Percorso sulla retorica


di Laura Lorenza Sciolla
docente Scuola Secondaria di secondo grado

PARTE 2

Come comporre un discorso convincente

Supponiamo di seguire la composizione di un'orazione da parte di un giovane oratore dell'età di Cesare. In quest'età la retorica, pur essendo ancora al centro di dibattiti, è ormai accettata.  Sono lontani i provvedimenti senatoriali (161 a. C., espulsione dei maestri greci di retorica) e censorii (92 a. C., editto di Crasso contro i rhetores Latini) che caratterizzarono la tormentata affermazione dell'arte della parola a Roma. Inoltre, nel I sec. a. C., il giovane che decida di dedicarsi alla pratica oratoria ha a disposizione manuali completi e capillari, dalla Rhetorica ad C. Herennium (composta tra l'88 e l'82 a. C. e un tempo attribuita a Cicerone), alle numerose opere dedicate da Cicerone alle artes dicendi: il giovanile De inventione (le cui affinità con la Rhetorica ad C. Herennium hanno fatto pensare ad una fonte greca comune), le opere scritte al ritorno dall'esilio, il De oratore (55 a. C.), il Brutus (46 a. C.), il De optimo genere oratorum (46 a. C., trattatello premesso alla traduzione, oggi perduta, delle orazioni di Demostene e di Eschine per il processo sulla corona), l'Orator (fine del 46 a. C.), i Paradoxa Stoicorum (46 a. C., breve opera di genere retorico-filosofico) e i Topica (44 a. C., l'ultima opera retorica di Cicerone). Oltre alle opere elencate, esistevano probabilmente altri trattati, oggi perduti, ad uso degli aspiranti retori. Faremo inoltre spesso riferimento all'opera di Quintiliano che, pur appartenendo al I sec. d. C., si pone sulla linea ciceroniana e offre un incomparabile compendio delle teorie e delle tecniche retoriche.

 La macchina retorica
Le parti tecniche delle opere citate (che inseriscono le nozioni specialistiche all'interno di una profonda e appassionata discussione sulle caratteristiche dell'oratore e sul suo ruolo nella società) delineano una sorta di "programma" per generare discorsi o, per riprendere le parole di Barthes, una "macchina retorica":
"Se [...] si sovrimprimono in certo qual modo le sotto-classificazioni dell'antica retorica, si ottiene una distribuzione canonica delle diverse parti della téchne, un reticolo, un albero, o piuttosto una grande liana che scende di grado in grado, sia dividendo un elemento generico, sia raccogliendo delle parti sparse. Questo reticolo è un montaggio. Si pensi a Diderot e alla macchina per far calze: ‘On peut la regarder comme un seul et unique raisonnement dont la fabrication de l'ouvrage est la conclusion...' (Si può considerare come un solo ed unico ragionamento di cui la fabbricazione dell'opera è la conclusione...). Nella macchina di Diderot, quello che viene infornato all'entrata, è il materiale tessile, quello che si trova all'uscita sono delle calze. Nella ‘macchina' retorica, ciò che si mette all'inizio, emergendo a pena da una nativa afasia, sono dei materiali bruti di ragionamento, dei fatti, un ‘soggetto'; ciò che si forma alla fine è un discorso completo, strutturato, completamente armato per la persuasione'.[i]
La "macchina" comprende cinque operazioni principali:
·l'inventio, cioè invenire quid dicas (trovare che cosa dire);
·la dispositio, cioè inventa disponere (disporre, mettere in ordine ciò che si è trovato);
·la elocutio, cioè ornare verbis (esprimere attraverso le parole, opportunamente ornate da figure, le idee trovate nella inventio);
·l'actio, cioè agere et pronuntiare (recitare il discorso curando gesti e dizione);
·la memoria, cioè memoriae mandare (imparare a memoria).

Inventio
Nel passaggio dal latino inventio all'italiano invenzione, il termine ha subito un cambiamento di significato che è illuminante della diversa concezione della creatività vigente nella nostra cultura, rispetto a quella degli antichi: se per noi invenzione è ideazione o creazione di qualcosa di nuovo, per i latini invece inventio è scoperta, ritrovamento di qualcosa di già esistente: "tutto esiste già, bisogna solo ritrovarlo"[ii]. Il retore ha a disposizione dei repertori di res, contenuti, ove può trovare il materiale che dovrà poi ordinare con la dispositio e tradurre in verbis con l'elocutio.

Topica: i luoghi in cui trovare gli argomenti
Tali repertori sono i Topica, cioè i "luoghi" o "contenitori" degli argomenti (res) da usare nell'orazione. La metafora del tópos, "luogo" ove sono riposti i contenuti, deriva dall'arte mnemonica (vedi Memoria): Aristotele insegna infatti che per ricordarsi delle cose basta ricordarsi dei luoghi in cui esse si trovano. Dumarsais definisce i luoghi come "cellette in cui tutti possono andare a prendere, per così dire, la materia d'un discorso e gli argomenti su ogni tipo di soggetto" [iii].
Dopo aver definito i luoghi come un repertorio di argomenti, dai quali attingere la materia del discorso, Cicerone raccomanda discernimento e cautela nella scelta:
"Sed ut segetes fecundae et uberes non solum fruges, verum herbas etiam effundunt inimicissimas frugibus, sic interdum ex illis locis aut levia quaedam aut causis aliena aut non utilis gignuntur; quorum ab oratoris iudicio delectus magnus nisi adhibebitur, quonam modo ille in bonis haerebit et habitabit suis, aut molliet dura, aut occultabit quae dilui non poterunt atque omnino opprimet, si licebit, aut abducet animos aut aliud afferet, quod oppositum probabilius sit quam illud, quod obstabit?" (orat. XV).
Ma come i campi fertili ed ubertosi recano non solo le messi, ma anche erbe che a quelle sono inimicissime, così da quei luoghi possono talvolta nascere pensieri o futili o estranei e non utili alla causa; e se l'oratore non userà il suo discernimento nel farne una severa scelta, come potrà fermarsi ed insistere su quel che gli giova, o raddolcire certe asprezze o tenere in ombra quel che non riesce a distruggere, o tacerlo affatto, se possibile, o distoglierne gli animi, o recare altri argomenti a quelli che gli sono opposti, e meglio accettabili? (tr. it. di Alessandro Donati).
In particolare, Aristotele distingue i luoghi comuni, che possono servire indifferentemente a qualsiasi scienza e sono indipendenti da tutte, e i luoghi specifici, propri a una scienza in particolare o a un ben definito genere oratorio. La connotazione negativa che ha assunto per noi il termine luogo comune è ignota alla trattazione aristotelica, ma risale ai secoli successivi.
"La degenerazione della retorica e la mancanza di interesse per lo studio dei luoghi da parte dei cultori di logica, ha avuto la conseguenza imprevista che i pezzi oratori contro il lusso, la lussuria, la pigrizia ecc., ripetuti fino alla nausea nelle esercitazioni scolastiche, sono stati classificati luoghi comuni, nonostante il loro carattere assolutamente particolare. Già Quintiliano ha cercato di reagire, senza riuscirvi, contro questo abuso. Sempre più si tende a considerare luoghi comuni quelli che il Vico, per esempio, chiama i luoghi oratorî, per contrapporli a quelli dei quali trattano i Topici. I luoghi comuni dei nostri giorni sono caratterizzati da una banalità che non esclude affatto la specificità. Per dire il vero essi non sono che un'applicazione ad argomenti particolari dei luoghi comuni in senso aristotelico. Ma poiché tale applicazione riguarda un soggetto spesso trattato, si svolge in un certo ordine, con connessioni prevedute, non si pensa più che alla sua banalità, disconoscendo il suo valore argomentativo. Si tende così a dimenticare che i luoghi costituiscono un arsenale indispensabile al quale chi vuole persuadere altri dovrà per forza attingere".[iv]
La scelta degli argomenti
I tópoi non sono disposti in forma elencativa, ma in una struttura funzionale al loro rinvenimento e al loro uso. I luoghi da consultare dipendono infatti da diverse variabili, tra le quali rivestono particolare importanza:
·l'uditorio a cui ci si rivolge e, ad esso strettamente legato,

·il genere del discorso che si intende pronunciare.


L'uditorio
Poiché la retorica è l'arte del persuadere, l'uditorio è di importanza cruciale per la costruzione del discorso. Per dirla con Vico:
"Nell'eloquenza la cosa sta tutta fra noi e gli ascoltatori: noi dobbiamo adattare il nostro discorso alle loro opinioni"[v]
L'uditorio, che in generale si può definire come "l'insieme di coloro sui quali l'oratore vuole influire per mezzo della sua argomentazione"[vi], non è necessariamente costituito dai soggetti apostrofati durante un'orazione. Per esempio, nel celeberrimo esordio della prima Catilinaria,
Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?
Fino a quando abuserai, Catilina, della nostra pazienza?
Cicerone, pur rivolgendosi a Catilina (presente alla seduta senatoriale dell'8 novembre del 63 a. C.), ha come uditorio i senatori: intende infatti convincerli della necessità di prendere provvedimenti straordinari contro Catilina.
Perelman e Olbrechts-Tyteca notano che
"Similmente, chi concede un'intervista a un giornalista considera il proprio uditorio costituito dai lettori del giornale, piuttosto che dalla persona che si trova dinanzi a lui"[vii]
e sottolineano la difficoltà di determinare l'uditorio di una comunicazione. La difficoltà si fa ancora più grande
"quando si tratta dell'uditorio di uno scrittore, perché nella maggior parte dei casi i lettori non possono essere individuati con certezza."[viii]
Gli antichi trattati di retorica dedicano tale attenzione allo studio dell'uditorio, da sconfinare talvolta nella psicologia.
 Aristotele, per esempio, classifica gli ascoltatori in base all'età (giovinezza, maturità, vecchiaia) e alle condizioni di fortuna (nobiltà, ricchezza, potere e il loro contrario), notando che
"I giovani sono inclini ai desideri e portati a fare ciò che desiderano. Tra i desideri del corpo sono portati soprattutto a quelli erotici e sono incontinenti al riguardo. Sono mutevoli e presto sazi nei loro desideri e, come desiderano intensamente, così cessano rapidamente di desiderare; infatti le loro volontà non sono forti, ma sono come la sete e la fame dei malati" (ret. II (B) 12, tr. it. di A. Plebe),
mentre i vecchi hanno "la maggior parte delle qualità di carattere pressoché opposto alle suddette" (ret. II (B) 13).
Cicerone sottolinea che bisogna parlare in modo diverso agli uomini ignoranti e a quelli colti, e che
"Haec enim sapientia maxime adhibenda eloquenti est, ut sit temporum personarumque moderator. Nam nec semper nec apud omnes nec contra omnes pro omnibus nec omnibus eodem modo dicendum arbitror" (orat. XXXV).
"Qualità essenziale è saper adattare le parole alle persone e ai tempi; perché non sempre né davanti a tutti né per tutti o contro tutti credo si possa parlare alla stessa maniera." (tr. it. di Alessandro Donati).
 
Anche Quintiliano, un secolo dopo, sottolineerà come l'oratore debba adattarsi all'uditorio, con un camaleontismo che supera addirittura quello degli attori:
"Enimvero praecipue declamatoribus considerandum est, quid cuique personae conveniat, qui paucissimas controversias ita dicunt ut advocati, plerumque filii, parentes, divites, senes, asperi, lenes, avari, denique superstitiosi, timidi, derisores fiunt; ut vix comoediarum actoribus plures habitus in pronuntiando concipiendi sint quam his in dicendo" (inst. Or. III, 51).
È di straordinaria importanza per gli oratori considerare che cosa si adatti a ciascuna persona, ed essi pochissime controversie sostengono come avvocati, mentre per lo più appaiono sotto la veste di figli, di genitori, di ricchi, di vecchi, di severi, di miti, di avidi e infine di superstiziosi, di paurosi, di schernitori, così che raramente è dato agli attori di assumere nel recitare ruoli più variati di quanto non facciano gli oratori nel difendere (tr. it. di O. Frilli).
Leggendo le pagine dei retori sulle passioni che muovono l'uditorio, si nota l'estrema banalità delle indicazioni: la psicologia dei vecchi, dei giovani, dei ricchi, dei poveri ecc. è considerata in modo generico e stereotipato. È proprio vero, per esempio, che i vecchi sono meno soggetti alla collera dei giovani?
A detta di Barthes, tale genericità fa di Aristotele il
"patrono ideale d'una sociologia della cultura detta di massa: tutte queste passioni sono volontariamente prese nella loro banalità: la collera è ciò che tutti pensano della collera, la passione non mai altro che quel che se ne dice [...]. La psicologia retorica è quindi tutto il contrario d'una psicologia riduttrice, che tenti di vedere cosa sta dietro a quel che le persone dicono e pretenda di ridurre la collera, ad esempio, a qualcos'altro di più nascosto. Per Aristotele, l'opinione del pubblico è il dato primo e ultimo; non c'è in lui nessuna idea ermeneutica (di decifrazione); per lui le passioni sono pezzi di linguaggio già fatti, che l'oratore deve semplicemente conoscere bene; di qui l'idea d'una griglia delle passioni, non come una collezione d'essenze, ma come una raccolta di opinioni."[ix]
Le classificazioni dei "tipi" psicologici costituenti l'uditorio, con le conseguenti istruzioni su come rivolgersi a ciascuno dei tipi, ricordano le ricerche sul target che precedono tutte le operazioni del marketing o della pubblicità dei giorni nostri.
Il genere
L'uditorio è talmente importante che in base ad esso si individua il genere del discorso. Gli antichi classificavano infatti i discorsi in tre generi, a cui corrispondevano finalità e modalità diverse della persuasione.
Quando l'uditorio è costituito da un'assemblea "rivolta a prendere deliberazioni" il discorso rientra nel genere deliberativo; quando è costituito da "persone che devono esprimere giudizi", rientra nel genere giudiziario; quando, infine, è costituito da un pubblico che vuole godersi l'orazione come fosse uno spettacolo, si ha il genere epidittico.
Rifacendosi ad Aristotele, Roland Barthes[x] illustra le differenze fra i tre generi con una schematizzazione alla quale si ispira, con alcune semplificazioni, lo schema qui sotto:
Genere
Uditorio
Finalità
Oggetto
Tempo
DELIBERATIVO
Assemblea rivolta a prendere deliberazioni
Consigliare/sconsigliare
Utile/nocivo
avvenire
GIUDIZIA
RIO
Giudici
Difendere/
accusare
Giusto/ingiusto
passato
EPIDITTI
CO
Pubblico
Lodare/
biasimare
Bello/brutto
presente

Come si agisce sull'uditorio
In tutti i generi l'oratore agisce sulla psiche dell'uditorio a due diversi livelli:
a)a livello razionale, attraverso la persuasione logica; questo tipo di azione è detto fidem facĕre;

b)a livello emotivo, attraverso lo scatenamento di passioni, odi, simpatie, antipatie...; questo tipo di azione è detto animos impellĕre.

a)Fidem facĕre: le prove
Torniamo ora al nostro aspirante oratore, e supponiamo che intenda pronunciare un discorso di genere giudiziario (il genere al quale i trattati greco-latini hanno dato più spazio). Per persuadere a livello razionale il suo uditorio, dovrà addurre delle prove (probationes). Il termine ha un significato diverso da quello della giurisprudenza attuale[xi]. Indica infatti "vie per ottenere la fiducia" (fides), siano esse derivanti dai fatti (probationes inartificiales), o derivanti dall'arte retorica dell'oratore (probationes artificiales).
·Le probationes inartificiales comprendono tutti gli elementi attinenti la causa che l'oratore riesce a radunare. Per esempio, i praeiudicia (le sentenze anteriori), i rumores (le dicerìe), i tormenta (confessioni sotto tortura), le tabulae (atti, contratti, accordi...), lo iusiurandum (giuramento), i testimonia (non solo "testimonianze" nel senso moderno, ma anche citazioni da poeti, saggi, proverbi...).
Per esempio, nella Pro Archia le testimonianze degli Eracleesi e di Lucullo sono
probationes inartificiales della cittadinanza romana di Archia.
·Le probationes artificiales invece non derivano da elementi esterni, ma dalla capacità persuasiva dell'oratore, dal suo possesso dell'arte (per questo sono dette artificiales). Egli infatti deve saper svolgere dei ragionamenti che convincano l'uditorio, avvalendosi sia del procedimento induttivo, sia di quello deduttivo. Nel primo caso (induzione), ricorre a exempla. Nel secondo (deduzione), a entimemi.
üL'exemplum "produce una persuasione più dolce, meglio apprezzata dal volgo; è una forza luminosa, che abbellisce il piacere inerente ad ogni comparazione"[xii]. Consiste nel paragonare il fatto in questione a un altro fatto, presentato come paradigmatico, evidenziando le analogie o i contrari (exemplum a contrario). Può essere definito un processo induttivo, in quanto va dal particolare a un altro particolare, passando attraverso un anello implicito nel generale. L'exemplum può essere reale (storico o mitologico; il mitologico, con nostra sorpresa, rientra nel "reale", perché si rifà a qualcosa di codificato, non inventato dall'oratore stesso) o fittizio. Sono exempla fittizi le favole e le parabole.

Probabilmente, vivendo nel I sec. a. C., il nostro giovane oratore non saprà sottrarsi al fascino di un tipo di exemplum che proprio in quel tempo apparve e iniziò la sua straordinaria fortuna: l'imago, cioè la menzione di una figura esemplare di una certa virtù. Famosa, per esempio, è l'imago di Cicerone: Cato illa virtutum viva imago. L'uso dell'imago si diffuse al punto che ne vennero compilati repertori, ad uso delle scuole di retorica; in questo genere rientrano, per esempio, i Factorum ac dictorum memorabilium libri novem di Valerio Massimo.
ü L'entimema è per Aristotele un sillogismo fondato sul verisimile anziché sul vero (com'è il caso invece del sillogismo scientifico). A partire da Quintiliano, sarà invece definito entimema un sillogismo incompleto.
Svariate sono le forme dell'entimema, per esempio
-il prosillogismo, cioè una catena di sillogismi in cui la conclusione di uno diventa la premessa del successivo;
-il sorites, cioè un'accumulazione di premesse;
-l'epicherema, o sillogismo sviluppato, in cui ciascuna premessa è accompagnata dalla sua prova; la ProMilone di Cicerone è un epicherema sviluppato: "1) è consentito uccidere quelli che ci tendono tranelli; 2) prove tratte dalla legge naturale, dal diritto delle genti, da exempla; 3) ora, Clodio ha teso tranelli a Milone; 4) prove tratte dai fatti; 5) quindi era consentito a Milone uccidere Clodio."[xiii];
-l'entimema apparente, cioè il ragionamento fondato su un gioco di parole;
-la sententia, la massima.
b) Animos impellĕre
Se il fidem facĕre richiede un lavoro di ricerca "sul campo" (per raccogliere le probationes inartificiales), un ampio bagaglio di conoscenze storiche, mitologiche e letterarie, nonché la costruzione di ragionamenti persuasivi fondati su premesse non sempre solide, la capacità di animos impellĕre comporta notevoli doti psicologiche: sotto la superficie del discorso fatto di parole e di ragionamenti logici, corre un "non detto" di sensazioni, a volte più importante del messaggio esplicito. Al fine di animos impellĕre, l'oratore deve infatti lavorare sia su se stesso, per offrire al pubblico un'immagine accattivante (ciò che oggi è detto il look), sia sul pubblico, per sollecitarne gli affetti.
·Il look dell'oratore: i "caratteri", έ̉θη

Secondo Aristotele, tre sono i "caratteri" (gli atteggiamenti, i toni) che l'oratore deve mostrare:
-φρόνησις: saggezza, buon senso;
-α̉ρετή: virtù, franchezza, lealtà;
-εύ̉νοια: simpatia, gradevolezza.
L'ostentazione di tali qualità suscita il consenso: "mentre parla e svolge il protocollo delle prove logiche, l'oratore deve anche dire incessantemente: seguitemi (φρόνησις), stimatemi (α̉ρετή) e amatemi (εύ̉νοια)."[xiv]
·La sollecitazione degli affetti: πάθη sono gli affetti , le passioni e i sentimenti del pubblico. Essi sono elencati da Aristotele secondo le disposizioni che li favoriscono, l'oggetto per cui si provano, le circostanze che li suscitano, secondo coppie antinomiche: collera/calma, odio/amicizia, timore/fiducia...
Barthes nota che "tutte queste passioni sono volontariamente prese nella loro banalità: la collera è ciò che tutti pensano della collera, la passione non mai altro che quel che se ne dice [...]. Può parere assai banale (e probabilmente falso) dire che i giovani vanno in collera più facilmente che non i vecchi; ma questa banalità (e questo errore) diventa interessante se capiamo che una simile proposizione non è se non un elemento di quel linguaggio generale altrui che Aristotele ricostituisce, in conformità forse all'arcano della filosofia aristitelica: "l'opinione universale è la misura dell'essere (Et. Nic. X.2.1173 a I.)"[xv]

L'albero dell'inventio
Per riassumere, schematizziamo i passi del nostro aspirante oratore secondo una sorta di "albero" o "programma" per generare discorsi.


Dispositio
La dispositio, cioè l'ordine in cui sono disposti i materiali nell'orazione, è di importanza cruciale ai fini della persuasione. È intuitivo che l'impatto iniziale, la strutturazione del discorso, l'ordine delle rivelazioni, l'impressione lasciata dal finale, rivestono un ruolo fondamentale per convincere l'uditorio.[xvi] Perelman fa notare come
"In un'argomentazione [...] l'ordine non può essere indifferente: l'adesione infatti dipende dall'uditorio. Ora, a mano a mano che l'argomentazione si svolge, la situazione di quest'ultimo si modifica, proprio a causa dell'argomentazione, e quale che sia l'accoglienza fatta agli argomenti."[xvii]
Come già con l'inventio, anche con la dispositio l'oratore influisce sull'uditorio a due livelli:
·il livello razionale, attraverso il rem docēre (informare in maniera convincente);

·il livello emotivo, attraverso l'animos impellĕre.

La parte iniziale (esordio) e quella finale (epilogo) dell'orazione sono tese a colpire soprattutto i sentimenti (animos impellĕre); le parti centrali (narratio, cioè relazione dei fatti, e confirmatio, cioè accertamento delle prove) cercano di convincere attraverso argomentazioni razionali (rem docēre). Ne risulta una struttura a chiasmo, che ha alle estremità l'appello ai sentimenti, al centro quello alla ragione:


Tra le quattro parti (per lo più fra la narratio e la confirmatio), può esserne inserita una quinta, la digressio o egressio (digressione), che ha la funzione di far risaltare la bravura del retore, agendo perciò in direzione dell'animos impellĕre. Una digressio è per esempio nelle Verrine l'esaltazione della Sicilia. La digressio divenne il "pezzo forte" dei retori della Seconda Sofistica (II sec. d. C.), che in essa facevano sfoggio dei più brillanti virtuosismi verbali.
L'inizio e la fine
Nei testi letterari, l'inizio e la fine rivestono un ruolo importante: sono i "confini" all'interno dei quali si apre lo "spazio artistico". I confini non sono mai posti a caso: un loro spostamento provocherebbe la risemantizzazione del testo, la creazione di un testo diverso. L'inizio
"corrisponde alla contrapposizione all'inesistente come non creato. L'atto della creazione è atto di inizio"[xviii]
Barthes nota che
"in ciascuno di noi c'è una solennità terrificante nel ‘rompere' il silenzio (o l'altro linguaggio)"[xix]
La rottura del silenzio è ancora più terrificante quando di fronte a noi è una platea carica di aspettative, forse annoiata e ostile... L'oratore deve creare un contatto, catturare l'uditorio, vincerne le resistenze: un'operazione delicata, che il minimo errore può compromettere (con conseguenze per l'intera orazione).
Altrettanto importante è la funzione della fine, che deve lasciare nell'uditorio un'impressione indelebile, deve porre l'ultimo suggello all'opera di persuasione.
"Nella sua forma canonica, l'opposizione inizio/fine comporta un dislivello: nell'esordio, l'oratore deve impegnarsi con prudenza, riserva, misura; nell'epilogo non ha più da contenersi, s'impegna a fondo, mette in scena tutte le risorse del grande gioco patetico."[xx]
L'esordio
L'esordio si articola di solito in due momenti:
1.la captatio benevolentiae, cioè la seduzione del pubblico;
2.la partitio, cioè l'annuncio delle partizioni dell'orazione.
1. La captatio benevolentiae è oggetto di grande attenzione da parte dei retori, in quanto ad essa è affidato l'impatto iniziale con l'uditorio. Viene classificata nei seguenti generi:
ühonestum, quando la causa è "normale" e non si ritiene opportuno sottoporre il giudice a pressioni;
ühumile, quando si intende risvegliare l'attenzione del giudice;
üdubium, quando la causa è dubbia e bisogna guadagnarsi il favore del giudice;
üobscurum, quando la causa è complicata e oscura, e il giudice deve essere reso ricettivo e malleabile (docilem);
üsi ha infine l'insinuatio, quando la causa è straordinaria e suscita sbalordimento.

Per esempio, nell'esordio della Pro Archia Cicerone attua la captatio benevolentiae

·con la "professione di modestia" ("Si quid est in me ingenii, iudices, quod sentio quam sit exiguum, aut si qua exercitatio dicendi..." "Se c'è in me, o giudici, un po' d'ingegno, della cui limitatezza sono consapevole, o se è in me qualche pratica dell'arte oratoria...");

·con la richiesta di scuse per essere costretto a usare un linguaggio diverso dal solito linguaggio forense, dato che l'imputato è un poeta.

L'epilogo
L'orazione si conclude con una peroratio che riveste un duplice scopo:
1.ripete e accumula in brevi formule (recapitulatio) le prove presentate nella confirmatio;
2.sollecita gli affetti dell'uditorio.
Mentre in Grecia le orazioni troppo patetiche venivano interrotte da un usciere, a Roma trionfavano invece le perorationes drammatiche, spesso accompagnate da veri e propri "colpi di scena":
"Non solum autem dicendo sed etiam faciendo quaedam lacrimas movemus, unde et producere ipsos, qui periclitentur, squalidos atque deformes et liberos eorum ac parentes institutum, et ab accusatoribus cruentum gladium ostendi et lecta et vulneribus ossa et veste sanguine perfusas videmus, et vulnera resolvi, verberata corpora nudari." (inst. or. VI, 30)
"E non solo parlando, ma anche con alcune azioni, noi muoviamo le lacrime, donde è venuta la consuetudine di presentare coloro che sono accusati essere squallidi e malvestiti, e i loro figli e i loro genitori e vediamo presentati da parte degli accusatori la spada insanguinata e le ossa raccolte dalle ferite e le vesti madide di sangue, ed essere sfasciate le ferite, essere denudate le parti percosse dei corpi" (tr. it. di O. Frilli).
Cicerone ricorda di essersi spesso servito di espedienti drammatici, tanto
"...ut puerum infantem in manibus perorantes tenuerimus, ut alia in causa excitato reo nobili, sublato etiam filio parvo plangore et lamentatione complerimus forum" (orat. XXXVIII).
"... che una volta, durante la perorazione, levai sulle braccia un bambino, e in un'altra causa, fatto alzare in piedi il nobile accusato, e sollevatone in alto il piccino, riempii il foro di pianti e lamenti".

La narratio
La narratio presenta
1.esposizione di fatti
e talvolta
2.descrizioni:
-topografie (descrizioni di luoghi e di tempi)
-prosopografie (ritratti).
 Deve essere chiara, breve, precisa, in modo da impressionare l'uditorio per la sua nudità. L'ordine di esposizione dei fatti può
-rispettare l'ordine cronologico-causale naturale (ordo naturalis)
-cambiare l'ordine cronologico-causale naturale (ordo artificialis)[xxi].
Nel primo caso, l'esposizione appare più veritiera ma rischia la monotonia; nel secondo, è più movimentata ma può sembrare artificiosa.
"L'ordo naturalis ha un effetto di media chiarezza e di media credibilità; rischia però di essere uniforme [...] e di provocare la noia [...].
L'ordo artificialis [...] si oppone alla noia, ma d'altro lato limita la credibilità media."[xxii]
La confirmatio
Dopo la relazione dei fatti (narratio), l'oratore deve presentare le "prove" che ha raccolto durante l'inventio: è il momento della confirmatio. Questa può distinguersi in tre momenti:
1.la propositio, cioè la comunicazione dello scopo del discorso, la definizione della causa;

2.l'argumentatio, cioè il resoconto delle ragioni probatorie; i manuali raccomandano di

 
partire dalle ragioni forti, continuare con le deboli, finire con le fortissime;

3.talora all'argumentatio può seguire l'altercatio (sconosciuta ai Greci), cioè una discussione con l'avvocato avversario o con un testimone che interrompe il fluire del discorso (oratio continua).

L'albero della dispositio
Schematizziamo in un "albero" anche il processo della dispositio.


Trovati gli argomenti e predisposta una "scaletta" dell'intervento, il nostro aspirante oratore deve affrontare la parte più delicata del suo percorso: tradurre le res in verba. Tutti sanno quanto grande sia lo iato fra le "idee" e la loro concretizzazione in parole. Questo vuoto è ancora più difficile da valicare, quando le parole devono essere persuasive: lo stesso concetto è infatti più o meno convincente, a seconda delle parole con cui viene presentato:
"Etsi sine re nulla vis verbi est, tamen eadem res saepe aut probatur aut reicitur alio atque alio elata verbo" (orat. XXII)
"È vero che senza la cosa la parola non ha forza, ma è anche vero che spesso la stessa cosa è approvata o respinta, a seconda che sia espressa con questa o quella parola".
Pennacini nota che:
"La commozione passa per i sentimenti e le emozioni: dunque per i contenuti e per le figure di pensiero, ma anche per le figure di parola e per i tropi, poiché produce commozione anche il sentimento estetico (la percezione del ‘bello'). L'operazione della convinzione si realizza nella parte razionale, o, meglio, ragionevole dell'uomo: all'uditore vengono presentate idee o opinioni meritevoli di approvazione (probabilia). È molto importante e spesso decisivo il modo nel quale sono presentate (‘codificate') e quindi comunicate le idee e le opinioni."[xxiii]
L'elocutio, ancora relativamente poco trattata dai Greci, riveste invece un ruolo fondamentale per Cicerone e Quintiliano, che ne fanno il cardine dell'arte del dire. Proprio a causa dell'importanza attribuitale dai Latini, nei secoli successivi lo studio della retorica si ridurrà quasi esclusivamente all'elocutio che, estrapolata dalla "macchina retorica" e allontanata dall'umanesimo ciceroniano, spesso si inaridirà in uno sterile elenco di tropi e figure.
L'elocutio si svolge
·sull'asse paradigmatico, con la electio (scelta delle parole);
·sull'asse sintagmatico, con la compositio (combinazione delle parole in frasi, periodi...).



L'elocutio è la parte della "macchina retorica" che mostra con più evidenza le affinità tra retorica e poetica (la cui separazione risale ad Aristotele, vedi La ridefinizione di Aristotele). Nell'elocutio infatti acquista rilievo determinante la funzione poetica[xxiv] del linguaggio. Il testo retorico, tuttavia, si differenzia da quello poetico-letterario perché, mentre nel secondo la funzione poetica è dominante, nel primo è asservita a quella conativa. Cicerone ricorda infatti che
"Probare necessitatis est, delectare suavitatis, flectere victoriae" (orat. XXI)
 Argomentare con prove è necessario; dilettare è dolce; piegare l'animo dell'uditorio è vincere.

Electio
L'electio implica la possibilità di scegliere fra termini diversi (in qualche modo sinonimici), che l'oratore seleziona in base a criteri sia di significato sia di significante. Determinanti per colpire l'animo dell'uditorio sono infatti i colores, i lumina, i flores, cioè gli "ornamenti" del linguaggio, le figure.

Il concetto di figura
Nel corso dei secoli, la classificazione delle figure retoriche ha scatenato una vera e propria "furia tassonomica":
"centinaia di termini, dalle forme banalissime (epiteto, reticenza) o veramente barbare (anantapódoton, anadiplosi, epanadiplosi, tapeínōsis, ecc.), decine di raggruppamenti"[xxv]

Altrettanto cavillosa è la distinzione fra tropi e figure, tropi grammaticali e tropi retorici, figure di grammatica e figure di retorica, figure di parola e figure di pensiero, tropi e figure di dizione, individuate dagli antichi retori, spesso non senza contraddizioni e polemiche. Quintiliano, per esempio, nota che non c'è accordo sulla definizione di tropi e figure, e che molti autori confondono i due concetti.[xxvi]
Barthes propone di semplificare la questione, riducendo le opposizioni alla coppia tropo/figura:
"Nel Tropo la conversione di senso [tropo=conversione, translatus] porta su di una unità, su una parola (ad esempio, la catacresi: la gamba del tavolo, il bracciolo della poltrona), nella Figura, la conversione richiede più parole, tutto un piccolo sintagma (ad esempio, la perifrasi: le facilitazioni della conversazione)"[xxvii]

Noi prescinderemo anche da questa distinzione, concentrando invece il discorso sul concetto di figura. La figura non è un incidentale abbellimento dell'espressione ottenuto con l'applicazione di abili "trucchi" del mestiere (come sembrerebbe sostenere una ricerca delle "figure" e dei "tropi" che non vengano integrati in una struttura complessiva: qui un'ipallage, là una metafora, ma il "succo" del discorso non è apparentemente toccato dal ritrovamento di queste particolarità espressive): la figura è la configurazione visibile dello spazio che separa il linguaggio letterario (e oratorio) da quello corrente, è
"conformatio quaedam orationis remota a communi et primum se offerente ratione"
una forma di linguaggio che si allontana dalla maniera comune e che per prima si presenta[xxviii]
La figura evidenzia lo "scarto", il translatus, che allontana l'espressione del poeta (e del retore) da quella comune.
"Lo spirito della retorica è tutto in questo possibile iato tra il linguaggio reale (quello del poeta) e un linguaggio potenziale (quello che avrebbe impiegato l'espressione semplice e comune) che basta ristabilire col pensiero per stabilire uno spazio di figura. Questo spazio non è vuoto: contiene ogni volta una certa modalità dell'eloquenza o della poesia".[xxix]

Ricorrono costantemente, parlando di figura, le opposizioni binarie: linguaggio artistico/linguaggio non artistico, espressione poetico-retorica/espressione semplice e comune, scarto/norma. In effetti, la figura non esiste come polo unico, non può cioè essere ristretta ad uno dei due estremi ricordati: la figura è rapporto, contrasto, dialettica; la figura non esiste di per sé, ma in quanto relazione tra opposti. È
"il rapporto norma-scarto a costituire il fatto stilistico e non lo scarto come tale"[xxx]
In quanto rapporto tra opposti, la figura è metafora della retorica.

Compositio
Con la compositio siamo giunti al motore della "macchina retorica": un motore delicatissimo, che deve girare con ritmo e suono musicale. È qui infatti che emergono con più evidenza le somiglianze fra l'arte dell'oratore e quella del musicista e del poeta: già a partire dal termine compositio[xxxi].
Nell'accingersi a trattarne, Cicerone non sa nascondere l'orgoglio per le sue doti di "compositore":
"De verbis enim componendis et de syllabis propemodum dinumerandis et dimetiandis loquemur: quae etiamsi sunt, sicuti mihi videntur, necessaria, tametsi fiunt magnificentius quam docentur [...]. Nam omnium magnarum artium sicut arborum altitudo nos delectat, radices stirpesque non item; sed esse illa sine his non potest. Me autem sive pervagatissimus ille versus, qui vetat ‘artem pudere proloqui, quam factities', dissimulare non sinit quin delecter"(orat. XLIII)
"Ora devo trattare e della composizione delle parole e del computo e della misura delle sillabe: operazion che anche se sono, come a me sembra, necessarie, tuttavia hanno ben altra bellezza, messe in pratica, che se insegnate [...]. Infatti per tutte le più grandi arti avviene come per gli alberi: ci piacciono le fronde sulla cima, non il tronco e le radici; eppure senza questi non sarebbero neanche le fronde. E a me poi quel diffusissimo verso che vieta ‘vergogna di parlare dell'arte che eserciti' non consente di dissimulare che io me ne compiaccio".
Numerose e spesso squisitamente tecniche sono le nozioni necessarie per procedere alla "composizione":
"Collocabuntur igitur verbis, ut aut inter se quam aptissime cohaereant extrema cum primis eaque sint quam suavissimis vocibus; aut ut forma ipsa concinnitasque verborum conficiat orbem suum: aut ut comprehensio numerose et apte cadat" (orat. XLIV)
"Saranno dunque disposte le parole in modo che l'ultima sillaba dell'una s'unisca alla prima della seguente, e rendano dolce suono; o che la forma stessa e l'eleganza delle parole compongano una certa unità ritmica; o infine che tutto quanto il periodo si compia con cadenza armoniosa".
Particolare attenzione va posta al ritmo, determinato (come nella poesia) da metri e piedi:
"Fluit omnino numerus a primo tum incitatius brevitate pedum tum proceritate tardius. Cursum contentiones  magis requirunt, expositiones rerum tarditatem" (orat. LXIII)
"Già fin dal principio il ritmo si svolge o più rapido per la brevità dei piedi, o più lento per la lunghezza: i momenti appassionati esigono la rapidità, la lentezza conviene alle esposizioni."
Fondamentale è il metro delle clausulae, le chiuse dei periodi, che devono variare numerose et iucunde (orat. LXIV), dal cretico al peonio allo spondeo al docmio[xxxii]... Cicerone critica i "retori d'Asia" che concludono tutti i periodi con un dicoreo[xxxiii], generando noia e stanchezza nell'uditorio.
Oltre al mutare dei ritmi, l'oratore deve curare l'accostamento dei suoni e la loro "disposizione simmetrica", in una sorta di partitura musicale:
"la struttura d'un periodo dipende da un sistema interno di commi (battute) e di colon (membri); il loro numero è variabile e discusso; in generale, si richiedono 3 o 4 colon, posti in opposizione (1/3 o 1-2/3-4); il riferimento di questo sistema è vitalista (il va e vieni del respiro) o sportivo (il periodo riproduce l'ellissi dello stadio: un'andata, una curva, un ritorno)"[xxxiv]
Dionigi di Alicarnasso parla invece del periodo come di una costruzione "dinamica", con un "movimento" che può essere
"1) selvaggio, spezzato (Pindaro, Tucidide), 2) dolce, concatenato, oliato (Saffo, Isocrate, Cicerone), 3) misto, riserva dei casi fluttuanti.
L'armonia delle parole, benché ottenuta con artifici, non deve risultare artificiosa: con pagine che ricordano quelle di Baldassar Castiglione sulla sprezzatura, Cicerone raccomanda di conferire all'orazione un'impressione di naturalezza, di armonia innata, quasi fluisse spontanea e non costruita "a tavolino": come una sinfonia che, mentre viene eseguita, non rivela i travagli della composizione .
L'albero dell'elocutio
L'albero dell'elocutio, sfrondato dalle capillari distinzioni fra tropi, figure ecc., risulta molto semplice:


Se l'elocutio è la stesura della partitura musicale, l'actio  ne è l'esecuzione. Come un musicista al momento dell'esibizione, l'oratore deve accordare il suo strumento (la voce); come un attore, non deve lasciare al caso nessun movimento, nessuna espressione.
"Est autem etiam in dicendo quidam cantus obscurior; non hic et Phrygia et Caria rhetorum epilogus paene canticum, sed ille, quem significat Demosthenes et Aeschines, cum alter alteri obicit vocis flexiones. In quo illud etiam notandum mihi videtur ad studium persequendae suavitatis in vocibus: ipsa enim natura, quasi modularetur hominum orationem, in omni verbo posuit acutam vocem, nec una plus nec a postrema syllaba citra tertiam; quo magis naturam ducem ad aurium voluptatem sequatur industria. Ac vocis bonitas quidem optanda est, non est enim in nobis; sed tractatio atque usus in nobis. Ergo ille princeps variabit et mutabit, omnes sonorum tum intendens tum remittens persequetur gradus. Idemque motu sic utetur, nihil ut supersit. In gestu status erectus et celsus, rarus incessus nec ita longus, excursio moderata eaque rara, nulla mollitia cervicem, nullae argutiae digitorum, non ad numerum articulus cadens, trunco magis toto se ipse moderans et virili laterum flexione, brachii proiectione in contentionibus, contractione in remissis. Vultus vero, qui secundum vocem plurimum potest, quantam afferet tum dignitatem venustatem! In quo cum effeceris ne quid ineptum aut vultuosum sit, tum oculorum est quaedam magna moderatio. Nam ut imago est animi vultus, sic indices oculi; quorum et hilaritatis et vicissim tristitiae modum res ipsae de quibus agentur temperabunt"(orat., XVIII)
"Perché anche nei discorsi c'è una specie di musica, appena dissimulata; non già come quella dei retori di Frigia o della Caria, le cui perorazioni paion quasi cantici, ma quella di cui parlano Demostene ed Eschine quando si rinfacciano l'un l'altro le modulazioni della voce. E a tal proposito, anche questo mi par da osservare nello studio rivolto a raggiungere questa dolcezza di voce, che la natura stessa, quasi per dare armonia al discorso umano, ha posto in ogni parola un accento, e non più d'uno e non oltre la terz'ultima sillaba; onde l'arte non ha pel piacere dell'udito che a seguir la guida della natura. Una bella voce si può desiderare, ma non è in poter nostro; però dipende da noi l'esercizio. Il nostro grande oratore saprà dunque variare e modulare, e trascorrere per tutte le gradazioni della voce, ora elevandola ed ora abbassandola. E nei movimenti si comporterà in modo da evitare ogni esagerazione; eretto nel portamento di rado muoverà qualche passo; anche più di rado li affretterà quasi correndo; né avrà atteggiamenti leziosi del capo né andrà giocherellando con le dita, né le muoverà quasi a scandire l'armonia delle parole, e regolerà tutti i moti del corpo con maschia inflessione del petto, e spingerà nell'impeto le braccia e le ritrarrà nella calma. E quanto gli accrescerà d'efficacia e di decoro l'espressione del volto, che dopo la voce è pur di tanta potenza! Ma non deve aver nulla di affettato, e badare al muover degli occhi; chè come il volto è specchio dell'anima, gli occhi ne sono gl'interpreti: onde le espressioni di letizia o di tristezza asseconderanno la trattazione del soggetto (tr. it. di Alessandro Donati).
I manuali prescrivono esercizi per migliorare la qualità e la quantità della voce, per regolarne il timbro, per perfezionare la dizione. L'oratore deve "farsi il fiato" praticando una sorta di jogging retorico:
"Exercendus autem est, ut sit quam longissimus; quod Demosthenes ut efficeret, scandens in adversum continuabat quam posset plurimos versus" (inst. or. XI, 54)
"È necessario, poi, fare un grande esercizio, perché il fiato sia il più lungo possibile, e Demostene, per raggiungere questo intento, ripeteva ad alta voce il maggior numero di righe possibile, salendo su un colle." (tr. it. di O. Frilli).
Altrettanta cura va posta nei gesti: questi infatti devono accordarsi, oltre che con la voce, anche con i toni e i contenuti del discorso. La loro importanza è grande perché, colpendo la vista, possono lasciare un'impronta tale
"ut ipsam vim dicendi nonnunquam superare videatur" (inst. or. XI, 67)
"da superare talvolta la potenza stessa della parola".
Quintiliano fornisce indicazioni precise per le movenze di ogni parte del corpo; leggendo le sue pagine, si capisce come il discorso scritto (a cui necessariamente si limita la nostra conoscenza dell'oratoria antica) sia solo una parte, e nemmeno la più importante, di quello spettacolo totale che doveva essere l'orazione. Uno spettacolo nel quale il corpo dell'oratore era elemento segnico, di valore pari a quello delle parole.
Sotto una parvenza di spontaneità (torna l'analogia con la sprezzatura rinascimentale), ogni gesto, ogni postura è "segno" di un codice non scritto: la testa abbassata significa umiltà; alzata, arroganza; inclinata da un lato, debolezza; rigida e immobile, rozzezza e indomabilità. Lo sguardo deve assumere la stessa direzione del gesto,
"exceptis quae aut damnare aut concedere aut a nobis removere oportebit, ut idem illud vultu videamur aversari,manu repellere" (inst. or. XI, 70)
"eccettuati i casi in cui saremo chiamati a condannare o a concedere, o a rifiutare, così che sia evidente che quella stessa cosa che con l'espressione del volto aspramente riproviamo, la allontaniamo, con la mano, da noi". (tr. it. di O. Frilli).
 Ancora più importante è l'espressione del volto, veicolo comunicativo più potente e immediato della parola stessa.
"Dominatur autem maxime vultus. Hoc supplices, hoc minaces, hoc blandi, hoc tristes, hoc hilares, hoc erecti, hoc summissi sumus; hoc pendent homines, hunc intuentur, hic spectatur, etiam antequam dicimus; hoc quosdam amamus, hoc odimus, hoc plurima intelligimus, hic est saepe pro omnibus verbis" (inst. or. XI, 72).
"Ma la maggiore importanza è data dall'espressione del volto. Per questa siamo supplichevoli, minacciosi, lusinghieri, tristi, lieti, alteri, umili; a questa rimangono sospesi gli ascoltatori, questa guardano, questa è scrutata, anche prima che parliamo; con questa esprimiamo per certi amore e odio, per questa comprendiamo moltissime cose, ed è, assai spesso, più eloquente di tutte le parole" (tr. it. di O. Frilli).
Anche le mani gareggiano con le parole in capacità espressiva, tanto da tracciare, con i loro movimenti, la grammatica di un communis sermo universale:
"Manus vero, sine quibus trunca esset actio ac debilis, vix dici potest, quot motus habeant, cum paene ipsam verborum copiam consequantur. Nam ceterae partes loquentem adiuvant, hae, prope est ut dicam, ipsae loquuntur. Annon his poscimus, pollicemur, vocamus, dimittimus, minamur, supplicamus, abominamur, timemus, interrogamus, negamus; gaudium, tristitiam, dubitationem, confessionem, paenitentiam, modum, copiam, numerum, tempus ostendimus? Non eaedem concitant, inhibent, probant, admirantur, verecundantur? Non in demonstrandis locis ac personis adverbiorum atque pronominum obtinent vicem?[xxxv]Ut in tanta per omnes gentes nationesque linguae diversitate hic mihi omnium hominum communis sermo videatur" (inst. or. XI, 85-87)
"Delle mani, poi, senza le quali ogni declamazione sarebbe incompleta e fiacca, a stento si può descrivere la varietà dei movimenti, poiché essi raggiungono quasi la forza stessa delle parole. Se, infatti, gli altri elementi aiutano l'oratore, le mani, bisogna pur dire, parlano da sole. O non è forse vero che con queste chiediamo, promettiamo, chiamiamo e mandiamo via, minacciamo, supplichiamo, esprimiamo odio, paura, interroghiamo, neghiamo, e manifestiamo gioia, tristezza, incertezza, e certe ammissioni, pentimento modestia, quantità, numero, e tempo? E non sono sempre le mani che rivelano concitazione, impaccio, approvazione, meraviglia, pudore? Forse che nella enumerazione di luoghi e di persone, non occupano il posto degli avverbi e dei pronomi? Cosicché, in tanta diversità linguistica di tutti i popoli e di tutte le genti, questo delle mani sembra a me veramente un linguaggio di carattere universale" (tr. it. di O. Frilli).

Non ultimo fra gli strumenti di persuasione è l'abbigliamento dell'oratore, che deve essere splendidus et virilis, senza eccedere né in ricercatezza, né in trascuratezza. Con competenza da stilista, Quintiliano dà indicazioni sulla lunghezza della tunica, sulle pieghe della toga, sulla posizione della cintura, sugli eventuali gioielli... L'abito si fa portatore di significato, in accordo con la voce:
"Et ut vox vehementior ac magis varia est, sic amictus quoque habet actum quendam velut proeliantem" (inst. or. XI, 145).
"E come la voce è accesa e più varia di sfumature, così l'abito assume quasi un aspetto pugnace" (tr. it. di O. Frilli).
Così come l'eloquio, anche la voce, il gesto e l'abbigliamento vanno adattati al rango e alla tipologia del pubblico.
Mentre inventio, dispositio ed elocutio hanno lasciato evidenti tracce negli esercizi scolastici di composizione dei temi, l'actio è oggi studiata solo nelle scuole di recitazione, nonché nei corsi che insegnano ai manager e agli uomini politici i trucchi per assumere un look gradito al pubblico. Anche da questo punto di vista, la retorica appare antesignana della cultura mediatica.

Memoria
Oggi l'arte della memoria è quasi perduta: le previsioni di Platone sulle conseguenze nefaste della diffusione della scrittura, sembrano essersi avverate[xxxvi]. Proprio come temeva il filosofo, gli uomini hanno cessato di esercitare la memoria e, fidandosi dello scritto, richiamano "alla mente non più dall'interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei". Forse, però, responsabile del declino della memoria non è stata tanto l'invenzione della scrittura, quanto quella della stampa: la mnemotecnica, infatti, elaborata nell'antichità con fini oratori e didattici, è fiorita fino al tardo Rinascimento, assumendo, a partire dal Medioevo, anche significati gnoseologici e magici (basti pensare ai libri di Giordano Bruno dedicati all'argomento). Prima della stampa, i costi e le difficoltà di distribuzione dei testi scritti erano tali, che conveniva comunque affidarne i contenuti alla memoria. Oggi non sappiamo ancora quali saranno le conseguenze della terza grande rivoluzione nella comunicazione linguistica, cioè l'avvento del computer[xxxvii] : difficilmente andranno in direzione di un recupero delle capacità mnemoniche.[xxxviii]
L'oratore del I secolo a. C. del quale abbiamo seguito il percorso attraverso i meandri della "macchina retorica", aveva sicuramente molti più strumenti mnemonici di noi. Insegnanti e manuali lo avevano infatti istruito nell'arte di associare le nozioni da ricordare a luoghi, poiché, come ricorda Quintiliano,
"iuvari memoriam signatis animo sedibus" (inst. or. XI, 17)
"la memoria si avvale di collocazioni ben segnate nella mente".
L'oratore doveva immaginare un luogo, o una serie di luoghi, per esempio un palazzo composto da un certo numero di stanze. A ogni stanza andava associato un concetto, rappresentato da un signum posto nella stanza: per esempio, al concetto di "navigazione" un'àncora, a quello di milizia un'arma. Disponeva poi i signa nelle varie stanze, in modo che, dal vestibolo all'atrio all'impluvio alle sale di conversazione alle camere da letto, riproducessero l'ordine in cui i vari concetti sarebbero comparsi nell'orazione. L'immagine mentale poteva essere arricchita di particolari: statue, mobili, ecc., presso ognuno dei quali andava posto un signum di qualche episodio o pensiero. Il luogo poteva essere immaginario o reale: una casa, un'opera pubblica, i bastioni della città, una pittura... Secondo Cicerone, i luoghi sono come le tavolette di cera, i signa come le lettere: l'orazione è "riscritta" nella mente sotto forma di immagini (quasi una rivincita per Platone: per operare, la memoria deve liberarsi dell'alfabeto, e sostituirlo con immagini).
 Quintiliano paragona invece il susseguirsi degli argomenti nella memoria a una danza.
"Ita, quamlibet multa sint, quorum meminisse oporteat, fiunt singula conexa quodam choro, nec errant coniungentes prioribus consequentia solo ediscendi labore" (inst. or. XI, 20)
"In tal modo, per quanto numerose siano le cose che è necessario ricordare, vengono una per una collegate fra loro come un'ordinata danza, e non possono sbagliare costoro, unendo i precedenti elementi ai susseguenti: tutto questo con la sola fatica di imparare a memoria" (tr. it. di O. Frilli).
Altri trucchi per ricordare consistono nel dividere l'orazione in parti, nel ricordare le parole scritte sulle tavolette di cera, nell'imparare leggendo a voce alta o, in alternativa, facendosi leggere i brani da un altro:
"Qui autem legente alio ediscit, in parte tardatur, quod acrior est oculorum quam aurium sensus; in parte iuvari potest, quod, cum semel aut bis audierit, continuo illi memoriam suam experiri licet et cum legente contendere" (inst. or. XI, 34).
"Colui, poi, che impara a mente quello che viene letto da un altro, sotto un certo aspetto viene ostacolato, poiché la vista ha una prontezza maggiore dell'udito; sotto un altro può trovare vantaggio, ché, non appena abbia ascoltato due o tre volte, subito può saggiare la propria memoria o gareggiare con il lettore" (tr. it. di O. Frilli).
Unica e somma arte della memoria, conclude Quintiliano, sono però esercizio e applicazione:
"multa ediscere, multa cogitare, et si fieri potest cotidie, potentissimum est" (inst. or. XI, 40)
"il criterio più valido rimane quello di imparare molte cose, di meditare molto, e giornalmente, se questo possiamo fare" (tr. it. di O. Frilli).
Anche l'esercizio della memoria, perciò, riafferma per i Romani la concezione umanistica della retorica, arte fondata su studi ampi e approfonditi, su un amore per la cultura che diventa pratica di vita.
 
Talento o tecnica?
L'illustrazione della macchina retorica può far nascere una domanda: il possesso di tanti e tali tecnicismi è veramente necessario per un buon oratore? Non è forse vero che esistono individui naturalmente eloquenti, che sanno essere persuasivi senza imprigionare il loro discorso in schemi o appesantirlo con cavilli retorici? E inoltre: l'enfasi sul lato tecnico non rischia di impoverire la dote più alta, propria solo dell'uomo, e cioè la capacità di comunicare attraverso la parola? Sono domande che gli uomini si pongono dagli albori dell'arte del dire, e alle quali hanno dato risposte diverse a seconda del contesto culturale e delle convinzioni personali. La celebre definizione di Catone (poi ripresa da Cicerone), secondo la quale l'oratore è vir bonus dicendi peritus, cerca di conciliare il valore dell'attitudine naturale sorretta da salda moralità (bonus) con il possesso di raffinate nozioni tecniche (dicendi peritus).
Allargando il discorso, si nota che domande simili sorgono anche quando si sottolineano gli elementi tecnici delle produzioni letterarie. Il poeta avrà contato le sillabe per ottenere un certo metro? Oppure (come chiese Saussure constatando gli anagrammi presenti nella poesia latina di Pascoli) certi "giochi" linguistici sono consapevoli o inconsci?
"La parola è una potente signora", afferma Gorgia. Coloro che conoscono gli strumenti per sedurla e domarla (il poeta, il retore) hanno agli occhi di molti una sorta di potere sciamanico, occulto[xxxix]: tradurre tale potere in norme tecniche significa banalizzarlo, forse inibirlo.
Consci dell'impossibilità di dare una risposta definitiva (anche perché in tutto ciò che riguarda l'uomo, e nulla è più umano del linguaggio, non c'è mai una risposta definitiva), lasciamo la parola
a uno scrittore, Raymond Queneau, e a un poeta, Eugenio Montale.
In polemica con l'idea della letteratura come sregolata esplosione dell'inconscio , Queneau afferma:
"Il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che conosce è più libero del poeta che scrive quel che gli passa per la testa ed è schiavo di altre regole che ignora." (Segni, cifre e lettere)
A chi gli chiedeva come nasceva una poesia, Montale rispose che
"l'incubazione di una poesia consiste nel portarsi dentro a lungo una parola, con la sua carica fonica, che il poeta non sa ancora a che gioco combinatorio assoggetterà".[xl]
Forse anche per il retore gli schemi e le regole non sono gabbie ma reti di sostegno, pergole sulle quali il processo creativo ramifica e si espande, genera tralci e viticci; forse anche per lui le parole si legano in "circuiti" che trascinano l'uditorio. Per lo meno, è quanto auguriamo al nostro ipotetico oratore, che ormai, giunto al termine del viaggio sulla macchina retorica, si appresta a pronunciare in pubblico il suo discorso.

NOTE

[i] R. Barthes, op. cit., pp. 55-57. Roland Barthes, La retorica antica, tr. it. di Paolo Fabbri, Milano, Bompiani, 1972, pp. 56-57 (L'ancienne rhétorique, 1970).
[ii] Roland Barthes, op. cit., p. 59. Un cambiamento di significato altrettanto illuminante di una diversa impostazione culturale si ha per il termine auctor nel latino medievale e nell'italiano. Per noi l'autore è il creatore dell'opera, per i medievali auctor era colui che era dotato di auctoritas.
[iii] Dal Traité des Tropes (1730) citato da Roland Barthes, op. cit., p. 75.
[iv] Chaïm Perelman - Lucie Olbrechts-Tyteca, op. cit., p. 89.
[v] G.B.Vico, De nostri temporis studiorum ratione, ed. Ferrari, vol. II, trad. Corsano, p. 38.
[vi] Chaïm Perelman - Lucie Olbrechts-Tyteca, Trattato dell'argomentazione - La nuova retorica, Torino, Einaudi, 1966, tr. it. di Carla Schick e Maria Mayer, p. 21 (Traité de l'argumentation. La nuovelle rhétorique, Presses Universitaires de France, 1958).
[vii] Chaïm Perelman - Lucie Olbrechts-Tyteca, op. cit., p. 21.
[viii] Chaïm Perelman - Lucie Olbrechts-Tyteca, op. cit., p. 21.
[ix] Roland Barthes, op. cit., p. 88.
[x] Roland Barthes, op. cit., p. 84.
[xi] Nel linguaggio giuridico attuale si parla di "prove" in due accezioni: con la prima si allude a un risultato, con l'altra a uno strumento. È prova ciò che si assume come dimostrazione dell'esistenza e/o di determinate modalità di un accadimento o di una situazione (prova come "fatto rappresentato"), ma si dice prova anche il "fatto rappresentativo", ossia il mezzo di cui ci si serve per ottenere quella dimostrazione. Nel primo significato la prova è concepita come un'entità inscindibile di "elementi": solo dal concorso di una pluralità di dati si trae la "prova" in senso pieno. Sono "fonti di prova" le persone o le cose da cui la prova può essere tratta.
Si distingue inoltre fra:
·prova in senso stretto: prova storico-rappresentativa o diretta (dà la rappresentazione propria del fatto da provare);
·indizio: prova logica o critica o indiretta (fornisce la rappresentazione di un fatto diverso da quello da provare, al quale si può risalire dal primo mediante ulteriori mediazioni logiche).
I mezzi di prova idonei a fornire al giudice risultanze probatorie direttamente utilizzabili sono: testimonianza, esame delle parti, perizia, confronti, ricognizioni, esperimenti giudiziali, documenti.
I mezzi di ricerca della prova, che non costituiscono di per sé fonti di convincimento, ma svolgono una funzione servente rispetto ad entità dotate di attitudine probatoria, sono: ispezioni e perquisizioni, sequestro probatorio, intercettazione.
[xii] Roland Barthes, op. cit., p. 63.
[xiii] Roland Barthes, op. cit., p. 68.
[xiv] Roland Barthes, op. cit., p. 87.
[xv] Roland Barthes, op. cit., p. 88.
[xvi] L'arte della dispositio può essere paragonata ai concetti narratologici di intreccio e fabula: il primo è l'ordine degli eventi così come si presentano nel testo narrativo (con flash-backs, prolessi...), la seconda è l'ordine cronologico-causale che gli eventi avrebbero nella "realtà". È ovvio che l'ancicipazione o la posticipazione di elementi della narrazione influisce sulla percezione che il lettore ha dell'evento raccontato.
[xvii] Chaïm Perelman - Lucie Olbrechts-Tyteca, op. cit.,p. 514.
[xviii] J.M. Lotman, La struttura del testo poetico, tr. it. di E. Bazzarelli, E. Klein e G. Schiaffino, Milano, Mursia, 1976, p. 256 (Struktura chudožestvennovo teksta, Mosca, Iskusstvo, 1970).
[xix] Roland Barthes, op. cit., p. 92.
[xx] Roland Barthes, op. cit., p. 91.
[xxi] Tornando alla già citata distinzione fra fabula e intreccio, si può dire che la prima corrisponde all'ordo naturalis, il secondo all'ordo artificialis.
[xxii] Heinrich Lausberg, Elementi di retorica, tr. it. di Lea Ritter Santini, Bologna, Il Mulino, 1969 (Elemente der literarischen Rhetorik, München, 1967).
[xxiii] Adriano Pennacini, L'arte della parola, in Forme del pensiero, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 2002, pp. 360-361 (originariamente pubblicato su Lo spazio letterario di Roma antica, Roma 1988, vol. II)
[xxiv] Riprendiamo il termine, in uso anche in altri modelli funzionali del linguaggio, dalla già citata analisi di Jakobson (vedi sopra nota viii).
[xxv] Roland Barthes, op. cit., p. 100.
[xxvi] Inst. Or. 9,1,4.
[xxvii] Roland Barthes, op. cit., p. 101.
[xxviii] Inst. Or. 9,1,4.
[xxix] G. Genette, Figure - Retorica e strutturalismo, tr. it. di F. Madonia, Torino, Einaudi, 1969, p. 189 (Figures, Paris, Editions du Seuil, 1966).
[xxx] Gruppo μ, Retorica generale - Le figure della comunicazione, tr. it. di M. Wolf, Milano, Bompiani, 1976, p. 30 (Rhétorique generale, Paris, Librerie Larousse, 1970).
[xxxi] Molti vocaboli usati per parlare della compositio sono ripresi dal linguaggio della musica e della poesia: vox, sonus, numerus, modus, pes, cantus...
[xxxii] Il cretico è un piede formato da una sillaba lunga, una sillaba breve e un'altra lunga; il peonio è un piede formato da tre sillabe brevi e una lunga; lo spondeo è un piede formato da due sillabe lunghe; il docmio è un piede formato da cinque sillabe.
[xxxiii] Il dicoreo è un piede formato da due corei o trochei (un coreo o trocheo: una sillaba lunga e una breve).
[xxxiv] R. Barthes, op. cit., p. 108.
[xxxv] Questa notazione di Quintiliano è confermata dall'etimologia dei "deittici" (i pronomi o gli avverbi che rimandano al contesto di riferimento, come se si indicasse con il dito).
[xxxvi] Com'è noto, nell'ultima parte del Fedro Socrate racconta a Fedro la leggenda del dono della scrittura agli Egizi da parte del dio Theuth, inventore dei numeri, del calcolo, della geometria, dell'astronomia, del gioco del tavoliere e dei dadi, e infine delle lettere dell'alfabeto. Theuth dice al faraoneThamus (forse da indentificarsi col dio Ammone): "Questa scienza, o re, renderà gli Egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria". Ma Thamus replica: "L'alfabeto [...] ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno alla mente non più dall'interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l'apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d'essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti." (Phaedr.274e, 275a. Tr. it. di P.Pucci).
[xxxvii] Prima della scrittura, la lingua era solo parlata: dunque il messaggio linguistico era affidato alla comunicazione diretta, hic et nunc, e limitato nel tempo e nello spazio; la scrittura fu una prima "rivoluzione", che permise ai messaggi di permanere nel tempo e nello spazio oltre il momento della loro emissione; grazie alla stampa, la seconda "rivoluzione", la diffusione dei testi scritti si moltiplicò in modo potenzialmente illimitato; la terza "rivoluzione", il computer, permette non solo la diffusione illimitata, ma anche la modificazione e il trattamento dei testi, nonché la loro conservazione in banche-dati virtuali, che potrebbero portare un giorno a un cambiamento totale del nostro modo di considerare il libro.
[xxxviii] Oggi si assiste a una parziale reviviscenza della mnemotecnica in corsi per manager, studiosi, attori; si tratta però di un fenomeno ancora poco diffuso, e dai costi per lo più proibitivi.
[xxxix] Potere riconosciuto da molte culture: basti pensare al mitico Orfeo, che con la sua arte sapeva addirittura ammansire gli animali, al cieco Omero (nel quale, come in molti profeti, alla cecità fisica fa da contraltare la potenza dell'"occhio" interiore) o ai poeti vates della Roma arcaica.