverano.
Ma fra tutti gli artisti conosciuti o anonimi del secondo Quattrocento monregalese, nessuno eguaglia la qualità del Maestro di Rocca de' Baldi, autore di un ciclo di affreschi nella cappella della Crocetta di questa località e di una Madonna col Bambino staccata dalla cappella di S. Pietro nella frazione Madonna dei Boschi di Peveragno e ora a Cuneo, nella sede dell'Amministrazione Provinciale. La presenza di un graffito sulla parete sinistra a Rocca de' Baldi, con l'iscrizione "MCCCCLX[...]" consente di datare questo ciclo entro l'inizio degli anni Sessanta, epoca a cui risale anche la Vergine già a Peveragno. Questa precocità accentua l'importanza del pittore, squisito per l'eleganza del disegno flessuoso, ancora di memoria gotica come la preziosità dei colori vivaci e le minuzie descrittive, ma che sembra già avvertire il sentore delle novità proto-rinascimentali nelle figure degli Angeli musicanti. Un maestro dall'orizzonte culturale assai ampio, che dovette conoscere importanti manifestazioni del Tardo Gotico francese e lombardo, forse per mediazione ligure (del resto le ali di pavone dell'angelo dell'Arcangelo Michele possono richiamare l'analogo dettaglio dell'Annunciazione di Giusto di Ravensburg a Genova, del 1451) ed è da accostare ad opere come il S. Giorgio e la Principessa di Cigliè, la Madonna di Canale d'Alba (di cui si parlerà tra breve) e la prima produzione del Baleison e dei Biazaci.
Volgendo lo sguardo verso l'Albese, incontriamo anche qui opere di cultura monregalese, come il ciclo nell'ex oratorio di S. Michele a Serravalle Langhe, prossimo alla maniera di Frater Henricus e di Segurano e databile attorno al sesto decennio, a cui si può accostare una S. Maddalena nel S. Domenico di Alba, più tarda e di qualità inferiore; i sedili degli Evangelisti richiamano inoltre quelli sulla volta della Cappella di Teodolinda a Monza (specie quello del S. Anastasio), invitando a riflettere sul ruolo dell'Albese come possibile tramite tra il Cuneese e la Lombardia (da aggiungere alla più ovvio intermediazione della Liguria). Rapporti con l'area lombarda, facilitati dai contatti col Marchesato Paleologo, sono del resto testimoniati dal coro eseguito nel 1429 dal pavese Urbanino da Surso per il S. Francesco di Alba (di cui sopravvivono alcuni frammenti rimontati in un bancone della chiesa di S. Giovanni), autore assieme al figlio Baldino di una serie di Crocifissi lignei (fra i quali interessano il nostro territorio quelli del cimitero di Carmagnola e quello del duomo di Saluzzo) e dagli affreschi della cappella al fondo della navata sinistra nella chiesa albese di S. Domenico (con un Martirio di S. Sebastiano e un S. Benedetto) che rimandano alla cultura tardogotica lombarda della prima metà del Quattrocento, ancora fiorente nel terzo quarto del secolo sia in Lombardia che in territorio ora piemontesi, quali il Novarese e l'Alessandrino. Vengono alla mente le notizie circa un "Johannes de Grassis de Mediolano" testimoniato ad Alba, secondo il Vernazza, tra il 1434 e il 1466, ma anche l'attività di Cristoforo Moretti a Casale tra il 1467 e il 1474. Questi affreschi si sovrappongono alla parte inferiore di due dipinti dell'inizio del Quattrocento, una S. Caterina da Siena e un Beato Pietro da Lussemburgo di ottima fattura, che rimandano a suggestioni sia lombarde che provenzali, forse mediate dalla stessa Liguria, con la quale Alba intrattenne importanti scambi sin dal Trecento. All'arrivo di diverse tavole di Barnaba da Modena, corrispose infatti la discesa a Genova degli albesi Pietro Gallo (al quale è stato possibile restituire in tempi recenti un piccolo retablo firmato, ora al Museo Civico di Torino) e Giovanni David. Più avanti nel Quattrocento è da ricordare il Crocifisso della chiesa di S. Caterina ad Alba, vicino ad altri liguri e la probabile (e oltremodo affascinante) identificazione di un dittico appartenuto alla beata Margherita di Savoia, conservato fino alle soppressioni napoleoniche nel convento albese della Maddalena e firmato "opus Donati" (e ora purtroppo perduto), come di un'opera del pavese Donato de Bardi, attivo tra Genova e Savona. In direzione ligure può invitare a indirizzarsi anche la singolare Annunciazione nel sottotetto del santuario della Madonna dei Boschi a Vezza d'Alba, dove i nordicismi dell'angelo, dalle chiome a boccoli e dalle ali a piume di pavone, potrebbero dipendere anche dall'Annunciazione di Giusto a Genova già ricordata, ma richiamano altresì la notizia dell'attività del pittore "Sprechner" o "Sprech", che eseguì nel 1450 gli Evangelisti nel coro notturno di S. Francesco ad Alba (chiesa andata distrutta) e che era forse veramente "tedesco" come lo ritenevano le fonti settecentesche. Lascia ad ogni modo perplessi la datazione post 1475 proposta da Elena Ciarli per l'Annunciazione di Vezza, in base ai rapporti con la committenza dei Roero. Altra opera problematica ma seducente è la tela con la Madonna della Misericordia ora nella cappella della Madonna degli Angeli fuori Alba, ma proveniente forse da una chiesa domenicana della città, dove probabilmente fungeva in origine da stendardo professionale. Il dipinto unisce retaggi tardogotici a minuziosità di matrice nordica, forse derivanti dall'ambito ligure-nizzardo, che sembrano anticipare certi caratteri del ciclo di S. Vittoria d'Alba. Ad un contesto più famigliare rimandano invece le testimonianze sull'operato di Giorgio Turcotto, già ricordate (ad Alba e Sommariva Perno) e la Vergine col Bambino affrescata nell'abside del santuario della Madonna di Loreto a Canale d'Alba (del 1460-1470 c.), che si riallaccia per iconografia e stile a modelli di Giovanni Baleison (ad esempio la sua Madonna nel santuario della Madonna dei Boschi di Peveragno), ma anche di ambito monregalese, quali la Principessa di Cigliè, per la delicatezza e la discreta plasticità del volto, che richiama anche delle opere dei Biazaci quali la Vergine di Sampeyre e la Maddalena di Caraglio.
Veniamo adesso ad analizzare il percorso del Baleison e dei Biazaci, che presenta molti punti in comune, al punto che di alcune opere non è sicura l'attribuzione all'uno o all'altro atelier. Giovanni Baleison era originario di Demonte, in Valle Stura e ciò spiega in parte la natura del suo stile, che evidenzia strette connessioni con la cultura diffusa nella parte meridionale della provincia di Cuneo, dominata dai modelli elaborati tra Mondovì e Ceva. Sembra in particolare che per la sua formazione siano state importanti figure come il Maestro di S. Bernardo a Fossano, il Maestro di S. Croce a Mondovì Piazza e il Maestro di Bardineto, come mostrano i più antichi dipinti a lui assegnabili che sono probabilmente (nonostante recenti tentativi di postdatarli) gli affreschi dell'abside del santuario di Notre-Dame-des-Fontaines a Briga, nell'entroterra nizzardo, collocabili nel sesto decennio del Quattrocento. E' palese ad esempio l'affinità tra la Madonna assunta di La Brigue e la Vergine del S. Bernardo di Fossano, mentre in altri personaggi di questo ciclo e di tutta la sua produzione successiva si trovano mescolati tratti di sottile e raffinata dolcezza (come nel S. Giovanni Evangelista della volta brigasca) ad altri più aspri e popolareschi, come nel S. Tommaso nelle varie scene mariane. Altra opera precoce è la decorazione della cappella nel Palazzo Vescovile di Albenga (per la quale non sono condivisibili i dubbi attributivi avanzati dalla critica ligure), situabile con certezza tra il 1459 e il 1466, che segna un momento di singolare felicità dello stile del Baleison, in cui s'accentua la luminosità "mediterranea" già presente a Briga e alcuni panneggi e fisionomie si fanno più taglienti, forse per l'influsso di Giovanni Canavesio, noto con sicurezza a partire dal 1472 proprio ad Albenga, ma che quasi certamente era già attivo da una ventina d'anni e ben informato sulle vicende della pittura nizzardo-provenzale del tempo, in primis su Giacomo Durandi. Nella sua produzione giovanile si collocano anche la Vergine nel santuario di Peveragno già citata e la decorazione del S. Grato di Lucéram, che rivela maggiori residui tardogotici rispetto al ciclo ingauno (la S. Caterina d'Alessandria s'ispira ad esempio all'analoga figura di Bardineto). Attorno al 1470 cade la sua collaborazione con Canavesio agli affreschi del S. Sebastiano di Saint-Etienne-de-Tinée, che segna il momento di massima adesione del demontese alla maniera "provenzale". Di livello più modesto sono invece i suoi interventi nella cappella di Notre-Dame de Bon Coeur a Lucéram e del S. Sebastiano di Marmora, assai prossimi e databili verosimilmente negli anni Settanta (essendo impossibile, per motivo stilistici, situare gli affreschi marmoresi, che sono firmati, subito dopo l'edificazione della chiesetta nel 1450). Nel corso di questo decennio s'inserisce anche la decorazione della cosiddetta "cappella angioina" nella parrocchiale di Borgo S. Dalmazzo, di cui sopravvivono scarsi lacerti, che sono sostanzialmente estranei ai Biazaci, ai quali sono stati pure accostati. L'autorità acquisita dalla maniera del Baleison a queste date è provata dalla sua influenza sul maestro anonimo che eseguì in S. Maria della Pieve a Beinette una Madonna tra Santi nell'abside e un S. Cristoforo nella navata, personalità di notevole rilievo, partita probabilmente da una formazione monregalese (nell'orbita del Maestro di S. Quintino) e suggestionata nel corso dell'ottavo decennio, quando appunto si datano questi affreschi, dalle contemporanee realizzazioni di Baleison e dei Biazaci (ai quali pure la Madonna di Beinette è stata recentemente attribuita, senza fondamento). Anche le Storie di S. Martino sulla controfacciata della parrocchiale di Ormea risentono dello stile di Baleison e del Canavesio attorno agli anni Settanta (e a questo proposito è importante ricordare che il prete pinerolese realizzò degli affreschi nel S. Bartolomeo di Sambuco nel 1481, andati perduti). La fase matura dello stile di Baleison si chiude col ciclo di Nostra Signora del Poggio a Saorge, sicuramente precedente a quello del S. Sebastiano di Venanson, datato al 1481 e firmato come gli affreschi del S. Sebastiano di Celle Macra (1484) e la Madonna all'esterno di un edificio a Stroppo Bassura (siglata nel 1486 dal monogramma del demontese). In queste opere tarde il linguaggio di Baleison s'irrigidisce ma non perde la luminosità e la piacevolezza della sua produzione precedente.
In parte simile a quella del Baleison è la vicenda dei fratelli Tommaso e Matteo Biazaci da Busca, anche loro attivi tra il Cuneese e l'area costiera, ma nel territorio compreso tra Albenga e Imperia. La prima opera firmata di Tommaso, che probabilmente era la personalità di maggior spessore, è la decorazione della parete destra esterna della parrocchiale di Marmora, datata al 1459, in cui il artista rivela scarsi legami con la cultura saluzzese e aperture invece verso il Monregalese ma soprattutto in direzione ligure-nizzarda. In particolare figure come il Beato cardinale e il S. Francesco stigmatizzato, per la resa realistica dei panneggi, fanno supporre un precoce contatto col già menzionato Giacomo Durandi, pittore di Nizza documentato tra il 1443 e il 1469 in un'area inclusa tra Taggia e la Provenza, in alcuni casi insieme al fratello Cristoforo che gli sopravvisse (è ancora testimoniato ad Aix nel 1471). Durandi fu fondamentale per l'aggiornamento della pittura nizzarda e ligure-piemontese sui risultati della cultura provenzale dei decenni centrali del Quattrocento, incarnata specie da Quarton e influì su artisti significativi come Canavesio, il Maestro di Briançon (legato ai Serra), i Biazaci e in modo minore sul Baleison, ognuno dei quali elaborò il suo esempio con una diversa sensibilità. Assai prossimo agli affreschi di Marmora è il ciclo del S. Pietro di Macra, firmato da Tommaso, non privo di scarti qualitativi forse imputabili ad interventi di bottega. Un passo successivo rispetto a Marmora e Macra è costituito dalla vela nel S. Giovanni vecchio di Savigliano, al di sopra della lunetta affrescata da Pietro Pocapaglia; entrambe le opere sono databili alla seconda metà degli anni Sessanta, quando Tommaso sembra peraltro essere documentato a Savigliano (tra il 1465 e il 1467) per la decorazione della torre dell'orologio e l'esecuzione degli apparati in occasione della visita di Amedeo IX in città. Specie lo splendido Cristo in mandorla si pone in parallelo alle esperienze di Durandi situabili nel settimo decennio, soprattutto al Polittico di S. Giovanni Battista, proveniente da Lucéram (e ora a Nizza). E' impossibile perciò accettare un'esecuzione ante 1454, basata sulla data proposta da Turletti per l'inversione della chiesa, la quale è frutto di una sua pura congettura, visto che in quell'anno si sa semplicemente che ci furono dei notevoli lavori nell'edificio, ma non è certa la loro natura. In quegli anni i Biazaci realizzarono anche una Pietà all'esterno del S. Giuliano di Savigliano, aggiornata su modelli nordici, forse grazie ai contatti con pittori provenienti dal Pinerolese, senza escludere anche rapporti con opere scultoree (come la Pietà della collegiata di Ceva). Attorno al 1470-1475 la maniera dei Biazaci raggiunse l'apice del suo splendore, testimoniato dagli affreschi del S. Giovanni di Caraglio, della prima cappella a sinistra della parrocchiale di Sampeyre, della cappella dell'Annunziata a Valmala e di un ambiente attiguo al santuario degli Angeli a Cuneo. La loro fonte d'ispirazione è ancora la maniera tarda di Durandi, che segna vistosamente figure come la S. Orsola e la Maddalena di Caraglio e la S. Lucia sampeyrese; impossibile è perciò accettare la datazione al 1490 avanzata da Elisa Cottura ed Elena Romanello per il ciclo di Caraglio, che vizia completamente la loro ricostruzione dell'iter biazaceo. Gli affreschi di Valmala e di Cuneo annunciano già il linguaggio dispiegato dai Biazaci in Liguria, dove sono documentati a partire dal 1474 nel S. Bernardino d'Albenga, per affreschi e una pala ora perduti. Questa fase precoce della loro attività ligure è però riflessa dall'Annunciazione che sovrasta una Madonna tra Santi nell'oratorio di S. Croce a Diano Castello, prossime anche alla tavola con la Madonna col Bambino firmata da Tommaso nel 1478, scomparto centrale di un polittico già in S. Maria in fontibus ad Albenga, che mostra un cauto avvicinamento del pittore buschese ai modi del Rinascimento ligure-lombardo, specie al Mazone. Nel 1483 i Biazaci terminarono gli affreschi della parete destra del S. Bernardino di Albenga e della navata sinistra del santuario di Montegrazie, dove intervennero poco dopo anche con le Storie del Battista nell'abside attigua. Si tratta dei cicli di maggior impegno dei fratelli piemontesi, che evidenziano una progressiva evoluzione della loro maniera, che pur conservando i colori brillanti cari alla "pittura di luce" ligure-nizzarda, ricerca ora un fare più sintetico e monumentale, forse influenzato dai modelli rinascimentali a cui si erano accostati durante la loro frequentazione dell'area costiera. Questa tendenza s'esprime compiutamente nel cicli dell'abside maggiore (1488, firmata da Tommaso) e di quella destra (1490) della parrocchiale di Piani d'Imperia. In questi anni i Biazaci eseguirono anche delle opere su tavola, fra cui sono da ricordare in particolare un trittico nei depositi di Palazzo Bianco (1490, erroneamente attribuito a Pietro Guido), assai vicino agli affreschi di Piani, come pure il più debole e probabilmente posteriore polittico con la Madonna tra Santi ora a Rensselaer (U.S.A.), mentre assai più precoce, attorno al 1480, si situa il bel Trittico di S. Sebastiano d'ubicazione ignota. Negli anni Ottanta i Biazaci furono attivi anche in patria, come dimostrano in particolare gli affreschi del S. Sebastiano di Busca, confrontabili con quelli di Montegrazie e Piani. Più tardi invece sono i dipinti della facciata dell'Ospizio della Trinità a Valgrana e del S. Stefano di Busca, collocabili attorno alla prima metà degli anni Novanta; specie nel secondo ciclo si nota ormai una stanchezza esecutiva, ignota invece ancora in alcuni affreschi conservati nella Villa Bafile di Busca, già convento francescano di S. Maria degli Angeli, che ritengo attribuibili ai Biazaci all'inizio dell'ultimo decennio del secolo. L'estremo approdo della loro maniera è la decorazione della parrocchiale di Casteldelfino, firmata da Tommaso nel 1504, che ricupera stancamente le invenzioni precedenti.
Punti di contatto coi Biazaci mostra il "Maestro del Polittico di Boston", autore del retablo con la Madonna della cintola tra Santi ora all'Isabella Stewart Gardner Museum di Boston e di un pentittico nella Galleria Sabauda di Torino con un Santo guerriero tra Santi. Si tratta di una personalità interessante, che mescola elementi culturali monregalesi (territorio dal quale era forse proveniente), nizzardi e liguri-piemontesi, legati specie al Canavesio e ai Biazaci. Tale pittore dovette essere attivo attorno al nono decennio del Quattrocento (stando alle due opere che gli sono attribuite) e lavorare probabilmente anche in Liguria, come lasciano supporre anche certe affinità che il suo stile possiede con alcuni affreschi anonimi del tardo Quattrocento, come il ciclo dell'oratorio di S. Bernardo a Rezzo e le Storie del Battista nel S. Fedele di Albenga.
Vediamo adesso cosa accade alla fine del Quattrocento nelle tre aree culturali finora individuate (Monregalese, Saluzzese e Albese). Nel Monregalese la personalità più affascinante è quella del "Primo Maestro della Madonna dei Boschi di Boves", a capo di un atelier attivo tra gli ultimi decenni del Quattro e l'inizio del Cinquecento tra il Cuneese e il Ponente ligure. La sua opera più vasta è il ciclo con le Storie della Vergine e dell'Infanzia di Cristo nel santuario di S. Maria dei Boschi a Boves, al quale si può accostare la decorazione della seconda cappella a sinistra nell'antica parrocchiale di Villanova Mondovì, con Storie di Anna e Gioacchino e una frammentaria Madonna della Misericordia, la cui qualità è più elevata, ma non al punto da giustificare una diversità di mano come ipotizzato dalla Galante Garrone. Le altre opere assegnabili a questa bottega sono per lo più immagini devozionali della Vergine col Bambino tra Santi, presenti nel santuario della Madonna delle Grazie di S. Benigno di Cuneo, nella "Madonna Lunga" di Montanera, nella Madonna dell'Acqua Dolce a Monesiglio e nell'ex parrocchiale di Verzuolo, a cui si possono avvicinare due polittici liguri, più tardi, già collocabili all'inizio del Cinquecento, conservati nelle parrocchiali di Moltedo e di Vasia, nell'Imperiese, dove gli si devono anche gli affreschi frammentari della cappella del SS. Salvatore a Castellaro, presso Taggia (si confronti la Natività con quella di Boves, mentre il S. Antonio Abate dell'attigua Sacra Conversazione sembra ricavato dallo stesso cartone, rovesciato, che servì per l'analoga figura di Monesiglio). A Cuneo gli spettano anche un S. Francesco con angeli che reggono un baldacchino, lacerto di una più ampia composizione nella seconda campata a sinistra della chiesa di S. Francesco e inoltre un'Allegoria della Croce Brachiale presso un'abitazione privata, che riprende il modello di S. Croce a Mondovì. L'addensarsi di testimonianze tra Mondovì e Cuneo e i caratteri stilistici del pittore, che paiono distillare il meglio della tradizione figurativa monregalese, nonché l'impostazione iconografica delle sue Madonne col Bambino, in debito con la produzione tarda di Segurano Cigna (si veda la Vergine di Pamparato), rendono plausibile una provenienza del maestro da quest'area. L'artista dimostra tuttavia di conoscere anche la maniera dei Biazaci, del Canavesio e di Baleison e, più in generale, s'inserisce appieno nella temperie ligure-piemontese e nizzarda più aperta alle suggestioni "mediterranee", per i colori delicati, la ricerca d'effetti luministici e il gusto per gli ampi paesaggi. Nel pittore s'avvertono anche dei tentativi di cauto aggiornamento in direzione rinascimentale, nell'impianto architettonico di certi scene di Boves prima ancora che nel polittico di Vasia. Assai prossimo al Primo Maestro di Boves ma, a mio avviso, da distinguere dalla sua figura è il "Maestro di S. Bernulfo", autore di un finto polittico con la Madonna tra i SS. Donato e Bernulfo, nella cappella omonima di Mondovì e alla cui maniera sono prossimi una Madonna tra due Santi cavalieri e un S. Sebastiano tra due Madonne (singolare iconografia, che richiama, anche per stile, la simile rappresentazione nel santuario del Brichetto a Morozzo) nel S. Sebastiano di S. Michele Mondovì e inoltre la gigantesca Madonna della Misericordia (specie nella zona dei fedeli, mentre il volto della Vergine, più delicato e maturo, potrebbe appartenere ad un'altra mano, o ad una ridipintura posteriore) e due riquadri sottostanti con il Cristo Risorto e i SS. Caterina e Giacomo che presentano il committente Francesco Iessellini, signore di Beinette, nell'abside di S. Maria della Pieve a Beinette, al di sopra della Sacra Conversazione di cui si è già parlato. Il Maestro di S. Bernulfo si differenzia da quello di Boves per un segno più rigido e per un più acuto senso ritrattistico, a tratti caricaturale; è possibile che fosse un discepolo o collaboratore dell'anonimo bovesano, visto che proprio nel ciclo della Madonna dei Boschi (in particolare nella Fuga in Egitto) s'avverte talora quel disegno più grezzo che preannuncia il dipinto di S. Bernulfo, nel quale si colgono anche dei richiami al finto polittico proveniente da Buretto, ora a Fossano, prossimo a Bartolomeo Debanis. Non convince comunque l'ipotesi di Vittorio Natale d'identificare i pittori di S. Bernulfo e dell'altro gruppo affine coi fratelli De Rogeriis di Venasca, ai quali vennero commissionate quattro pale a Ventimiglia tra il 1506 e il 1508, ora perdute; è assai più pertinente infatti la proposta di Bartoletti di collegare i medesimi fratelli piemontesi con un gruppo di opere d'area nizzarda radunate attorno al Polittico di Soldano, perché s'adegua meglio all'ambito geografico, culturale e cronologico che traspare dai dati d'archivio relativi ai De Rogeriis. Di conseguenza, per evitare confusioni, si è abbandonata anche la dicitura di "Bottega di Vasia" coniata da Natale (a cui va comunque il merito d'aver per primo connesso le tavole liguri con gli affreschi piemontesi), perché è collegata ad un corpus che include parte dei dipinti qui assegnati alle due distinte personalità (Maestro di Boves e Maestro di S. Bernulfo), mentre esclude altre opere, fra cui la più importante, il ciclo di Boves e ne aggiunge un'altra che è del tutto estranea all'insieme, cioè il finto polittico nella chiesa della Madonnetta a Diano Castello.
Tra le personalità minori attive nell'area culturale monregalese sullo scorcio del Quattrocento, piace segnalare ancora l'autore di una serie di Santi e di una Trinità sulla parete sinistra della chiesa della Madonna di Campagna a Carrù che sembra porsi, ad esempio nel S. Sebastiano (ora staccato), tra le fonti (per i volti larghi dai tratti segnati da una linea pesante) del più mediocre Giovanni Botoneri da Cherasco, al quale si possono attribuire due Sacre Conversazioni (una delle quale è ora nell'atrio dell'Ospedale di Cuneo, mentre l'altra è datata al 1523) nello stesso edificio. Giovanni è noto soprattutto per il ciclo del 1514 nel santuario di Castelmagno (da collegare con altri dipinti a Valgrana e a Bernezzo) con Storie della Passione, Santi e alcune figurazioni allegoriche, che lo mostra attardato prosecutore della corrente più popolaresca della cultura monregalese, nel cui territorio (ad esempio a Niella Tanaro o a Cigliè) si conservano del resto molti affreschi, collocabili nella prima metà del Cinquecento, prossimi alla sua maniera autografa ma di vario livello qualitativo. Il Botoneri deve assai poco ai Biazaci, a differenza di ciò che si è spesso detto e manifesta invece di conoscere le invenzioni di Canavesio, come il suo parallelo ligure Pietro Guido da Ranzo.
Di ben altro peso era l'artista che affrescò, attorno al 1500, il pilone ora incluso nel santuario della Madonna dell'Olmo, presso Cuneo, a cui Romano ha attribuito anche una bella tavola con l'Adorazione del Bambino nella Pinacoteca di Alessandria, centro di un trittico d'incerta provenienza. Tale "Maestro della Madonna dell'Olmo" esprime ormai una cultura compiutamente "moderna", come s'evince dall'imponente inquadratura prospettica ad arco cassettonato che dà ampio respiro alla composizione, accordandosi alla monumentalità, pur gentile e malinconica, delle figure; i riferimenti vanno cercati in ambito spanzottiano, ma con tangenze anche con il Maestro della Pietà in S. Agostino a Torino, autore di un'Adorazione del Bambino già a Chieri che richiama per molti aspetti quella alessandrina. La realtà artistica locale, fino a quel momento assestata su proposte come quelle del Maestro di Boves, dovette essere ben scossa da tali innovative provocazioni. L'esistenza del Maestro della Madonna dell'Olmo (pittore di cui è peraltro difficile precisare l'origine) rende perciò più agevole intendere un personaggio come Sebastiano Fuseri da Fossano, che firma nel 1507 il Trittico della Madonna delle Nevi nella parrocchiale di Briga (che s'ispira per la Madonna allattante al modello di Spanzotti nel duomo torinese, ma conserva anche retaggi canavesiani, specie nei Santi laterali) e anticipa inoltre la fortuna di Defendente Ferrari a Cuneo, dove l'artista chivassese inviò diverse tavole, la più importante delle quali è un trittico ora nel Museo Borgogna di Vercelli, databile negli anni attorno al 1510.
Il Saluzzese nel frattempo visse tra la fine del Quattro e l'inizio del Cinquecento, grazie soprattutto all'illuminata committenza dei marchesi Ludovico II (1438-1504) e Margherita di Foix (1473-1536), sposata in seconde nozze da Ludovico e reggente lo stato dopo la sua morte, uno dei periodi più esaltanti della sua storia artistica, specie con l'attività del pittore piccardo Hans Clemer, identificato negli anni Settanta del secolo scorso da Gaglia e da Perotti nell'anonimo "Maestro d'Elva" a cui già la Brizio e la Gabrielli avevano dedicato pagine memorabili. Documenti resi noti negli ultimi vent'anni hanno confermato con certezza tale identità; Hans è verosimilmente il "magistrum de Alemania" cercato a Saluzzo dai membri del comune di Revello nel 1494, per un retablo che ancora nel 1500 risultava non eseguito (in questo caso si precisa il nome del pittore, "Ans"). Il che vuol dire che il Clemer doveva trovarsi a Saluzzo già da qualche tempo, verso l'inizio degli anni Novanta. Egli era cugino di Josse Lieferinxe, alias "Maestro di S. Sebastiano", ovvero il più significativo pittore attivo in Provenza alla fine del Quattrocento, anch'egli d'origine piccarda (come, prima di loro, il grande Enguerrand Quarton e forse anche Nicolas Froment). Nel dicembre del 1498 entrambi i cugini "alamans" firmano un contratto per un Polittico di S. Antonio ad Aix, che dieci mesi dopo viene corretto, facendo scomparire i riferimenti a Clemer, il quale evidentemente aveva soggiornato solo per pochi mesi in Provenza, per ritornare nuovamente nel Saluzzese. La sua presenza ad Aix è testimoniata in seguito nel 1508, per un retablo per la chiesa dei Frati Minori e per il completamento della Pala di S. Maddalena (destinata a Marsiglia) lasciata interrotta da Lieferinxe alla sua morte. Nel giugno del 1509 lo sappiamo di nuovo a Saluzzo, dove la sua giovane vedova manifesta nel maggio del 1512 l'intenzione di risposarsi; dovette dunque morire attorno al 1510-1511. Al 1496 risale la sua prima opera datata, il polittico della Madonna tra Santi nella parrocchiale di Celle Macra, mentre al 1503 è siglato il retablo della collegiata di Revello con S. Giovanni Battista tra i SS. Pietro e Paolo. Attorno a queste due date (e a quelle prima ricordate relative ai suoi viaggi in Provenza) ruotano gli altri dipinti che gli si possono assegnare: la pala della Madonna della Misericordia di Casa Cavassa (del 1499-1500, proveniente quasi certamente dalla Cappella Marchionale nel Palazzo di Revello), il Polittico del duomo di Saluzzo, privo dello scomparto centrale (1500-1501, contemporaneo alla decorazione clemeriana della facciata dell'edificio, di cui si conservano solo le tre lunette frammentarie) e alcuni interventi ad affresco, il più importante dei quali è il ciclo con Storie della Vergine e la Crocifissione nella parrocchiale di Elva, in alta Val Maira (la sua opera più cospicua, dal quale aveva preso il nome il pittore, prima della sua identificazione anagrafica), databile negli anni attorno al 1500, a cui sono da aggiungere i Simboli degli Evangelisti di una volta nella parrocchiale di Bernezzo, la Madonna col Bambino nel S. Michele di Centallo e una Pietà tra Santi nel S. Agostino di Saluzzo. La sua produzione tarda, successiva al polittico di Revello, comprende la Madonna del coniglio del Museo Bardini di Firenze e gli affreschi a monocromo nei cortili di due dimore signorili saluzzesi, le Storie di David della Casa Della Chiesa e le Fatiche d'Ercole di Casa Cavassa. Clemer si caratterizza per un disegno nervoso e vigoroso, che delinea fisionomie incisive, dalla profonda e complessa carica emotiva e psicologica; non a caso il suo stile ha richiamato spesso, prima della sua identificazione, anche grazie all'abbondanza dei fondi oro lavorati e ai tratti energici, confronti con l'arte tedesca e catalana, spiegabili con la cultura squisitamente "mediterranea" del pittore, aperto soprattutto alla declinazione provenzale di tale linguaggio. Non sembra portare traccia della sua origine piccarda; dovette invece contare molto per lui l'incontro con le ultime opere di Froment (morto nel 1483-1484), in cui già si ritrova un precedente del rovello grafico ed emotivo che gli sarà peculiare, mentre un parallelo alla sua maniera si riconosce non a caso nel cugino Lieferinxe (il cui stile sembra quasi una variante normalizzata, sensibile al classicismo di matrice bramantesca, di quello clemeriano) e, in modo più limitato, in Nicolas Dipre. Non dovette sfuggire ad Hans, forse sin dalla Madonna della Misericordia, un confronto col genio del Rinascimento piemontese, Martino Spanzotti, che del resto era impegnato nel 1509 ad eseguire una pala per la collegiata di Carmagnola e già in precedenza aveva inviato a Sommariva Perno una Pietà, spianando forse la strada per l'attività saluzzese del maestro spanzottiano-casalese (il presunto Aimo Volpi) del trittico del duomo (1511) e della Crocifissione nel refettorio del convento di S. Giovanni. L'evoluzione di Clemer si può seguire con gradualità, dall'ancora acerbo polittico di Celle Macra, passando per i capolavori di destinazione marchionale (la Madonna ora a Casa Cavassa e il retablo della cattedrale) e lo straordinario ciclo d'Elva (che dovette impegnare il maestro per diversi anni, viste le differenze tra le scene della parte alta e il resto), fino a giungere alle aperture verso il Rinascimento lombardo testimoniate dalla tavola ora a Firenze e dagli affreschi a grisaille, in cui Hans non rinuncia comunque alla sua robusta verve nordica. Gli affreschi a monocromo, con temi prevalentemente profani, sono una caratteristica del Rinascimento saluzzese; perduti quelli del secondo cortile della Castiglia (la residenza dei marchesi), della casa dei Vacca e di altre dimore di Saluzzo, rimangono ancora, oltre ai cicli clemeriani già menzionati, le decorazioni della facciata della cosiddetta Casa delle Arti Liberali e di un palazzo con Storie della Bella Maghelona (di queste ultime, di particolare rarità iconografica, sopravvivono solo scarsi frammenti). Nel circondario sono da ricordare anche le Storie della Maddalena della parrocchiale di Costigliole, gli Uomini d'arme del Palazzo Malingri di Bagnolo e le più rigide Storie del beato Amedeo IX di Savoia nel castello dei Principi d'Acaja a Pinerolo (anche in questo caso il feudo bagnolese conferma il suo ruolo di trait d'union tra Saluzzese e Pinerolese). Se è vero che Clemer non ebbe degli eredi diretti nel Saluzzese, a differenza di ciò che accadde in Provenza (con i trittici di Tarascon, Pertuis e Vinon), bisogna comunque ammettere che la sua influenza fu notevole e di lunga durata, comprendendo opere di strettissima osservanza (come il S. Michele Arcangelo di Pagno), o altre di cultura più complessa, come il Calvario di Scarnafigi, fino a segnare ancora una bottega attiva nel secondo quarto del secolo a Revello, Piasco, Isasca e Marmora.
Anche negli affreschi della cappella di S. Giovanni della Motta, nell'antica villa dei Cavalieri di Rodi, tra Cavallermaggiore e Monasterolo di Savigliano, risalenti all'inizio del Cinquecento, si notano citazioni dal Clemer, oltre che riferimenti al pinerolese Maestro di Cercenasco e anche a talune affinità col "Maestro dei Santi Reyneri", autore di due tavole con quattro Santi, parti di un polittico, una delle quali non a caso proveniva dal castello di Monasterolo. Tale pittore rivela legami con la cultura diffusa tra il Torinese e la Valle d'Aosta, scaturita da Antoine de Lonhy; non sembra inutile a questo riguardo, vista anche la notevole qualità delle tavole, evocare il nome dell'enigmatico Amedeo Albini, figura di primissimo piano, legato alla corte sabauda, noto solo per documenti tra Avigliana, Torino, Moncalieri, la Savoia e Milano, che nel 1483 aveva realizzato due opere per Savigliano (un vessillo della società popolare e un gonfalone del comune) e del quale si ritiene plausibile uno stile simile a quello del Lonhy. Anche le "curiosità archeologiche e parabramantesche" notate da Romano nell'architettura alle spalle dei Santi, databili al nono decennio del Quattrocento, non stupirebbero in un pittore che venne sollecitato nel 1486 dal duca di Milano di consegnare ad Ambrogio Grifi l'ancona che gli aveva promesso per la sua cappella in S. Pietro in Gessate, la stessa per la quale Butinone e Zenale eseguiranno pochi anni dopo le Storie di S. Ambrogio.
Clemer non fu l'unico e probabilmente neanche il primo pittore a portare nel Saluzzese un linguaggio moderno, rinascimentale; anche tralasciando i Santi Reyneri, di cui non è certa un'antica pertinenza all'area saviglianese, bisogna ricordare infatti la figura di Bartolomeo De Banis che, sebbene di statura ben inferiore, costituisce un altro caso significativo di pittore attivo tra il Saluzzese e la Provenza. De Banis era già noto dal testamento del pittore venaschese Bernardino Simondi, redatto ad Aix nel marzo del 1498, un mese prima di morire, che lo definiva "servitori meo predicti loci de Venasca" e gli lasciava, tra le altre cose, un libro d'incisioni con la Passione e gli Apostoli. Simondi, attivo tra Aix e Marsiglia dal 1495 al 1498, aveva altri due "servitori", di cui uno, Antonio Regis, proveniva dalla diocesi di Mondovì, mentre al suo stesso livello risultano altri due beneficiari del testamento, Claudio Ruffi d'Embrun e il "discreto viro" Josse Lieferinxe, il parente di Clemer prima citato, che dal 1497 era suo socio. Simondi si direbbe dunque personaggio di notevole rilievo e fu forse il maestro di De Banis, il cui stile è stato rivelato da un affresco con la Madonna col Bambino in trono da lui firmato nel 1497 sulla facciata d'una casa in Corso Umberto a Villafalletto, che la Rossetti Brezzi ha accostato al finto polittico con la Madonna tra Santi proveniente dal convento di S. Giacomo al Bosco di Buretto, presso Bene Vagienna, staccato e conservato ora a Fossano (in loco vi sono ancora altri riquadri laterali con Santi frammentari, che fingevano le ante aperte del retablo). A questo autore appartiene anche la Madonna col Bambino, angeli musicanti e i SS. Antonio e Bartolomeo nella prima cappella a sinistra dell'antica parrocchiale di Verzuolo (la stessa con i più antichi affreschi di Pietro Pocapaglia), datata al 1510 ma non firmata. L'omogeneità stilistica tra le tre opere è evidente, ma si notano anche dei notevoli scarti qualitativi, specie tra l'affresco del Buretto e quello di Villafalletto, che appare un poco maldestro, sia nella resa del trono (pur aggiornato su modelli aulici, con specchiature marmoree) che dei volti, pur tenendo presente lo stato conservativo. La differenza si spiega forse con una sensibile precocità del dipinto fossanese, collocabile entro il nono decennio, come ha giustamente argomentato la Brezzi, per la presenza di elementi formali (la luminosità e l'uso di colori puri, posti a contrasto) che richiamano la cultura scaturita da Quarton e riflessa in area ligure-nizzarda da Durandi e dalle prime opere di Canavesio. Più complicata è invece la ricerca degli stimoli filo-lombardi, evidenti nella vistosa incorniciatura a candelabre e tondi, che non s'accorda con le figure. Non del tutto convincente è un riferimento a Spanzotti riguardo alla Madonna, per le affinità troppe generiche e anche per la mancanza di altre testimonianze di un'accoglienza altrettanto precoce del suo linguaggio nel nostro territorio. Più interessante è l'accostamento proposto da Romano della Madonna di Buretto con la tavola della Vergine col Bambino e le SS. Lucia e Maddalenadel Museo Adriani di Cherasco, che è però a sua volta questione assai spinosa, da approfondire verificando la matrice degli elementi nordicizzanti e lombardeggianti (forse non estranei al Foppa degli anni Settanta, quello della Madonna del libro del Castello Sforzesco) che la caratterizzano. Ad un ambito culturale affine al De Banis sembra rimandare anche un'Adorazione del Bambino, con un Santo domenicano e angeli musicanti, sulla facciata dell'Istituto Denina, in Via Della Chiesa a Saluzzo, sede dell'antico Ospedale. L'affresco è purtroppo assai consunto, ma si rivela ancora d'ottima qualità; anche qui gli elementi formali indirizzano verso la Provenza e l'ambiente ligure-nizzardo, a modelli simili a quelli a cui attingeva De Banis, per la presenza di un ampio tendaggio che chiude lo spazio, le pieghe tubolari del Santo domenicano, il volto ovale, dalla fronte spaziosa e lucente della Vergine, la figura di S. Giuseppe (o Antonio Abate?) che ricorda quello già al Buretto e fa venire in mente opere provenzali come l'eremita dell'affresco distrutto con l'Ultima comunione della Maddalena nella chiesa dei Celestini ad Avignone, attribuibile a Quarton e il S. Antonio del Trittico di S. Stefano a Gréolières, anticipando inoltre il S. Antonio del Polittico di Soldano (ancora più prossimo al suo omonimo di Buretto). Cosa che fa ulteriormente riflettere sulla proposta di Bartoletti d'identificare la bottega che ruota attorno a tale dipinto ligure con i fratelli De Rogeriis, originari di Venasca come Simondi e forse anche De Banis (che nell'affresco di Villafalletto è detto abitator, non civis di Venasca). Ad un ordine di problemi parzialmente parallelo riconduce anche la Madonna col Bambino affrescata in Via Umberto a Vignolo, assai fine nel volto (la zona inferiore del corpo e il Bambino sono purtroppo quasi perduti), che sembra recuperare i modelli del Primo Maestro di Boves rafforzandoli con una più convinta meditazione sull'area Canavesio-Brea.
Intanto anche l'Albese tra l'ultimo decennio del Quattrocento e l'inizio del secolo seguente viveva una stagione figurativa di eccezionale fioritura, aprendosi alla cultura rinascimentale anche grazie agli auspici di committenti colti e aggiornati (come il vescovo Andrea Novelli) e dei legami col Marchesato del Monferrato. I protagonisti di questo rinnovamento del gusto in ambito pittorico furono Macrinod'Alba e Gandolfino da Roreto, che pur movendosi in un contesto geografico e politico in parte simile, tra Alba, Asti e il marchesato paleologo, svilupparono dei percorsi stilistici assai differenti, con pochi punti d'incontro. Gian Giacomo de Alladio, detto Macrino a causa della sua minuta costituzione, rappresenta per molti aspetti un'eccezione nell'arte piemontese del tempo, per lo spiccato accento umbro-romano del suo stile, che ha fatto ipotizzare un suo soggiorno di formazione a Roma attorno all'inizio degli anni Novanta, durante il quale dovette entrare in contatto soprattutto con l'ambito di Pinturicchio (forse addirittura frequentando la sua bottega) e osservare con attenzione molto di ciò che la cultura locale offriva tra il nono e l'inizio del decimo decennio, a partire dall'eterogeneo cantiere della Cappella Sistina, passando per la Cappella Bufalini in S. Maria in Aracoeli e gli Appartamenti Borgia decorati da Pinturicchio, fino alla Cappella Carafa in S. Maria sopra Minerva di Filippino Lippi. Fu colpito inoltre dalle opere di Signorelli e di Perugino; tutte queste esperienze traspaiono dai dipinti che realizzò appena ritornato ad Alba, attorno al 1493-1494, ovvero la pala della Madonna in trono tra i SS. Nicola e Martino ora alla Pinacoteca Capitolina di Roma e un polittico proveniente dall'altare dell'Immacolata Concezione nel S. Francesco di Alba, di cui a Francoforte si conservano i tre scomparti del registro inferiore, montati in un'incorniciatura ottocentesca. Queste tavole, di una leggerezza e freschezza di tratto e di composizione forse mai più raggiunta da Macrino in seguito, recano impressi i segni delle recenti scoperte romane, dal gusto per l'ampiezza paesistica a quello per i dettagli antiquari e per la citazione di edifici romani esistenti o d'invenzione, ai tipi fisionomici e all'indagine dei rapporti sentimentali fra le figure. Il passo successivo è indicato dal trittico del Museo Civico di Torino, firmato e datato al 1495, in cui il pittore albese, come già nelle tavole di Francoforte, unifica lo spazio continuando uno stesso paesaggio alle spalle degli interpreti della Sacra Conversazione, sistemati sotto un loggiato aperto da arcate, con soffitto cassettonato in prospettiva, adottando dunque un sistema di pala moderna inaugurata in area padana da Mantegna con la Pala di S. Zeno a Verona sin dagli anni Cinquanta, ma che in Piemonte non era ancora affatto un'opzione scontata. S'accentua l'ingombro monumentale delle figure, proseguito nel polittico eseguito l'anno seguente per la certosa di Pavia (completato da due panelli laterali dell'ordine superiore da Bergognone), in cui cominciano a comparire dei colori brillanti e smaltati, quasi irreali, che caratterizzeranno la sua produzione fino all'inizio del Cinquecento. L'inserimento nel cantiere della certosa, il più prestigioso della fine del XV secolo in Lombardia, sottolinea il credito che il pittore aveva ormai acquisito e che confermò con l'imponente ancona per la certosa di Valmanera presso Asti, ora alla Sabauda, vistosa esibizione di virtuosismo grafico e prospettico, arricchita da citazioni classicheggianti più o meno esplicite, che introdusse in Piemonte il tipo della pala unitaria centro-italiana a sviluppo verticale, destinato ad avere scarso seguito immediato. Nelle opere realizzate tra il 1499 e il 1503, nel periodo di più esplicito rapporto con l'ambiente del marchesato paleologo, Macrino sviluppa un ricercato formalismo, già intravisto nel retablo pavese, forse inteso ad adeguarsi alla nobiltà e ufficialità delle commissioni. Il capolavoro di questa fase è il Polittico di Lucedio (1499), di cui è conservato a Tortona il registro inferiore e al quale apparteneva anche verosimilmente una Pietà di proprietà privata, che permette di osservare con quale spirito contenuto e aulico, ma anche di piena evidenza espressiva Macrino affrontasse un tema in cui spesso i suoi illustri contemporanei, come Spanzotti e Bergognone, puntavano sul pathos e sulla poesia degli affetti. Altrettanto significativa è la pala per l'altare maggiore del santuario di Crea, che riassume molti degli aspetti tipici del suo stile, dalla solenne e composta partecipazione all'evento religioso, alla minuziosa resa del paesaggio in cui incombono sistemi rocciosi e rovine antiche fuori scala. A questa ancona appartenevano anche i due piccoli ritratti di Guglielmo IX Paleologo e di Anna d'Alençon, che testimoniano un rinnovato tentativo di aggiornamento in direzione lombarda, guardando a modelli leonardeschi nella morbidezza dei passaggi chiaroscurali e nell'impostazione della figura della giovane Anna, che ricorda la celebre Belle Ferronière di Leonardo. Negli anni dei contatti con il Monferrato fu inevitabile per Macrino confrontarsi con Spanzotti, come conferma una serie di Madonne allattanti di Martino e della sua cerchia (i Volpi) che propongono un modello di matrice leonardesca noto anche in alcune versioni macriniane. Altre suggestioni lombarde, provenienti da Zenale oltre che da Leonardo, si notano nell'Adorazione allegorica del duomo di Torino (1505, ora alla Sabauda), dove la maggiore morbidezza degli incarnati e fusione dei colori, nonché l'attenzione alle modulazioni luministiche, paiono derivare anche da un confronto col singolare "Maestro di S. Martino Alfieri", un pittore di cultura franco-provenzale attivo nell'Astigiano nel primo decennio del Cinquecento, che sembra accordare una cultura alla Lieferinxe con l'ispirazione letterale a modelli macriniani (si pensi all'Adorazione del Bambino ora ad Asti). Nell'ultimo decennio conosciuto della sua attività (al 1513 risale la sua opera nota più tarda, una Madonna col Bambino) la maniera di Macrino si fa più stanca e ripetitiva, concentrandosi ad Alba e concedendo ampio spazio agli interventi di bottega (come nel polittico smembrato già sull'altare maggiore della chiesa albese di S. Francesco, ora alla Sabauda, del 1506).
Da questa stessa chiesa di Alba proviene la prima opera firmata e datata al 1493 di Gandolfino da Roreto, il Polittico dell'Incoronazione della Vergine, nel quale il pittore astigiano, come anche nella tavola con l'Annunziata della SS. Annunziata di Portoria a Genova, che è stata recentemente attribuita alla sua attività giovanile, rivela una formazione basata su una cultura ligure-provenzale ad apertura "mediterranea", per i tipi fisionomici e i volti femminili ovali che richiamano la produzione dei Brea, i panneggi degli angeli accartocciati secondo l'insegnamento dell'arte fiamminga ben nota in Liguria, uniti a retaggi tardogotici nella flessuosità di certe figure e nell'abbondante uso dell'oro, la struttura della cornice a decori fitomorfi e altri dettagli tecnici (come il tipo delle aureole che richiama delle opere catalane) o iconografici (l'impostazione dell'Incoronazione della Vergine che ricorda celebri dipinti provenzali di Quarton e del suo ambito). Una certa qual rusticità dei tipi, specie nella predella col Cristo fra gli Apostoli ancora conservata nel S. Francesco di Alba e verosimilmente pertinente a tale retablo, può far sospettare che a Gandolfino non fosse del tutto estraneo il linguaggio di un altro artista di cultura "mediterranea" attivo in Piemonte, cioè Antoine de Lonhy. Nel complesso si trattava di una proposta stilistica che doveva risultare abbastanza famigliare ad Alba (in costante rapporto con la Liguria) e in stridente contrasto invece con le raffinate novità romane che Macrino riportava baldanzosamente in città in quegli stessi anni e, anzi, nella stessa chiesa. Il passo successivo nel percorso di Gandolfino, la Presentazione al Tempio di Roma, mostra il pittore già aggiornato su più moderne esperienze lombarde, verosimilmente ancora per mediazione ligure e forse grazie alla presenza a Genova di Boccaccio Boccaccino, che dovette contare molto anche per la svolta prospettica e antichizzante di Luca Baudo. Ma è con la Pala di S. Maria Nuova ad Asti, del 1498, che Gandolfino realizza una compiuta conversione al linguaggio rinascimentale di matrice padana, con informazioni particolarmente à la page per lo spazio unitario in cui si svolge la Sacra Conversazione, collocata in un ampio paesaggio e organizzata attorno all'imponente e classicheggiante trono della Vergine, tanto da presupporre contatti con modelli di ambito emiliano-veneto, forse, ancora una volta, diffusi dal Boccaccino. Gandolfino guardava inoltre verso Bramante e Zenale, come dimostra sia l'impostazione del polittico del duomo di Asti (1501), con un impianto prospettico unitario negli scomparti inferiori e superiori, che scaturisce dal Polittico di Treviglio di Butinone e Zenale (1485-1490) e dalle sue derivazioni, sia il più tardo Trittico dell'Assunzione che ricorda per la composizione e la scioltezza della materia pittorica un trittico di Zenale già a Cantù (1502). Tralasciando i successivi sviluppi del suo stile, legati essenzialmente alla cultura cremonese espressa da figure come Boccaccino, Altobello Melone e lo stesso Francesco Casella (attivo anche in Piemonte), che esulano dai limiti cronologici e geografici del presente studio, è necessario invece ricordare un'altra prestigiosa presenza di Gandolfino nel nostro territorio, il Polittico della Madonna in trono tra angeli e Santi del S. Pietro di Savigliano, databile all'inizio del Cinquecento per le consistenti affinità con opere di quel periodo, a cominciare dal polittico di S. Maria Nuova ad Asti, ora ricomposto in un'incorniciatura seicentesca, ma d'impianto originario simile a quello saviglianese, dove risalta la preoccupazione di Gandolfino di creare una prospettiva unitaria in tutto il complesso, anche a costo di far precipitare il soffitto quasi addosso ai Santi dell'ordine superiore. Questa splendida opera, smagliante anche per la preziosa cornice originaria di gusto pienamente rinascimentale, dovette creare un forte impatto nel panorama culturale locale, in cui Gandolfino intervenne anche nel decennio seguente con altri dipinti per la stessa chiesa, creando le premesse per gli esordi di Oddone Pascale, uno dei pochi "eredi" del suo linguaggio.
A fronte delle prestigiose proposte avanzate da Macrino e Gandolfino nel campo della pittura su tavola, la produzione ad affresco nell'Albese di fine Quattrocento risulta più legata alla tradizione tardogotica. Un'eccezione è costituita dall'affresco staccato dal S. Domenico di Alba con l'Adorazione dei Magi e dei Santi, che rivela influssi spanzottiani, forse collegabili anche all'invio a Sommariva Perno della Pietà già citata; lo stato di conservazione non permette comunque un compiuto giudizio sull'opera. Più cauto appare l'accostamento ai modelli proto-rinascimentali filo-lombardi da parte di Agostino Bianchetti da Cherasco, noto per un ciclo decorativo nel S. Agostino di Cherasco, commissionatogli nel 1498 ma distrutto nel Seicento assieme all'edificio e per una Madonna col Bambino e angeli a Cissone, che porta la sua firma sulla pedana del trono. Allo stesso autore è stata attribuita anche un'altra Madonna a Murazzano, simile per l'espressione malinconica dello sguardo. Non è molto persuasiva la lettura in direzione alessandrina e tortonese che si è proposta di recente del suo stile, fatto derivare dai Boxilio e da Quirico da Tortona; Bianchetti sembra conoscere piuttosto la cultura monregalese, per lo meno nell'affresco di Murazzano dove l'impostazione della veste della Vergine e il suo decoro a stampo ricordano opere come la Madonna di Segurano Cigna a Pamparato o quella del S. Maurizio di Roccaforte Mondovì che mi sembra a lui attribuibile. Sono invece il tipo del volto della Vergine e la corpulenza del Bambino che richiedono la ricerca di altre fonti d'ispirazione per il dipinto di Murazzano.
Ma l'espressione più importante della pittura su muro del tardo Quattrocento nell'Albese è il ciclo con Storie della Passionenell'oratorio di S. Francesco a S. Vittoria d'Alba, che rivela influssi nordici e richiami stilistici e iconografici ad altre opere di ambito alpino, come nel motivo del Giuda impiccato dal quale un diavolo sta estraendo le viscere, che è di larga diffusione tra Quattro e Cinquecento (si pensi a Canavesio), o nella figura del soldato che si allunga per sporgere a Cristo la spugna, che ricorda l'affresco del S. Vito di Piossasco. A livello formale il Maestro di S. Vittoria ricorda la poetica para-fouquettiana del Maestro di Cercenasco, per la ricerca di volumi sintetici unita ad una vivace attenzione per le fisionomie, assai espressive; non mancano anche analogie con la tela della Madonna della Misericordia di Alba di cui s'è già parlato, il che sottolinea come nell'Albese convivessero tendenze culturali abbastanza varie e non ancora appieno sondate.
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